Il tema e l’icona della “Sposa” si ripropone in questi
giorni con due opere di autori italiani, a metà tra denuncia e testimonianza di
realtà, che diventano anche simboli di un tempo storico, attraverso
un’operazione artistica.
La Sposa è un’icona di lungo corso e con il diffuso
benessere e con una certa globalizzazione del rituale “in bianco” secondo il modello
occidentale, e complice forse il cinema,
disney e i media dei “matrimoni reali”
ecc, è diventata anche un’icona diffusa. Si sposano
in bianco e all’occidentale un po’ dappertutto, anche in certe realtà
islamiche, così come in Oriente, specie
nei ceti medi più consapevoli e occidentalizzati.
Il cinema alimenta l’icona e se ne nutre . Così ecco che in
anni recenti abbiamo visto (sottolineati, a dire il vero dai titoli in
traduzione italiana , ma la sostanza dei personaggi resta) sia una sposa
“turca”, con cui Fatih Akin narrava l’integrazione turco-tedesca, sia una
“siriana” con cui il regista Eran Riklis mostrava conflitti meno noti della galassia
mediorientale e drusa in particolare, e poi anche una sposa “promessa” con cui la brava regista israeliana
Rama Burshtein illustra pieghe interne del suo paese, specie nella
sua componente ultraortodossa.
Parliamo di Icone, ma le Spose ( e le conseguente immagine
della Maternità correlata ) sono realtà, sono due tendenze della realtà.
Da un lato, un Occidente occupato a consumare e celebrare la propria opulenza
narcisistica in eccedenza, in autoerotismo
da troppe merci, troppo concentrati su questo piano del piacere individuale che
si riflette poi in uno stile di vita altrettanto individualistico – e dunque
con inevitabili riflessi demografici –
fare famiglia e figli è mettere da
parte per il futuro, in una
redistribuzione su più generazioni della
ricchezza, un “comunismo dell’avvenire”.
C’è più di un segnale che possiamo vedere intorno a noi: uno, le tante donne migranti con figli o incinte negli ospedali; e l’altro, un’immagine fortemente simbolica, secondo me: le carrozzine piene di rifiuti, esse stesse buttate via, il loro mancato riuso per altri figli che non arriveranno di quei passeggini che invece vengono riciclate dai tanti nomadi o altri raccoglitori di immondizie da riciclare, appunto: guarda caso, razzolando dentro in ostri eccessi, negli scart idi quella società tendente all’individualità radicale, c’è più monnezza che bambini, insomma.
Figli da spose migranti, non figli da occidentali stanziali.
sul varco tra Occidente e Non-Occidente, sono questi due movimenti – e movimenti legati alla
maternità e per estensione (generica) alle spose -
che mi colpiscono, nella
coincidenza d’uscita tra il libro di Covacich e il film di Del Grande e soci.
Al contrario del film, il libro dello scrittore triestino è
un dispositivo narrativo ben riuscito, anche e proprio nel suo essere
sperimentale, sincero, lucido. Dico dispositivo perché Covacich prosegue nel
suo tentativo di creare e integrare letteratura mescolando situazioni esistenziali
autobiografiche con spunti di reportage e con invenzioni narrative, inseguendo
l’assoluto singolare ed esemplare al tempo stesso, mettendo assieme finzione,
autobiografia, giornalismo.
Seguiamo così Pippa, la sposa-artista, non
a caso nel pezzo in overture di libro: la sua operazione difficile da definire.
Andava, fisicamente, verso il medioriente, vestita da sposa, come corpo gettato
in una missione d’arte: “una cosa
esposta” dunque, lei stessa sarà l’opera e insieme “la metonimia dell’opera, cimelio di una
missione ecumenica” come scrive Covacich. Non la missione di colonizzare
religiosamente ma forse quella che ogni arte mette in atto: ovvero creare un “eros
generatore” di idee, immagini, simboli, tentando di inseminare un corpo resistente e
renitente. Ma fallendo, almeno per questa volta, con la povera Pippa Bacca
aggredita e uccisa, con dolore.
Un dolore molto diverso da quelle donne-artiste che si sono esposte in video, o con installalzioni o con operazioni chirurgiche , che si sono fatte appendere ai ganci la loro carne nelle biennali. Loro erano donne che usando in modo così diretto e doloroso il loro corpo ma in scena, sulla scena dell’arte creavano, come scrive Covacich, “soggezione e scandalo, gli stessi sentimenti provocati dal Cristo sulla croce”. Tuttavia Pippa esce da quella scena riparata, sotto i riflettori. Sottratta la scena, resta una “missione per la quale si è deciso di prendere i voti” e il sacrificio e il supplizio si riavvicinano ad un esperienza totale. Non cercata, ma di fatto totale.
Nel libro di Covacich c’è anche un racconto che illumina una
sorta a di “ecce homo” neonato, ovvero l’esposizione
dei figli abbandonati in una moderna “Ruota degli esposti” di periferia. Qui in
un ospedale romano Covacich coglie, durante un reportage, una storia
alternativa di maternità e cura dei neonati, in una diversa triangolazione
tra la madre naturale che abbandona,
l’ospedale moderno di Roma che usa “la ruota” e una nuova “ragazza Carla”, un
impiegata dell’azienda sanitaria, avvolta in una sua depressiva solitudine,
estenuata da una madre pressante e dall’ennesimo maschio fluttuante e fuggitivo.
E’ Carla a trovare il bambino abbandonato, e per un attimo è questo figlio- ready made a dare luce di
possibilità, per lei che non riesce a creare una famiglia perché ogni volta con
gli uomini è la stessa storia: “nemmeno
stavolta è andata bene, sarebbe bastato uno meno stronzo... e invece la
felicità se la spartiscono tutti questi che scendono dalle macchine salutandosi
da lontano, e a lei non resta più niente”. invece l’attimo di un abbraccio e
una generazione traslata – abbandono, ruota degli esposti, ospedale, comunità –
mettono Carla nella possibilità di partecipare a quella irriducibile opera che è la vita che
prosegue e si genera nel tempo. E diventa Tempo e Storia, storia non solo bambini. Così ancora, per vie
indirette, il futuro nell’amore di un nipote con cui l’io narrante-autore gioca
a freesbee lo rende palpabile, immediato, un richiamo della vita inesplicabile
in questi squarci di racconti intitolati non a caso “miei non-figli.
Sono questi adulti di una generazione benestante e occidentale che tende a fare meno figli ad essere abbandonata a sé stessa. Noi siamo impegnati a mascherarla, questa condizione. Dovremmo svelarla , proprio grazie all’arte che l’avrebbe dovuta illuminare.
Qui si pone un intreccio di paradossi, perché invece l’arte quasi alimenta un’ipocrisia narcisistica, un fraintendimento narcisistico e Covacich lo fa da letterato ma anche da artista che usa altri linguaggi, non necessariamente verbali e di scrittura, come è naturale per uno scrittore.
Covacich richiama anche l’arte figurativa, come aveva già fatto in altri romanzi. E qui è necessaria un breve deviazione: l’irruzione dell’arte e dell’estetica nella vita è stato il lungo percorso di un secolo passato, quello in cui alla fine c’è stato il passaggio di testimone tra le avanguardie e le masse, ma con non lineari risultati. Il 900 di Duchamp pensava di far esplodere il paradosso, di rompere gli schemi, di uscire dal museo e rientrarci poi con sottobraccio un Grande Vetro, sposare nel museo opera e vita, di nuovo. Ma ha avuto anche un secondo effetto, ovvero l’estetizzazione della vita medesima, vissuta come opera d’arte e come DENTRO un’opera d’arte, dentro un film, confondendo piani di finzione e di realtà. Il situazionismo e l’uso di questa modalità nel marketing contemporaneo sembrano rappresentare questo paradosso.
Sono questi adulti di una generazione benestante e occidentale che tende a fare meno figli ad essere abbandonata a sé stessa. Noi siamo impegnati a mascherarla, questa condizione. Dovremmo svelarla , proprio grazie all’arte che l’avrebbe dovuta illuminare.
Qui si pone un intreccio di paradossi, perché invece l’arte quasi alimenta un’ipocrisia narcisistica, un fraintendimento narcisistico e Covacich lo fa da letterato ma anche da artista che usa altri linguaggi, non necessariamente verbali e di scrittura, come è naturale per uno scrittore.
Covacich richiama anche l’arte figurativa, come aveva già fatto in altri romanzi. E qui è necessaria un breve deviazione: l’irruzione dell’arte e dell’estetica nella vita è stato il lungo percorso di un secolo passato, quello in cui alla fine c’è stato il passaggio di testimone tra le avanguardie e le masse, ma con non lineari risultati. Il 900 di Duchamp pensava di far esplodere il paradosso, di rompere gli schemi, di uscire dal museo e rientrarci poi con sottobraccio un Grande Vetro, sposare nel museo opera e vita, di nuovo. Ma ha avuto anche un secondo effetto, ovvero l’estetizzazione della vita medesima, vissuta come opera d’arte e come DENTRO un’opera d’arte, dentro un film, confondendo piani di finzione e di realtà. Il situazionismo e l’uso di questa modalità nel marketing contemporaneo sembrano rappresentare questo paradosso.
Il situazionismo e l’uso di questa modalità nel marketing contemporaneo
sembrano rappresentare questo paradosso.
Un piccolo sintomo, il fenomeno del selfie CON l’opera, guardando l’obiettivo, non guardando l’opera (qui vedete una visitatrice proprio non a caso con l’opera “La sposa” di Duchamp). Se ne annulla ogni effetto di comunicazione di dialogo tra noi ed essa: non è l’opera che ci dice qualcosa ma un Ego ipertrofico che dice ad un altro Ego “ehi guardami sono qui”. Specchiandosi.
Ecce mihi. Sono qui ! con l’opera! - che non ha più funzione critica, un-umlich, non-famigliare. Basta non guardarla, alla lettera. Annullarla: non la so interpretare, so solo che l’opera è una cosa esposta che vale soldi, è famosa – e IO VALGO con essa.
Un piccolo sintomo, il fenomeno del selfie CON l’opera, guardando l’obiettivo, non guardando l’opera (qui vedete una visitatrice proprio non a caso con l’opera “La sposa” di Duchamp). Se ne annulla ogni effetto di comunicazione di dialogo tra noi ed essa: non è l’opera che ci dice qualcosa ma un Ego ipertrofico che dice ad un altro Ego “ehi guardami sono qui”. Specchiandosi.
Ecce mihi. Sono qui ! con l’opera! - che non ha più funzione critica, un-umlich, non-famigliare. Basta non guardarla, alla lettera. Annullarla: non la so interpretare, so solo che l’opera è una cosa esposta che vale soldi, è famosa – e IO VALGO con essa.
L’arte è uscita dai suoi perimetri e ci invade, ognuno di noi costruisce sé stesso come vivesse inconsciamente in un’esposizione artistica, di fiction, di grande bellezza.
In tutto questo c’è uno specifico italiano e c’è stato forse anche un punto omega che non abbiamo capito, un apice in cui tutto questo falling down è iniziato, forse è stato quel momento storico dei primi ’90, in cui si colloca un altro racconto di Covacich, quello dedicato ad Alessandro Bono e alla sua esibizione a Sanremo, nel 1994. In quella serata di gioventù e fiducia in sé e nel futuro di chi allora giovane guardava la Bono in tv, deriso per le sue stecche e per una canzone trash, riceveva la visita dell’omino gobbo di Benjamin: dentro la canzone banale, la profezia: “La risposta amore mio è nascosta nel tempo/ e ogni giorno che va via è un quadro che appendo” cantava il povero Bono, suicida da lì a poco. Covacich narratore se ne rende conto solo vent’anni dopo: era vero, i giorni – scrive – “se ne vanno a frotte... inghiottiti dalla fame di futuro”.
La bocca divora il tempo e tutto viene espulso, resta il presente, ci si preparava allora, 1994 a quella leggerezza che durerà vent’anni e porterà fino alla nevrotica allegria sterile dei cinquanta anni, a questa sterilità senza desideri, parafrasando Peter Handke .
In quel momento però tutto appariva come dato, il possibile non era futuro,
costruzione, ma doveva essere il dato di ora, qui. A noi, alla nostra
generazione (io sono del 1964) quella del baby boom anni 60, toccherà la nemesi
di raggiungere nel pieno dell’ eta fertile e adulta, nel 1995, il picco di sterilità più alto, toccando il
punto più basso della natalità nelle stime demografiche del secolo. .
Oggi 2014 stiamo toccando di nuovo quel punto. E’ il totalitarismo del presente. E ogni giorno appendo a al presente il quadro di me stesso.
Non da costruire per il futuro ma da vivere ADESSO, come il corridore del tapis roulant non corre verso il traguardo, ma corre sul posto.* Quella degli anni 90 trentenne e oggi come Covacich al traguardo dei 50 è stata la prima generazione forever young. Saremmo andati a cercare (liberi ormai del tutto da minacce di guerre, fatti gli accordi Salt e finito il Comunismo) nel piacere e su tutti quello sessuale, ormai scisso dalla riproduzione, quella gioia di vivere, – celebrando e rivendicando l’edonismo post-reganiano . L’ Eros che tuttavia nascondeva il pericolo di diventare altro dalla libertà, forse merce, simulacro di un “Secol superbo e sciocco” direbbe Leopardi della Ginestra.
Eravamo un’installazione storica di noi stessi, del nostro benessere. alimentavamo nella vita un’estetizzazione di noi stessi. Le installazioni d’arte – quelle nelle biennali – ci rimandano (purtroppo) anche questo vorticoso narcisismo. Del resto la stessa attività del fitness è tale – è una sorta di reality del nostro corpo in auto-evoluzione, in auto-re-birthing.
Oggi 2014 stiamo toccando di nuovo quel punto. E’ il totalitarismo del presente. E ogni giorno appendo a al presente il quadro di me stesso.
Non da costruire per il futuro ma da vivere ADESSO, come il corridore del tapis roulant non corre verso il traguardo, ma corre sul posto.* Quella degli anni 90 trentenne e oggi come Covacich al traguardo dei 50 è stata la prima generazione forever young. Saremmo andati a cercare (liberi ormai del tutto da minacce di guerre, fatti gli accordi Salt e finito il Comunismo) nel piacere e su tutti quello sessuale, ormai scisso dalla riproduzione, quella gioia di vivere, – celebrando e rivendicando l’edonismo post-reganiano . L’ Eros che tuttavia nascondeva il pericolo di diventare altro dalla libertà, forse merce, simulacro di un “Secol superbo e sciocco” direbbe Leopardi della Ginestra.
Eravamo un’installazione storica di noi stessi, del nostro benessere. alimentavamo nella vita un’estetizzazione di noi stessi. Le installazioni d’arte – quelle nelle biennali – ci rimandano (purtroppo) anche questo vorticoso narcisismo. Del resto la stessa attività del fitness è tale – è una sorta di reality del nostro corpo in auto-evoluzione, in auto-re-birthing.
E non è un caso ( complicando i riferimenti) che anche Mauro Covacich – che per sé, come persona reale (ma è il corpo o la persona a definire identità e soggettività? Cfr ultimo libro di Roberto Esposito) è sempre stato un maratoneta, abbia poi reso vera l’opera d’arte-installazione che aveva inventato per un suo personaggio, Rensich, del romanzo “Prima di sparire”. Non ha solo messo un po’ della sua passione personale nei libri, cosa ovvia, ma ha prestato il proprio corpo, realizzandola davvero: il titolo era “ L'umiliazione delle stelle” lo stesso della finzione, la performance artistico-sportiva immaginata per il personaggio Rensich
Lo specchio è un labirinto. E forse il narcisismo un alibi,
ormai, per più di una generazione che ormai non genera, non fa figli. Bisogna
uscirne? Scrive Covacich, nel racconto sul nipote: “la sterilità di quelli come me sta tutta
nella paura di invecchiare... sottrarre
energia preziosa al proprio sostentamento... noi sterili vorremmo proseguire
con le nostre gambe e non fermarci mai” la folle corsa di quelli che vogliono
sentirsi “liberi da responsabilità, leggeri, rapidi negli spostamenti,
viaggiatori last minute, esploratori lonely planet, inquilini di monolocali
mansardati, consumatori di quattro salti in padella, frequentatori di tapis roulant, non padri, non madri, ma
ovunque potenziali amanti” ma gli altri, i genitori, scrive Covacich-zio “non
sono meno egoisti di noi sterili. Non donano al mondo nuovi esseri umani, né donano
ai figli la vita, ma lasciano segni, esibiscono trofei, declinano in una forma
più ambigua quella che resta a tutti gli effetti pura e semplice volontà di
affermazione. Allora forse realizzarsi in questo modo è ancora peggio, pensano
di aver fatto qualcosa di buono e invece spacciano come gesto di generosità
verso il prossimo un impulso cripto-narcisistico. Riprodursi non è né buono né
cattivo. Non siete voi a riprodurre la vita, ma è la vita a riprodursi
attraverso i vostri corpi”.
Covacich apre lo squarcio dentro questo gioco di riflessi che è il riprodursi, parola che alla fine va letta come un gigantesco autoritratto, o mega-selfie, un’autorappresentazione globale che non ha più futuro, e non è garantito nemmeno con i figli se sono un’illusoria prolunga di noi stessi ( “E l'uom d'eternità s'arroga il vanto” ancora Leopardi).
Dovremmo essere di più, qualcosa di diverso. Lo prova lo zio sulla pelle: diventare una sorta di mito per loro, i figli – e per noi stessi. Riconosciuti come degni da salvare, altrimenti saremo tutti consegnati ad una solitudine che per gli sterili appare come un buco nero della storia, ma nemmeno i neogenitori di oggi sono garantiti. Quello che sembra emergere nella filigrana dei racconti de “La sposa” è dunque una coscienza dell’agire, un muoversi del corpo, prima che del soggetto o della persona, e che sul corpo, nell’ambito della biopolitica si riattiva la storia, rompendo Immobilismo e narcisismo. Forse per la generazione di Covacih è tardi, ma l’agire potrebbe innescare meccanismi anche alternativi di cura e creazione del futuro.
E’ come se Mauro Covacich proponesse qualcosa di liminare, una riflessione a margine rispetto alla performance, proprio perché scavata nei suoi aspetti anche ultra-letterari, portando la scrittura a farsi corpo con la carne dell’autore che “imita” quel che lo stesso autore ha immaginato, ma sottraendolo all’immobilità. E’ questo il senso dell’andare, di un rimettere in movimento la storia: come i pellegrinaggi, i viaggi, come forse l’andare di Pippa fuori dalla sua stessa performance ad incontrare un gesto vero e vivo, seppur trovandolo poi nella forma di una morte. L'azione, tutto questa energia di motilità, la “"nevrosi aerobica" come la chiama Covacich, quella del personaggio/autore/narratore che attraversa luoghi e racconti de “La sposa”, è un gesto che se non altro si sottrae al rischio del “riprodursi” in un figlio come in uno specchio. Dentro uno spirito di solidarietà e di apertura all’altro che viene (dal migrante coi figli, ai figli senza genitori, ai nipoti, agli altri in genere) che potremmo definire appunto una catena leopardiana, o quasi. Certo una disperata, estrema motilità.
Quando si agisce, come quando si corre, si crea uno spazio-tempo, scrive Mark Rowlands in “Correre con il branco”, ed è “quello del rammemorare, ma non i pensieri altrui, bensì ciò che molto tempo fa sapevo ma sono stato costretto a dimenticare, via via che crescevo". Qui avviene una diversa solitudine, una ridefinizione dell’individuale che, come per la poesia con le sue metriche e ritmi, con il suo mettere come nella corsa un “piede” dietro l’altro, costruisce il suo dire l’individuale, una forma della solitudine, un dar forma alla solitudine che sia diversa dal solo riprodurre un corpo in uno specchio, seppur genetico.
E in quella solitudine di noi che corriamo ma siamo a fine
corsa, in quel massimo sforzo che comprime
“ l'autocoscienza in uno spazio appena dietro gli occhi" che Covacich
cerca una exit strategy dai paradossi
dell’intellettuale, dell’analisi.
E la nostra analisi che la attribuisce ad un artista che ha mostrato visione lucida e sapiente uso della sua arte, in vari linguaggi, è ovvio, ma ci sembra che alla fine de “La sposa” se ne esca con un elogio ad un fare che sembra il contrario della consapevolezza artistica, anzi, se volessimo sintetizzare, dovremmo dire: quanto più ci si sottrae alla consapevolezza, tanto più diventerà storia.
E la nostra analisi che la attribuisce ad un artista che ha mostrato visione lucida e sapiente uso della sua arte, in vari linguaggi, è ovvio, ma ci sembra che alla fine de “La sposa” se ne esca con un elogio ad un fare che sembra il contrario della consapevolezza artistica, anzi, se volessimo sintetizzare, dovremmo dire: quanto più ci si sottrae alla consapevolezza, tanto più diventerà storia.
Perché forse l’arte, la letteratura il linguaggio a un certo punto necessitano di una rottura, di un gesto, di un balzo. E noi siamo a quel punto. Sull’orlo. E non a caso è sull’orlo del “letterario” anche Covacich come autore.
Come il balzo del nipote che senza pensare abbraccia le gambe dello zio, nel terrore che stia davvero per essere inghiottito da un mostro della pozzanghera, come lui gli fa credere. Noi siamo come lo zio, divertiti nella finzione, forse ormai semi-inabissati in essa come nei raffinati paradossi . Ma il punto di caduta, lo svenimento della nostra coscienza, la sua perdita, il suo abbandono, è solo quando lasceremo, ci lasceremo essere “esposti” al gesto dell’altro. Che ci desidera, che ci ama, che ci prende per mano dal futuro.
*Queste fughe da fermo per rubare il
titolo di Edoardo Nesi non è un caso siano presenti anche nel recente spettacolo
di Lucia Calamaro “Diario del tempo” che si apre con Federica Santoro e un
monologo sul Tapis roulant).
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