“Cleopatra va in prigione” (Minimumfax) è il nuovo romanzo di Claudia Durastanti. Un romanzo diverso nello stile, da “A Chloe, per le ragioni sbagliate” il suo precedente bel romanzo da Marsilio. Appena letto il titolo mi sono chiesto perché usare per Chloe e Cleopatra lo stesso gruppo fonetico, lo stesso che per Claudia. Tralasciando gli amuleti della scrittura, in questo romanzo di 125 pagine più asciutto nella prosa, ma con eguale precisione emotiva, da Brooklyn Durastanti crea una nuova storia a Roma Est, ai bordi di periferia che si dispiegano lungo l’asse della via Tiburtina a Roma.
E’ una storia di movimenti spezzati, di ore d’aria e di passi e respiri dentro una periferia che però è come fosse centro di tutto, di un doppio amore che Caterina vive anche se nessuno dei due è propriamente “l’ amore”. E del destino di tre vite, che sembrano imprigionate nello spazio troppo stretto dell’ineluttabile, invece secondo me sono nell’aperto, magari disorientate nel tempo fin troppo aperto dell’inconoscibile.
Tempi e spazi dalle parti di Caterina sono certo non proprio il massimo, la realtà in questo romanzo non ha sconti, circoscritti a giornate monotone, ad una periferia che fa da sfondo al libro – anche se più metafora che racconto sociale, in questo romanzo - la notte nel locale di spogliarelliste, o prima, di giorno nel videoclub aperto con il fidanzato e il suo amico Mario. La periferia è soprattutto quella di tre appezzamenti di borgata est, casualmente la stessa dei romanzi di Pasolini senza che il romanzo sia pasoliniano - ad eccetto di un desiderio di comprensione e immersione, che è lo stesso, sincero e Durastanti sa cogliere sfumature con profondità e attenzione anche nelle cose, nei dettagli una sorta di evoluzione antropologica e psicologica che si sta compiendo (deviazione autobiografica, quello scelto da Durastanti è il mio quartiere in cui sono nato e cresciuto e in cui vivo quando sono a Roma)
La storia: Ogni giovedì Caterina va a trovare Aurelio nel carcere di Rebibbia. Sono entrambi figli di quella Roma popolare. Hanno provato a costruire un qualcosa insieme con le loro attività commerciali, Ma le cose sono andate storte, anche Caterina, ex ballerina di danza classica, si era ritrovata a lavorare come spogliarellista proprio nel locale di Aurelio. Una soffiata ha svelato traffici strani, ora Aurelio è in prigione, ed è convinto che lo abbiano incastrato. Caterina lo aspetta, ma in parallelo inizia anche una storia di amore-non amore, di quelli che non riesci a definire, ma solo ad agire, con il poliziotto che ha proprio arrestato Aurelio. Forse ha voglia di pace, alle sue spalle una storia non lieve, con un padre che era finito in prigione anche lui -con accuse di molestie su ragazze minorenni e Aurelio, un fidanzato che alla fine più che amore è una cosa che “esiste da sempre” dice Caterina al poliziotto. Come Roma, mi verrebbe da dire, alla non-romana Claudia.
L’architettura narrativa è quella di una storia di amore triangolare, tra jules e Jim e un classico popolare alla Clopatra appunto. Sarà propri la scelta d’amore a determinare il resto, e a definire quel senso di destino o ineluttabilità di un’appartenenza altrimenti negative: Caterina cerca la sua accettazione di quello spazio in cui vive e delimitandolo lo definisce come spazio identitario e ci trova la sua collocazione, per non subirlo come magma indistinto.
Eterna Roma, non Roma. L’ombra dell’ineluttabilità qui c’è, è reale: già nella storia famigliare, la prigione, il disagio economico, la città difficile. Lo stesso amore difficile. E Roma: la Roma di Caterina/Cleopatra è una Roma . Caterina esplora la città, cammina perché non può più danzare e queste sue passeggiate da flaneur sono alla fine una ricerca di senso. Ropma fatta di una opposta bellezza a quella usata da Sorrentino . Fatta di una luce segreta umana sulle cose, molto diversa dal fumettismo coatto e dark di Jeeg Robot che racconta una Roma deforme, grottesca, ma alla fine finta.
“…la notte Caterina si distende sul suo materasso ancora appoggiato a terra e anche se non fa dei sogni particolari sente un calore diffuso e ondulato nel corpo e sotto le palpebre intuisce lo sciabordio lilla e argentato delle stelle, astri che si dilatano e si sfilacciano per fondersi con la luce dei lampioni che punteggiano la strada in cui vive, una strada che si srotola in una matassa ingarbugliata di tangenziali e raccordi fino a uscire dalla città in cui è cresciuta, una fossa di mattoni e sabbie mobili fortificata dall’ abitudine e dal futuro che non arriva, dove il fiume prende fuoco al tramonto e il sole che si schianta e si rovescia sui palazzi trasforma Roma nel posto che non lascerà mai, una crepa in cui Caterina affonda e respira a occhi chiusi, tutta miseria e asfalto finché i suoi muscoli non la risospingono in alto e lei torna a un destino dolce ed elettrico, tonificato dagli esercizi e dall’ amore; la città dove si alza ogni mattina prima ancora che suoni la sveglia e in cui passeggia tra gli steli alti fino al ginocchio e gli arbusti del parco sotto l’andirivieni rumoroso degli uccelli, prima di arrivare alla fermata dell’autobus con la sua andatura sbilenca ed elegante, una sconosciuta, a cui i passanti dicono ancora che cammina come una ballerina”……
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Caterina flaneur cerca un’appartenenza . Caterina non vuole fuggire, non è disperata, sta semplicemente cercando di capire dove è il suo posto. La storia di Caterina e Aurelio è per certi aspetti una storia di perdenti , ma Durastanti lo calibra bene, dando spazio ad un ammutolimento, forse, o un silenzio di chi sa che questa è la vita, non ce n’è un’altra. L’uso sottile del discorso indiretto ci porta senza usare la prima persona dentro questo silenzio , la disperazione viene ammaestrata (non a caso una scena chiave i svolge intorno ad un circo) ma non ci sono colpe e rancori: Caterina ad esempio ha l’anca rovinata dalle botte di Aurelio, lei non potrà più ballare, ma in modo ineluttabile accetta un altro lavoro, e lo accetta anche con una forza gentile, e tollera ancora che ci sia Aurelio con lei, come se quell’ anca spezzata fosse per paradosso il segno di una unicità della loro storia. Ecco quando la letteratura indaga nelle pieghe dell’esistenza per smontare i luoghi comuni che in questo caso, molto correttamente, ci vedrebbero suggerire a Caterina di abbandonare un fidanzato violento. No qui non è più sociologia, come si diceva, forse potremmo dire psicologia dei luoghi? o poesia, o forse danza, spazio. La scrittura di Durastanti, la sua prosa veramente di grande forza nei libri scorsi, qui si fa meno tempestosa, Durastanti preferisce affidarsi ad una precisione fine e sussurrata, ad uno sguardo che vuole restare leggero, una danza di sguardo sulle cose e quei dettagli affida variazioni emotive, sentimenti , primo tra tutti un sì alla vita anche nelle difficoltà (la convivenza con la madre, i lavori umili, i rapporti con gli altri).
Un amore. XXI secolo. Più che Cleopatra, divisa tra un Cesare e un Antonio, c’è una segreta Penelope, che non si lamenta del destino, lo accetta, lo sfida forse, senza svelarlo, non fugge, attende. E roma serve forse a creare un sub-sound di Storia – laddove la storia è anche una successione di rovine, dunque di catastrofi. Il vento spinge e si accumulano macerie come è noto. Anche ai piedi di Caterina - e forse a quelli di Aurelio, grazie a lei
“Aurelio è costretto a vivere in uno stato di premonizione costante: prima di Rebibbia questo senso per il pericolo non c’era, ma adesso dovremo conviverci. Ora abbiamo dei sensori particolari, siamo come i canarini domestici mandati in avanscoperta nelle miniere di carbone per rilevare le sacche di gas e morire prima di tutti. Adesso c’è qualcosa in Aurelio, qualcosa in me, che ci rende ipersensibili alle catastrofi, ma non è detto che, pur sapendone interpretare i segni, saremmo in grado di scappare in tempo o di avvisare gli altri per salvarli. Forse siamo sempre stati così, e crescendo la nostra sofferenza invece di renderci deformi ci ha resi privilegiati, facili da usare, ma anche speciali, destinati a essere consapevoli degli strati più infimi e nascosti del mondo e a renderli noti anche quando non possiamo fare niente per migliorarli...”
Questo è anche il compito degli scrittori e Claudia Durastanti ci riesce.
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