“Busi tanto per cambiare sei andato fuori tema”. Aldo se lo
sente dire da quando era in terza elementare. Lo scopriamo a pagina 83 della
sua debordante autobiografia non autorizzata e soprattutto non richiesta, ma
proprio per questo subito diventa un dono incandescente. “L’altra mammella
delle vacche amiche” (Marsilio, p.466) è il racconto in forma stream di scrittura di tutto quel lungo
fuori-tema che è stata la vita di Aldo
Busi, quel suo essere anche fuori-classe. Il materiale del libro è anche in
parte ciò che era rimasto fuori dal precedente Vacche amiche, tanto da lievitare da 180 a 466 pagine e ci porta a
rimestare ancora di più nell’essenza del suo capolavoro: fare di sé stesso
un’opera d’arte, ma solo per poterne scrivere.
E’ la scrittura, la totalità
della scrittura, quello che consacra con
questo libro Busi, il suo essere fuori
da canoni, da generi, da limiti (“uno scrittore del mio non genere”) : per anni
abbiamo letto i “romanzi” di Busi, spesso trovando le imperfezioni più belle
delle forme composte, del “romanzo-in-sé” che aveva strutture ad alterna
efficacia, in libri che tuttavia non si potevano apprezzare nel complesso dell’
“opera”. Insomma romanzi che da un lato erano imperfetti, spesso, dall’altro
non potevamo non essere letti, per attraversarli alla scoperta dei suoi vertici.
Ora Busi, proprio come con la vita di
chi ha vissuto molto e si può permettere di rinunciare, con questo libro ha
definitivamente rinunciato ad obbedire anche a quel tanto di necessità
editoriale e si riprende la libertà della scrittura, chiamano i suoi lettori ad
essere messi sull’ottovolante e anche sulla graticola, dentro pagine
irresistibili di una sua personale ed egocentrica Entretien infini .
Il doppio canale produce un attrito, un
contropelo della vita che alla fine è “il” fine ultimo: la fine è il fine, ossimoro del gender, come nella sessualità
espansa di un omosessuale stanco ma gaudente
sadico del fatto di essere, per esempio, il desiderio sessuale delle sue tante
vacche, ammiratrici, lettrici, amiche. Ma pure di aver vissuto al punto di
intrattenerci tanto con i ricordi del sesso mirabolante, quando con le sue
disavventure della prostata.
E delle donne poi, di queste vacche, nonostante amiche, ne
fa un ritratto spietato (“l’unica voce che ha nel mondo oggi la donna è la voce
Donna di Wikipedia”) ma proprio per
eccesso di amore che non si può definire tale, quindi non è. . Busi non ha
freni morali, eppure è animato da una ricerca di moralità assoluta. Daniele
Giglioli ha scritto di non farsi ingannare: in Busi
è il reale autentico risentimento, l’odio vero, il vero motore della scrittura.
E che non è vero che in fondo ci ami, e
che non scrive del brutto di paesani,
italiani, giornsliti, politici, ecc per una catarsi della “bella scrittura” che
poi tutto risolve. No Busi è sferzante, senza sconto. Il risentimento, l’odio che
circola in queste pagine è reale, è un’espulsione di viscere, ma alla fine (permettete
la critica empatica da lettore) dato che non abbiamo un sentimento altrettanto
di odio e rifiuto, nei suoi confronti,
ma semmai di gratitudine , di divertimento, di riso, di vitalità, penso – non
vorrei fare del sentimentalismo al posto della critica, ma concedetemelo un po’ – che Busi effettivamente ci tratti male ma
per non lasciarci andare a fondo.
Come in uno specchio, del resto lui stesso scrive: ”volevo semplicemente essere amato (..) volevo
diventare memorabile per qualcuno ..dunque cominciai a fare qualcosa di
insolito” in cui si vedesse “ il ricordo
l’affetto, la traccia d’amore civile per me nella sua memoria, tra se e sé”.
Ecco in questa proiezione futura di essere rammemorato Busi si ritrova
scrivendo oggi, attorno al perno da cui
s’è originata poi la (sua come di tutti?) scrittura che di quella pulsione diviene
forma.
perché la memoria è la chiave di tutto, si vive per essere ricordati da qualcun altro. Lo si veda nelle sorprendenti pagine finali in cui Busi confessa qualcosa che non si era nuppre ben raccontato da sé: quell’uomo violento che era il padre, mancava alla madre, per tutti i gesti quotidiani che condividevano, nonostante avesse pure tentato di ucciderla. Perché conta in una coppia anche se l’altro è un avversario, il fatto di aver “depositato presso di sé la memoria del corpo dell’altro, la sua storia e quindi la propria”. E dunque anche a Busi, pur odiandolo questo mondo-uditorio, il lettore è un “nemico fedele”.
E non è un caso è proprio il suo libro più libero, libero anche dalle forme narrative più originali. Come nell’arte c’è espressionismo, informale ecc, qui Bisognerebbe chiamare in causa “giornale intimo” “diario” pamphlet” “autofiction” “zibaldone” e nessuna di queste categorie sarebbe adeguata e tutte assieme si.
Lo fa , si potrebbe dire quasi a specchio, in un libro-testimonianza , in un libro in cui certo fa strame delle sue memorie, ma quel nucleo che tiene assieme il desiderio di eros il suo essere un cives in Aldo è ancora lo stesso, da sempre.
Di schiaffi tuttavia ne dà, Busi altro che, e non si salva nessuno, tanto che hai la sensazione che se proverai a parlarci, a scrivergli, a farti fare un autografo, il prossimo sarai tu.
Ci lascia affogare, riempire la bocca di amarezza e vomito di noi, della sua implacabile lucidità quando ritrae miserie altrui che tuttavia riconosciamo nostre, ci sembra di affogare, ma poi la scrittura – e l’Autore dunque - ci riprende per i capelli.
Così se da un lato dichiara che vorrebbe “istigare coi miei libri più gente che posso al suicidio, uno legge un mio libro e dalla vergogna per le sue azioni, la sua ipocrisia, la sua viltà, la sua doppiezza “ i lettore al suicidio, dall’altro non fa che trattenerci ancora un po’, intrattenerci per mille e una pagina in più dentro questo suo diario a rebours , grazie proprio alla qualità che non dovremmo chiamare in causa, la pregevolezza della frase. Busi, come Flaubert e come Proust è uno scrittore di “frasi” e procede in un tessuto continuo e raffinato, il periodare diventa paesaggio. Scrive, non mollandoci mai, e amandoci alla fine, non tanto perché davvero ne abbia bisogno narcisisticamente – Busi non è mai narciso, non vuole che si legga per piacere suo, e non vede solo sé stesso: Busi è uno scrittore dall’ego civile, vede tutto, ha un occhio clinico per le miserie e gli splendori umani, e italici in particolare, ma anche un occhio politico non indifferente sulla realtà.
Busi è spinto se non da amore per noi, da una reale pietas per l’umano. Ha l’occhio che avrebbe un suo quasi conterraneo Caravaggio, lo stesso furore e nettezza, la stessa vicinanza ai corpi, alla luce sempre in chiaroscuro, sempre di taglio contrastato, la passione per il guazzabuglio del marcio, del feroce, del sangue. E al tempo stesso, pietà per quel cartoccio di vanità e inconsistenze che siamo noi tutti, mucchio di carne stracciata e bolsa attitudine pure per i più elementari istinti. Ce l’ha questo sentimento di attenzione umana anche per quelli verso cui prova risentimento vero, autobiografico. Le pagine in cui descrive la famiglia, quella Osteria delle Antiche Mura di proprietà dei suoi , quei parenti poveri, quel sottofondo di miserabili che era la provincia italiana forse anche prima di essere provincia – più grassa e ottusa col suo benessere – quel bresciano contadino e gozzo e violento di cui racconta, come a sedici anni quando un compaesano stava per ucciderlo perché “culatì”, dello zio che lo imbroglia e lui si lascia imbrogliare, per un misterioso abbandono al mistero di una vita incomprensibile, fino a i vizi di una società letteraria dove “ognuno sta solo sul cuore delle app” in un fandango di isteria comunicativa e di chiacchiera e arroganza del lettore che seppellisce la letteratura, l’opera, la memoria.
perché la memoria è la chiave di tutto, si vive per essere ricordati da qualcun altro. Lo si veda nelle sorprendenti pagine finali in cui Busi confessa qualcosa che non si era nuppre ben raccontato da sé: quell’uomo violento che era il padre, mancava alla madre, per tutti i gesti quotidiani che condividevano, nonostante avesse pure tentato di ucciderla. Perché conta in una coppia anche se l’altro è un avversario, il fatto di aver “depositato presso di sé la memoria del corpo dell’altro, la sua storia e quindi la propria”. E dunque anche a Busi, pur odiandolo questo mondo-uditorio, il lettore è un “nemico fedele”.
E non è un caso è proprio il suo libro più libero, libero anche dalle forme narrative più originali. Come nell’arte c’è espressionismo, informale ecc, qui Bisognerebbe chiamare in causa “giornale intimo” “diario” pamphlet” “autofiction” “zibaldone” e nessuna di queste categorie sarebbe adeguata e tutte assieme si.
Lo fa , si potrebbe dire quasi a specchio, in un libro-testimonianza , in un libro in cui certo fa strame delle sue memorie, ma quel nucleo che tiene assieme il desiderio di eros il suo essere un cives in Aldo è ancora lo stesso, da sempre.
Di schiaffi tuttavia ne dà, Busi altro che, e non si salva nessuno, tanto che hai la sensazione che se proverai a parlarci, a scrivergli, a farti fare un autografo, il prossimo sarai tu.
Ci lascia affogare, riempire la bocca di amarezza e vomito di noi, della sua implacabile lucidità quando ritrae miserie altrui che tuttavia riconosciamo nostre, ci sembra di affogare, ma poi la scrittura – e l’Autore dunque - ci riprende per i capelli.
Così se da un lato dichiara che vorrebbe “istigare coi miei libri più gente che posso al suicidio, uno legge un mio libro e dalla vergogna per le sue azioni, la sua ipocrisia, la sua viltà, la sua doppiezza “ i lettore al suicidio, dall’altro non fa che trattenerci ancora un po’, intrattenerci per mille e una pagina in più dentro questo suo diario a rebours , grazie proprio alla qualità che non dovremmo chiamare in causa, la pregevolezza della frase. Busi, come Flaubert e come Proust è uno scrittore di “frasi” e procede in un tessuto continuo e raffinato, il periodare diventa paesaggio. Scrive, non mollandoci mai, e amandoci alla fine, non tanto perché davvero ne abbia bisogno narcisisticamente – Busi non è mai narciso, non vuole che si legga per piacere suo, e non vede solo sé stesso: Busi è uno scrittore dall’ego civile, vede tutto, ha un occhio clinico per le miserie e gli splendori umani, e italici in particolare, ma anche un occhio politico non indifferente sulla realtà.
Busi è spinto se non da amore per noi, da una reale pietas per l’umano. Ha l’occhio che avrebbe un suo quasi conterraneo Caravaggio, lo stesso furore e nettezza, la stessa vicinanza ai corpi, alla luce sempre in chiaroscuro, sempre di taglio contrastato, la passione per il guazzabuglio del marcio, del feroce, del sangue. E al tempo stesso, pietà per quel cartoccio di vanità e inconsistenze che siamo noi tutti, mucchio di carne stracciata e bolsa attitudine pure per i più elementari istinti. Ce l’ha questo sentimento di attenzione umana anche per quelli verso cui prova risentimento vero, autobiografico. Le pagine in cui descrive la famiglia, quella Osteria delle Antiche Mura di proprietà dei suoi , quei parenti poveri, quel sottofondo di miserabili che era la provincia italiana forse anche prima di essere provincia – più grassa e ottusa col suo benessere – quel bresciano contadino e gozzo e violento di cui racconta, come a sedici anni quando un compaesano stava per ucciderlo perché “culatì”, dello zio che lo imbroglia e lui si lascia imbrogliare, per un misterioso abbandono al mistero di una vita incomprensibile, fino a i vizi di una società letteraria dove “ognuno sta solo sul cuore delle app” in un fandango di isteria comunicativa e di chiacchiera e arroganza del lettore che seppellisce la letteratura, l’opera, la memoria.
Tutto questo è la palus putredinis dove è cresciuta e continua a crescere la miracolosa virtù di Busi, l suo talento, quello di una scrittura che si è voluta sempre come assoluto: “non darei un frammento di Saffo per tutta la Cappella Sistina”.
Una scrittura che ne fa grandezza perché voleva esserlo e lo modestamente lo nacque scrittore, il Victor Hugo dei bassifondi di Montichiari, il Balzac di una commedia umana che poi ha avuto infinite repliche man mano che Busi cresceva acquisiva fama, intratteneva rapporti conosceva l’Italia che diventava ricca, volgare, pretenziosa, ignorante, la stessa Italia che lo celebra in Tv e non gli mette i bastoni tra le ruote per trovare un editore. L’Italia delle tribù e del merito unico dell’essere andato in tv. E tuttavia ancora benevolo non solo verso la sua gente come verso la sua amica Miriam, l’altra mammella delle vacche amiche, ma più in generale con quello che è l’esistente, il mondo intorno a sé. Come quando in un passaggio, quasi con un eco del finale della Giornata di uno scrutatore di Italo Calvino, Busi non sente intorno a sé l’inferno e in qualche modo riconosce che tutto quel che ha intorno inferno non è : “Quello in cui vivo, a parte quello altrui che subisco, non è un inferno, si chiama vita, e del paradiso non saprei che farmene”. Qui ci trattiene Busi, senza dichiararlo mai, anzi negandolo semmai nella sua banale definizione linguistica, inaccettabile: in quello in cui viviamo, con una dichiarazione di implicito amore per la vita in forma di invettiva risentita, lunga 466 pagine.
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