Quando ho iniziato a leggere il Giardino delle Mosche di
Andrea Tarabbia non avevo ricollegato la vicenda di Andrej Cikatilo alla
denominazione con cui era passato dalla cronaca alla storia la prima volta che
l’ho sentita, ovvero “il mostro di Rostov” – era il 1994 quando avevo letto e fatto interviste a David
Grieco che aveva raccontato la stessa storia nel libro-documento “Il comunista che mangiava i bambini”. Non ne
ricordavo il nome. Ho letto “il giardino delle mosche” senza leggere nesusna
scheda. Ad un certo punto del romanzo, leggendo che l’azione si svolgeva a
Rostov mi è venuto il sospetto, ma la pigrizia mentale non mi ha fatto
controllare su google , poi pian pieno era evidente fossero la stessa persona.
Faccio questa premessa perché la qualità del libro di
Tarabbia è sì il resocondo di un uomo terribile e delle sue azioni malvage,
crudeli, ma tolto, specie nell’avvio della narrazione, da ogni mostruosità, efferatezza, effetto di
pathos - nonostante di quelle atrocità e di alcuni dei 56 omicidi Tarabbia ci
risparmi ben poco. Con grande maestria ed equilibrio di scrittore e di essere
umano, ma anche con una scelta che si inserisce in una tradizione del racconto
del male, di fronte all’ “illustrazione della violenza” Tarabbia disegna l’atto attraverso parole che
non si fanno pornografia, estetizzazione. Che è una scelta di campo estetica,
dunque etica, senza che il libro sia “morale” e tanto meno moralista.
Dico che questo in sostanza, oltre appunto alle
evidentissime qualità di scrittore, è il superamento di quello che è anche un
evidente laccio che limita il romanzo: perché raccontare una storia di cui
sappiamo tutti i dettagli e che è stata già raccontata in libri e film?
Chevolto ha il male? L’urlo di Munch, il volto impassibile e “banale” di Eichmann, la faccia stravolta di Cikatilo. ?
Non ha volto, diffidate del volto, diffidate di ciò che vedete.
Chevolto ha il male? L’urlo di Munch, il volto impassibile e “banale” di Eichmann, la faccia stravolta di Cikatilo. ?
Non ha volto, diffidate del volto, diffidate di ciò che vedete.
“Il giardino delle mosche” E’ un’indagine narrativa che letteratura scavando e
reinventando dentro una vicenda vera, attraverso i documenti, che in qualche
modo trova una sua traduzione letteraria. Andrej Cikatilo serial killer che tra
il 1978 e il 1990 commise cinquantasei omicidi in una provincia dell’unione
Sovietica in disfacimento. Le vittime, dopo essere state adescate, venivano
torturate, stuprate, mutilate, e in alcuni casi Cikatilo mangiava piccole parti
del loro corpo. Tarabbia dà voce a
Cikatilo in prima persona, come fosse un
resoconto, basandosi sulla confessione che lo stesso pluriomidicida fece quando
fu arrestato nel novembre del 1990 per poi eseguirne la condanna a morte il 14
febbraio del 1994.
La narrazione è suddivisa in tre parti, lega la vicenda più
marginale ed eccezionale che si possa pensare alla storia comune di una nazione
e forse di un secolo.
La prima parte, intitolata “La morte per fame” (1936-1978), Čikatilo racconta l’infanzia durante gli anni della seconda guerra mondiale tra una madre che lo partorì nella fame e nel dolore un padre che non c’era ma tornò dalla guerra e divenne l’emblema dell’orrore stalinista – qui l’eco e il pensiero vanno a Vassilj Grossman - condannato ai campi di prigionia con una serie infinita di traumi tra cui quello del fratellino maggiore ucciso e mangiato dai vicini di casa durante la grande carestia dei primi anni Trenta. Ed ella prima volta che causa la morte di una persona e che quella morte, che per lui è ancora quasi accidentale, genera in lui piacere. Eccitazione sessuale. Fin qui saremmo nella deriva psichica di un essere umano che ne ha subite troppe e fin qui il “mio” Cikatilo non è ancora nella testa l’uomo pelato con gli occhi di ghiaccio, la bocca da cannibale, ma è un uomo grigio (“un uomo noioso” lo definirà l’uomo che lo arrestò, nel romanzo) un uomo qualunque, bravo padre, che non farà mai del male ai suoi figli – pur essendo invece un “signore delle mosche” un Belzebù.
La prima parte, intitolata “La morte per fame” (1936-1978), Čikatilo racconta l’infanzia durante gli anni della seconda guerra mondiale tra una madre che lo partorì nella fame e nel dolore un padre che non c’era ma tornò dalla guerra e divenne l’emblema dell’orrore stalinista – qui l’eco e il pensiero vanno a Vassilj Grossman - condannato ai campi di prigionia con una serie infinita di traumi tra cui quello del fratellino maggiore ucciso e mangiato dai vicini di casa durante la grande carestia dei primi anni Trenta. Ed ella prima volta che causa la morte di una persona e che quella morte, che per lui è ancora quasi accidentale, genera in lui piacere. Eccitazione sessuale. Fin qui saremmo nella deriva psichica di un essere umano che ne ha subite troppe e fin qui il “mio” Cikatilo non è ancora nella testa l’uomo pelato con gli occhi di ghiaccio, la bocca da cannibale, ma è un uomo grigio (“un uomo noioso” lo definirà l’uomo che lo arrestò, nel romanzo) un uomo qualunque, bravo padre, che non farà mai del male ai suoi figli – pur essendo invece un “signore delle mosche” un Belzebù.
Ecco nella mia testa, iniziando a leggere senza ricollegarlo
alla foto “del mostro di Rostov” il
personaggio che dice “Io” nel romanzo di
Tarabbia somiglia di più a al uomo qualunque-Eichamann senza esserlo, un ometto
grigio al massimo un rancoroso. E’ nella
seconda parte Dissoluzione (1978- 1990) che
Čikatilo ripercorre i suoi innumerevoli omicidi ed espone la ragione che
fece più scalpore all’epoca della prima narrazone di questa storia tra il 90 e
il 94: ovvero la fine del comunismo. Lui, figlio di un patriottismo degenerato
in orrore, non ha potuto né saputo fare altro che farsi egli stesso “dio
cannibale” o padre violento, come Stalin
e mettersi al servizio di quella Ragione Assoluta che lo aveva così tanto
segnato per ripulire la patria da quei reietti umani da cui lui stesso
proveniva, quel farsi “dio della carne” in una sorta di vertigine mistica della
violenza totalitaria attuata proprio nel tragico tentativo di liberarsi di un potere totalizzante e pervasivo, quello
singolare vissuto sulla sua pelle di umiliato e offeso fin nelle viscere del
suo primo giorno e quello della Russia post-staliniana.
Perché raccontare tutto questo, se è stato già raccontato? Perché
– azzardo – è come se la storia di Cikatilo (oltre che essere familiare a Tarabbia
che già su quei material post-sovietici ha lavorato per il precedente romanzo)
diventasse un paradigma di poetica.
Nei tempi di auto-fiction a volte un po’ troppo facile, qui c’è un invito da un lato a farsi “io” anche al lettore a partire da un’alterità insostenibile. Io è altro, oltre ogni alterità.
Poi, la lunga confessione-racconto dal punto di vista stilistico non fa che togliere spazio all’immagine e all’immaginazione. In tempi di “narrativa piegata già al suo debutto a logica da sceneggiatura, da acting, da leggibilità facile, Tarabbia Sottrae ma concettualizza una riflessione versandola nelle stesse parole del reo-confesso. Cikatilo si fa così Narratore, un narratore realista, poetica familiare ad un comunista come lui.. Tarabbia però lo fa diventare anche Narratore psicologico in prima persona, lo costringe ad immettere il sé, a riportare il Male non all’esterno, come lui tenta di fare, verso quelli che considera i suoi Avversari, ma all’interno. Qui Tarabbia prende il documento e lo fa letteratura.
Nei tempi di auto-fiction a volte un po’ troppo facile, qui c’è un invito da un lato a farsi “io” anche al lettore a partire da un’alterità insostenibile. Io è altro, oltre ogni alterità.
Poi, la lunga confessione-racconto dal punto di vista stilistico non fa che togliere spazio all’immagine e all’immaginazione. In tempi di “narrativa piegata già al suo debutto a logica da sceneggiatura, da acting, da leggibilità facile, Tarabbia Sottrae ma concettualizza una riflessione versandola nelle stesse parole del reo-confesso. Cikatilo si fa così Narratore, un narratore realista, poetica familiare ad un comunista come lui.. Tarabbia però lo fa diventare anche Narratore psicologico in prima persona, lo costringe ad immettere il sé, a riportare il Male non all’esterno, come lui tenta di fare, verso quelli che considera i suoi Avversari, ma all’interno. Qui Tarabbia prende il documento e lo fa letteratura.
Il fatto diventa evento. Esperienza da condividere.
Ovviamente anche nell’identificazione che il lettore, pronunciando in
soggettiva il male.
La poetica di Tarabbia è quella che il fantasma del fratello
di Andrej, comparendo come un alter ego schizoide nel delirio solitario di
Cikatilo, esprime, parlando della sua
stessa storia – quella di essere stato mangiato per fame: “ le storie non sono
fatte per proteggere. Il silenzio protegge” in sintesi: nessuna concessione all’effetto,
nessuno sconto alla storia. Un difficile equilibrio che lo Scrittore affifa
al Personaggio: riportando un dialogo tra lui e un ragazzino,
che poi ucciderà, violenterà e strazierà, nel momento in cui il piccolo dice di non andare più a scuola e di non
conoscere Puskìn, Cikatilo diventa silenziosamente la belva che è e il ragazzino
l’emblema del cancro che ha colpito la Russia e lo sevizia. Eppure nella
confessione, è l’assassino a decidere per l’ellissi narrativa: “Quello che
accadde nell’istante successivo non si deve raccontare per intero. Del resto,
come ho forse già detto, non è nei dettagli che risiede il segreto delle mie
azioni” non è in quello che si vede, è in una forma di cecità – e non servirsi
della pornografia dell’orrore, non guardare i dettagli, togliere gli occhi alle
proprie vittime crea uno strano intreccio di intenzioni tra Autore e
Personaggio-Narratore. E non è un caso che poi la Cecità – tra cavare gi occhi
alle vittime e la miopia estrema di Cikatilo – sono una chiave di volta sia
letteraria che morale.
La scrittura tuttavia
ha il suo compito, farsi indagine di
come il Male sia un processo della coscienza, e ci appartiene. Nel Linguaggio
trova il suo strumento, e nessuna altra forma ha maggiori possibilità di
evitare l’ambiguità dell’identificazine e dello specchio che divora l’anima.
Tarabbia si colloca con questo libro sul versante letterario
di un’indagine storica e psicologica che il suo centro nella Banalità del Male
di Hanna Arendt. Con un tentativo in più, come fu per il bellissimo e
controverso LE Benevole di J. Littell, mettersi dalla parte dell’Io che compie quel Male. Come
anche nel Nazismo, c’è un tratto di Cikatilo che può essere considerato simile:
il Male assoluto del singolo avviene dentro un contesto di Sistema del Male. Il
Nazismo come lo Stalinismo – con la differenza che quella di Cikatilo, fu un’azione individuale, fatta
non come culmine di quel sistema, non come parte di un’Operazione di Soluzione
Finale, ma come contraccolpo e sintomo della fine di quello – e
dell’affacciarsi tuttavia di un altro sistema, quello occidentale, che produce
i suoi “mostri di normalità” in un contesto assimilabile a quello di Cikatilo:
il vuoto, quella dimensione di deserto totale, di totalitarismo del deserto che
diventa la dimensione che occupa ogni spazio interiore e rende la macchina
umana a cui quel deserto interiore appartiene capace di tutte le cose più
disumane. La disumanità che il suo tempo e la sua terra conobbero come sistema
diffuso.
Tarabbia raggiunge con grande efficacia letteraria quel
compito che ha l’arte, ovvero non dare una visione edulcorata e consolatoria
della realtà ma mettersi davanti allo specchio ustorio dell’oltreumano,
restando umani, qui è la chiave.
. Il libro del resto è un confronto a specchio, continuo.Un duello a due, tra andrej e i suoi fantasmi, primo il fratello alter ego, tra andreej e le sue vittime, e tra lui e la moglie, personaggio incredibile emblema della nostra prossimità cieca al male, ma anche di pietà.
Se l’assassino tende a gettare fuori l’origine del male, noi lettori e l’investigatore, abbiamo necessità di introiettare, per capire per indagare se e quanto ci sia in noi di quel Male, per continuare – proprio comprendendolo, magari in forma narrativa – e poi provare pietà, unico limite che ci assicura di rimanere, noi si, nel territorio dell’umano.
La rappresentazione
di questa dialettica di stampo dostoeviskiano, emerge nella parte finale in cui
il commissario… prende la parola Issa
Magomedovič Kostoev, l’ispettore che lo ha arrestato, dopo avergli a lungo dato
la caccia, e ne ha raccolto la confessione e che è un altro doppio, anche egli
con ferite, anch’egli deluso dalla Russia del suo tempo, anch’egli con la
possibilità di disporre della vita di chi arresta, senza che questo lo porti a
distruttività. Con questa strategia, lo porterà a mimare sé stesso, a replicare
teatralmente per gli inquirenti quel che lui ha fatto e al tempo stesso,
replicare fuori dalle parole i gesti, e alla domanda di Cikatilo, perché mi fa
fare tutto questo, Tarabbia fa in modo che la risposta resti fuori dalla registrazione del video della polizia, ma
pure fuori dal nostro testo.
Salvo poi una frase enigmatica che Cikatilo dice nella stanza dell’esecuzione. La lasciamo alal vostra lettura e meditazione.
Salvo poi una frase enigmatica che Cikatilo dice nella stanza dell’esecuzione. La lasciamo alal vostra lettura e meditazione.
Cikatilo aveva trovato nell’infermo del suo abisso interiore
un furioso coraggio di opporsi alla storia, Kostoev scopre che invece lui è
l’uomo nuovo ma anche l’uomo del nuovo vuoto ordine del mondo, quello stesso vuoto dove il continuono monolog-dialogo che aveva mosso Cikatilo,
passa a diventare inarrestabile e indefinibile nella coscienza di Kostoev:
compirà un ultimo piccolo gesto, simbolico, che potrebbe essere un gesto di
pietà e sovranità dell’Umano oppure il segno di una resa, di un’accettazione –
Tarabbia viene dopo Dostoevskij, dopo Kafka e dopo Beckett, dopo anche la
letteratura, tant’è che sceglie di ri-narrare una storia già accaduta. La letteratura
ritorna ad un grado zero di una scrittura che obbedisce alla realtà, la ripercorre, la ri-pronuncia, collocandoci
nella condizione umana in cui siamo, di fronte alla violenza illustrata del mondo: in un
fragilissimo equilibrio tra resistenza e resa.
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