la recensione per Repubblica/RSera
Incipit. “Se tu
te ne sei scordato, egregio signore, te o ricordo io: sono tua moglie. Lo so
che questo una volta ti piaceva e adesso all’improvviso, ti dà fastidio. Lo so
che fai finta che non esisto e che non sono mai esistita perché non vuoi fare brutta
figura con la gente molto colta che frequenti. Lo so che avere una vita
ordinata. Doverti ritirare a casa a ora di cena. Dormire con me e on con chi ti
pare ti fa sentire cretino. Lo so che ti vergogni a dire: vedete mi sono
sposato l’11 ottobre 1962, a ventidue anni; vedete ho detto sì davanti al
prete, in una chiesa del quartiere Stella, e l’ho fatto solo per amore, non
dovevo mettere al riparo niente”.
Trama. Per un misterioso furto e devastazione della casa, Aldo, un uomo, più che settantenne, rilegge le lettere che la moglie gli aveva inviato durante i quattro anni in cui l’aveva abbandonata, dopo dodici anni di matrimonio e due figli, tra il 1974 e il 1978, vivendo una storia d’amore a Roma con una giovane donna e trovando anche il successo come autore televisivo. E’ l’occasione per riflettere su quella parentesi rimossa e sulle conseguenze dell’amore mancato, verso sua moglie, verso la giovane Lidia, e sul presente di famiglia borghese rattrappita intorno al non detto, sul suo essere stato padre inadatto, debole, malinconico, in cui il ritorno a casa non fu vera pace, ma l’inizio di una storia di amarezza, paura e dolore, quotidianità conflittuale e strangolante che dai coniugi passava invisibile ai figli. Sono loro i protagonisti del finale a sorpresa. Con il oro gesto, ormai adulti, rivelano che, se esistono legami impossibili da spiegare, ricostruire amore e famiglia è altrettanto impossibile, molto più che saper amare davvero.
Trama. Per un misterioso furto e devastazione della casa, Aldo, un uomo, più che settantenne, rilegge le lettere che la moglie gli aveva inviato durante i quattro anni in cui l’aveva abbandonata, dopo dodici anni di matrimonio e due figli, tra il 1974 e il 1978, vivendo una storia d’amore a Roma con una giovane donna e trovando anche il successo come autore televisivo. E’ l’occasione per riflettere su quella parentesi rimossa e sulle conseguenze dell’amore mancato, verso sua moglie, verso la giovane Lidia, e sul presente di famiglia borghese rattrappita intorno al non detto, sul suo essere stato padre inadatto, debole, malinconico, in cui il ritorno a casa non fu vera pace, ma l’inizio di una storia di amarezza, paura e dolore, quotidianità conflittuale e strangolante che dai coniugi passava invisibile ai figli. Sono loro i protagonisti del finale a sorpresa. Con il oro gesto, ormai adulti, rivelano che, se esistono legami impossibili da spiegare, ricostruire amore e famiglia è altrettanto impossibile, molto più che saper amare davvero.
Stile. Starnone
adotta diversi registri e smonta la storia in
capitoli e quadri mescolando i tempi. La prima voce è Vanda, la moglie,
le sue lettere dell’abbandono, con una furia e lucidità di una donna ferita ma
combattiva, feroce quasi. I rumors secondo i quali Starnone potrebbe
“essere Elena Ferrante” certo si
alimentano qui, perché – coincidenze a
parte - sono pagine di tempesta e dolore travolgenti. Poi la parola passa al
marito, già vecchio, fintamente svagato,
con una prosa che si distende in una malinconia asciutta, fino ad arrivare ai
capitoli di Anna, la figlia minore, con i suoi rancori, fantasmi, la fame mai
sopita di amore trasformata in avidità e bulimia, portando la narrazione verso
la freddezza calcolatrice del suo gesto
straniante, in cui coinvolge il fratello
Sandro. Perché i figli che non sono come i nodi dei lacci, che puoi anche
scioglierli: i figli puoi solo farli o
tagliarli via.
Pregi e difetti. Pregevole lo stile, precisione dei sentimenti, personaggi nitidi, concentra in centoquaranta pagine come è cambiato il senso della famiglia e dell’amore, la crisi del maschio, la dissoluzione dei “lacci” affettivi, mostra una crisi maschile che si accompagna a mutazione della Storia italiana , seppure qui appena accennata (Aldo se ne va negli anni del referendum sul divorzio). Il finale lascia di stucco: forse troppo affrettato, troncato, tutto precipita, lascia un senso di mancanza, l’amaro in bocca. Potrebbe essere anche un pregio.
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