“Cella” è il nuovo libro di Gilda Policastro (Marsilio). Dovremmo definirlo romanzo e di fatto lo è. Anche se via via il lettore scoprirà – e fino all’ ultima pagina – anche un sub-strato di riferimenti che ne fanno forse un “romanzo alla seconda” o dispositivo narrativo, come è più facile sentir definire testi in cui è più evidente anche l’impegno di ricerca letteraria, e la filigrana metanarrativa. Il pregio di questo libro è che fonde i due piani . Ha a la compattezza di un romanzo breve, 150 pagine, e molto è dovuto alla voce della protagonista: “Cella” è un libro in cui chi racconta lo fa in prima persona, ed è una donna.
Di lei sappiamo – scoprendolo in una successione, però non lineare dal punto di vista temporale. dei vari quadri o scene che si susseguono - che ha quasi quaranta anni e vive in una casa in campagna con la figlia, ormai grande. Da l suo racconto, diviso in cinque capitoli e un finale “per ipotesi” (determinate ai fini del senso e sorprendente) apprendiamo che la sua è una storia che ha la centro il sentimento dell’abbandono, ma per specularità anche quello del senso del legame, fortissimo, tra affettività ed eros. La seguiamo nel suo ripensare agli anni della sua adolescenza e gioventù: Diventata molto giovane l’amante di un medico potente, dopo aver lasciato che si compisse il disegno che forse sua madre ha avviato per lei, mandandola a lavorare da un dentista a sedici anni e tollerando le attenzioni di lui sulla ragazza. La relazione col medico, di cui ama “l’ardore” , era anche una fuga da orizzonti ristretti, era "l'altra vita" e si incarnerà in una loro sessualità vorace e fuori dagli schemi verso cui la guidava Giovanni (“Io accettavo tutto, perché era nuovo e perché non avrei saputo come sottrarmi”) quel suo compagno medico e seduttore predatore molto più grande di lei. Gli dice "sì", forse perché è un suo “attaccamento alla bestia che vuole tornare a casa.. per paura di non trovare un altro padrone”. Il medico la spingerà nello studio – e anche nelle braccia – di un professore e nel romanzo Cella aumenterà la sua capacità critica, di autoanalisi, rimuginando saperi e discorsi sentiti fare: diventa l’altro che la osserva.
Se era stata travolta dalla dominanza psicologica e linguistica di Giovanni, ora mentre parla riconquista - come
Così come doppio legame sarà quello che instaurerà col figlio che Giovanni ha avuto dal precedente matrimonio consegnando a lui le chiavi d un accesso ad una sessualità che ancora una volta è di sottomissione, ma in realtà proprio per questa forma così assoluta, totale è di conquista. Cella diche ha amato “ per convenienza, per distrazione, per noia” come Giovanni. Da questo sentimento anche il dire “sì” al professore, sottosta a recitare le “scene” di BSDM. Lui la vorrebbe rendere consapevole che “non esiste la perversione, ma solo il desiderio”. Cella sembra intrappolata nel potere degli uomini: possesso, umiliazione, abbandono. Eppure attraverso la guida del Professore, proprio come aveva fatto Giovani cresce in lei la consapevolezza a se ne sottrarrà prendendo la parola e arrivando a classificarli, come fosse una psicoanalista lei stessa. Ed è ”Cella” un notevole romanzo psicologico, ma è pure un romanzo in cui quel che noi sappiamo della psicoanalisi non aiuta a ridurre "ad unum" questo personaggio.
le dice lo psicologo - la sua “autonomia discorsiva” ricomincia a narrare la storia a sé stessa. Nel corso del tempo sarà l’arrivo nella casa di campagna di una donna, con un passato da terrorista – e da carcerata reale – a svelare quel che di romanzesco c’è nel libro (perché Giovanni stava via per problemi con la giustizia) a creare un ulteriore doppio della voce di Cella – e doppio legame.Così come doppio legame sarà quello che instaurerà col figlio che Giovanni ha avuto dal precedente matrimonio consegnando a lui le chiavi d un accesso ad una sessualità che ancora una volta è di sottomissione, ma in realtà proprio per questa forma così assoluta, totale è di conquista. Cella diche ha amato “ per convenienza, per distrazione, per noia” come Giovanni. Da questo sentimento anche il dire “sì” al professore, sottosta a recitare le “scene” di BSDM. Lui la vorrebbe rendere consapevole che “non esiste la perversione, ma solo il desiderio”. Cella sembra intrappolata nel potere degli uomini: possesso, umiliazione, abbandono. Eppure attraverso la guida del Professore, proprio come aveva fatto Giovani cresce in lei la consapevolezza a se ne sottrarrà prendendo la parola e arrivando a classificarli, come fosse una psicoanalista lei stessa. Ed è ”Cella” un notevole romanzo psicologico, ma è pure un romanzo in cui quel che noi sappiamo della psicoanalisi non aiuta a ridurre "ad unum" questo personaggio.
Cella parla dal suo rifugio o eremo o prigione in cui si è segregata da anni, dopo l’abbandono di Giovanni, e forse è prigione il suo stesso corpo così desiderato e che ora la sta abbandonando, con la maturità, le rughe, i difetti. Tutto deperisce, la malattia ne è il segno. La vita vera è nelle cose che muoiono, che finiscono, a partire dalle persone care. Da qui nasce un impotenza, una non volontà: “io mi sono abbandonata al flusso del tempo”. La morte rende tutto passivo, inutile e forse Cella sa dall’inizio istintivamente che la verità della vita è la verità della morte. LA vita di Cella sarà in crescendo di vissuto, di impotenza e di consapevolezza. Da questo sottosuolo, la donna lascia parlare la sua depressione, alla malattia affida una pulsione: raccontare a se stessa, ma questo racconto lo agisce, lo gioca (act o play) come fosse un’attrice nel suo monologo e sembra via via diventare un’entità de-soggettivizzata nel suo delirio, assorbendo nel flusso indirettamente la voce dei personaggi che le sono intorno, perché è tutto un racconto di memoria. Se “Cella” è dispositivo narrativo, la metanarrazione diventa anche la sfida. E la prigione da cui il Narratore - Cella? Gilda? Altri? – si sfila.
In 174 pagine , in modo lineare ma sottilmente magmatico, Cella procede verso le ragioni della sua condizione: perché sono così? Perché mi ha abbandonato? Cosa desidero? E lo fa riandando con la memoria ai dettagli ( con la figlia che le dice che potrebbe “scrivere romanzi” perché “passa le ore “a rimuginare su particolari insignificanti” così come – altra spia – anche Elena, la figlia, è per la madre un personaggio “da romanzo” ) E’ una Bovary abbandonata da Flaubert, che riesce ad avere i pensieri di Flaubert senza aver mai letto nessuno dei suoi romanzi, senza scriverli. Come se la conoscenza le fosse passata attraverso il sesso con lo scrittore che avrebbe potuto scriverlo, il romanzo su di lei. Cella lo sa. La materia del romanzo è in lei, ma la scrittura? Come diventa tutto ciò “scrittura”?
Noi leggiamo e via via si comprende che Cella il romanzo che si potrebbe scrivere su di lei, lo sa già, perché lo ha vissuto, certo, ma anche perché “lo pensa”. E’ capace di prendere la parola. Ma di scrivere? In ogni caso la memoria, questa sorta di diario a ritroso, va via verso se stesso, va verso una “ricostruzione” della voce di cella con sé stessa, della storia di Giovanni che Dario ed Elena vorrebbero scrivere in un libro, storicizzare, capire. Cella invece racconta, assorbe, ma si sottrae ad ogni possibile interpretazione. È la sua unica chance di avere un’autonomia discorsiva, poter tornare alla fine a dire “io”. E lo fa con una strategia di tipo orientale, suggerita da un libro regalatole da Giovanni e lasciato a metà : aspettare, un quarto d’ora in più. Il meccanismo però resta incalcolabile e imprevedibile. Escono di scena tutti alla fine. Compresa Cella, con due pagine fulminanti ,scritte da chi nel romanzo parla. L’autore? Il narratore? Cella? Chi?
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