mercoledì 23 marzo 2016

CARMEN PELLEGRINO "Cade la terra" (Giunti)

Ho letto con un mesi di ritardo, forse un anno, “Cade la terradi Carmen Pellegrino, anche se ne avevo letto così come avevo seguito della sua attività di abbandonologa. Però il romanzo era rimasto sullo scaffale, tra quelli da leggere. Nel futuro, ma di fatto era abbandonato.
E di questa strana miscela di un passato abbandonato che preme sul futuro che è fatto questo libro e quasi, magicamente, l’oggetto stesso, il manufatto edito da Giunti se ne era intriso.
Magico è una parola chiave, per il Sud (Ernesto De Martino, se non altro, seppure non ci incateniamo a nessuna definizione)  e per questo libro.

Un romanzo nato da un lavoro di ricerca, tra luoghi reali e carte,  centrato nell’immaginaria Alento, piccola Macondo delle montagne che identifico campane, sovrapponendole alle terre d’origine dell’autrice, alle cui terre appartengono ad una vena aurea di un sottosuolo tanto cavo, franoso, instabile quanto ricco del mormorio dei morti, dei rituali che sono stati (forse sono?) antichi duri a morire.

La storia è simbolica: c'è Alento, paese che ha cominciato a franare, in un passato che pian piano si comprende siano gli anni del dopoguerra -  e una casa, con un grande olmo vicino, quella dei ricchi De Paolis dove arriva a lavorare una ragazza, Estella scappata dalla sua stessa vocazione di clausura monacale, che diventa istitutrice del poco più giovane adolescente Marcello, figlio riottoso e insofferente. Conoscerà – e assorbirà per donarla in voce di prima persona al racconto di Carmen Pellegrino – le storie di vinti e fangosi contadini, parenti lontani, ma non troppo,  dei cafoni di Silone, Alvaro e degli umili di tutta una storia letteraria di un secolo che quelle masse aveva cercate di portarle ad un riscatto.
 Come dei Goylem, fatti di fango e da trasformare in persone, i contadini erano come dei “nati morti” che cercavano nuovi giorni a vivere.  In qualche modo Carmen Pellegrino scrive di un ritorno nell’ombra di tutti i vinti del 900, rievocando e chiudendo un tempo, secolare in cui masse di contadini si sono spostati, senza vincere nulla, anzi: sono i Vinti, nella Storia.

Mi colpisce però che Carmen Pellegrino arrivi a pubblicare, casualmente - o magicamente? - ,  proprio nei giorni in cui masse di persone stavano vivendo un collettivo spaesamento, abbandonando terre, una perdita di orizzonte e presenza - cosa che nel nostro sud non è più vera: è terra piena di arretratezze e di angoli ispidi, sacche di povertà, degrado, però tutto sommato fa  parte  di un occidente del benessere, se paragonato alla somalia, alla Siria della guerra, all'Africa, alla Libia ecc- Un occidente che s'è fatto anche con la sofferenza del lavoro o di chi partì, magari non tornare più, come i figli della contadina Mariuccia, donna arcigna ma capace però di gesti antichi e fondamentali. Con lei anche altre storie si dipanano dai ricordi di Estella, che ben presto, quando anche i suoi padroni lasceranno la casa franante del paese, nell’acme del secolo ( quegli anni 60 che altrove esplodevano di vita cittadina e di milioni di migranti italiani che si inurbavano)  diventerà custode della casa dell’Olmo e unica abitante, rimasta a ricordare.

 Attraverso di lei scorrono le vite di Cola Forti, coi suoi ideali mai realizzati,  la delusione di sua figlia Libera, una delle tante sventurate senza risposta,  la vana speranza di Giacinto di avere un berretto che ne sancisca formalmente la sua funzione di guardia o “guardio”  – un racconto in sé magistrale tra Totò e Checov, l’angoscia della storia dei Parisi, il duro Consiglio, la moglie Custoda, la figlia Lucia, emblema di un meridione contadino ottuso e al tempo stesso vittima infinita. O anche il piccolo industrioso Maccabeo con la sua bottega, che il secolo lo inaugura concimando coi corpi e il sangue dei figli altre terre “irredente” parte di una patria fino a quel momento inesistente e mai pronunciata nel suo nome “Italia”. Estella che resta nella casa e nel paese franoso fino al completo abbandono, sarà poi la custode di memoria e di presenza.

E dunque mi chiedo: Che senso ha però raccontare questa storia, suo modo è una Spoon River ambientata tra le frasche che sventolano sul fiume Alento, quello vero, oggi?
 Non ripeto tutto quello che di buono si è scritto per "Cade la terra" e che condivido – trovate la recensioni qui nella pagina Giunti – ma vorrei ripartire da una domanda: perché Carmen Pellegrino decide di seguire questo filone?

ci sono alcuni "fuochi centrali"a cui il libro fa pensare, oltre, ripeto, tutto quello che è stato detto, possono essere materiali per  per una risposta multipla.

1) Carmen Pellegrino autrice di una generazione che ha initorno i trent'anni, abita una terra a sua volta abbandonata e senza più voce, ovvero non solo  la Letteratura del Meridione – quella di Silone, Alvaro, la poesia di Gatto, i saggi di De Martino – ma  forse la letteratura tout court, tra queste, prima tra tutte emblematica quella del coro di estinti, le voci dei poeti (che vivi o morti, parlano dalla medesima lontananza editoriale).
 Pellegrino è autrice esordiente, ma raffinata e consapevole, ha scritto un bel romanzo per celebrare lei stessa, e come Estella,  una ricca festa della presenza, abitando la soglia del romanzo dove possono convivere vivi e morti, prima tra tutti i poeti (nella nota finale se ne dà conto di questa consapevolezza e dei poeti, un lungo elenco da Leopardi a Gualtieri).  Dei poeti Pellegrino conserva la tradizione di scrittura, la forza e la cura di parola. Quel tanto di desueto, straniante, nella  terminologia e nella costruzione dei periodi, è un elemento felice di coerenza stilistica. Ma al tempo stesso non sta ricordando un mondo che ha conosciuto direttamente, è troppo giovane. Lo ha riscoperto dai libri, è un ritorno del rimosso di cui Carmen Pellegrino è – come Estella – una appassionata sacerdotessa, aggrappata a memorie anche non sue. Il rito della parole è quello che recupera i morti, ma pure quello che ne celebra una trasformazione che è stata un appuntamento con la storia, prossimo futuro, così come la loro storia di folla anonima di un secolo, non è stato altro che questo: un procedere verso un disfacimento e una gloria.

29 c'è lo sfondo reale del sud reale, fin troppo, quello della mutazione che porta dall'arcaico al postmoderno (la Taranta, da rito a showbiz, il folk come cartolina da turisti) la mafia, il pizzo, il mancato sviluppo,  la spaesamento anche senza abbandonare i paesi, e non può essere cancellato, mentre leggo le le atmosfere letterarie e rarefatte di Pellegrino, non cancellare dalla memoria il presente. Se da un lato c'è un mondo o una civiltà che sta per sprofondare definitivamente, dopo un lungo periodo di "omologazione"  in una sua dimensione ctonia,  una dimensione sotterranea, al confine tra la terra e  un  sottosuolo magico che ha qualcosa di carnale, sanguigno misterioso (l’abbandonologa Carmen Pellegrino, il paesologo Franco Arminio, il coppolone Vinicio Capossela, la poesia di Antonietta Gnerre attingono allo stesso pozzo).Se da un lato è anche vero che si sta usando il passato contadino per veicolare una merce (cibo, prodotti tipici, paesaggio rurale, eventi e  festival) ad suo turistico, e  il paradosso per "Cade la terra" è che diventi un'introduzione ad un qualche tour delle rovine, una sorta di baedeker per turisti consapevoli in cerca del vero sud.

Se da un lato non posso pensare anche a questo, dall'altro il libro parla anche al nostro presente, ma in un altro senso, credo. Lo spaesamento è ne senso del futuro. E i movimenti della Storia con le sue spinte in avanti affondante nelle macerie del passato, sono uno sfondo e il cuore del libro è l’umano. La sua sopravvivenza, nonostante la sparizione che - per molti protagonista del libro - inizia già durante la  vita, o meglio la loro sopravvivenza.  Per questo se da un  alto Estella sarà il viatico tra il mondo dei morti e quello dei vivi, con l'apoteosi di una cena joyciana dei morti, dall'altro porta a guardare più lontano, sempre verso sud.

3) guardare oggi a certi vivi stanno nella condizione di “nati morti”, nude vite, private di ogni chance e luogo?   Per questo a mio avviso le anime morte letterarie, comprese quelle evocate dal romanzo di Carmen Pellegrino, secondo me portano oggi nei campi dei rifugiati tra Siria e Turchia. Li sta il confine tra vivi e morti. 
  Non per voler sempre attualizzare, ma perché li si sta compiendo un altro passaggio e mutazione antropologica, oltre che una desertificazione e uno sgretolamento di ogni apparenza. Lasciare tutto, in una città franata dalle granate e girare come zombie per le rotte clandestine, vie dei canti che sanno solo in pochi e approdare in un altro paese, lontano dai propri minareti, proprio come il contadino calabrese di Marcellinara perse di vista il suo campanile dando un passaggio  proprio a De Martino.


4) Altro elemento è la manipolazione della morte. Ormai gli zombie sono un classico, ma i morti di Alento, creati da un'autrice di trent'anni circa, fanno pensare anche a certi romanzi di sci-fi o YA, consumati dalla generazione di Pellegrino,  in cui sopravvive sempre qualcosa di arcaico in certi eroi nel paesaggio post-atomico di un mondo crollato. Lo stesso è per il significativo ritorno dei "morti viventi" al successo tv  (la serie premiatissima  "Walking dead" e la francese (di Carrère, in parte) "Les revenants" anch'essa ambientata in un piccolo villaggio. E tutto sommato anche  il film “The revenant” racconta di  un 'morto' che torna al mondo dei vivi, e ci torna dentro un confronto diretto col mondo selvaggio della terra. 
Questa presenza della morte è un viatico vero il futuro. Non è solo rievocazione, ascolto di voci da un mondo abbandonato – che già è molto: sono  i morti, come Virgilio, a guidarci  in  “un secreto calle, / tra'l muro della terra e li martiri “ come ci ha poi ricordato anche Giorgio Caproni, vero la storia che resta ca compiere. Nostra e loro è una “guerra d’unghie” a scavare per aprire un varco, così come il loro scavare di talpe kafkiane, la poesia apre ancora verchi di un destino più segreto, l’odissea dei morti come dei vivi. 
E' significativo che ancora una volta, di recente, in un'Italia che soffre di un suo immobilismo storico, c'è una trentenne di oggi che parla così tanto dei morti ( colloco questo libro, assieme ad altri due recenti, ad esempio viciono a quelli di Di Fronzo e Peano), negli anni laici in cui ai funerali non si va o se si va, si cantano canzoni rock e si applaude, negli anni della fine definitiva del mondo che aveva un suo pianto rituale.
La generazione di Carmen Pellegrino forse più di tutti s’è confrontata insieme con la cancellazione del futuro e con un presente di “crolli” e morti” (come vediamo ancora in questi giorni)  e una possibilità di morire che è sempre presente in una pace apparente.
Allora il mondo di Alento, che non c'è più, è sparito. A cosa serva rievocarlo sta in un dettaglio, non a caso finale, chiuso in una lettera - ma il cui senso è: i destini possono cambiare. Cambiano, magicamente, anche per il morti, a maggior ragione cambiano per i vivi.

Concludendo: un libro che potrebbe esser letto come un’elegante “fuga”, melodiosa e accattivante, in un hortus conclusus in cui la terra di parole non frana e tuttavia protegge. in realtà, la resistenza di Estella nel tempo ai colpi di un destino feroce mi appare come una scommessa e un ponte verso il tempo che resta, che è pur sempre un futuro. E come certe donne che perdevano il marito da giovani e portavano il lutto per decenni – vivevano tuttavia quel futuro, tutto il loro tempo futuro,  segnato dal lutto ma vissuto. 

Ci prendiamo questo memento  da “Cade la terra”: abbiamo davanti un  futuro da pensare con i morti, attraverso il passato, anche se non ci appartiene,  perché  qualcosa nel futuro lo avremo. Sopravviva  in noi la coscienza – nel modo laterale dei poeti di ricordarcelo - che quello che strapperemo alla terra, tuttavia, sarà  quello che abbiamo già perso.

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