“Le otto montagne” di Paolo Cognetti è il nuovo libro dell’autore di “Sofia veste sempre di nero”. Viene da chiedersi cosa abbia spinto l’autore a lasciare una narrativa così aderente alla scomposizione della coscienza e del punto di vista, attuata attraverso una raffinata costruzione di un romanzo di racconti che si misuravano anche con un continuo slittamento orizzontale dell’identità, quasi a seguire l’impalpabile presenza di Sofia. Qui
c'è uno scarto evidente.
c'è uno scarto evidente.
Infatti Cognetti con “Le otto montagne” porta la storia verso una dimensione narrativa e stilistica ( partiamo da qui) che lascia la dimensione metropolitana e costruisce quello che verrebbe da definire un romanzo di nuovo organico, compatto e "di altri tempi"... Per certi aspetti può deludere - pur essendo certo un ottimo libro, con una lingua scolpita e nitida, che certamente farà il suo bel percorso solido di affermazione - ma per chi come me considerava "Sofia" come una delle prove migliori della narrativa italiana recente, capace di offrire un esempio di mutazione positiva della forma-romanzo, in Italiana... bè questo sembra un "ritorno all'ordine" ( si sarebbe detto un tempo, quando la letteratura era militante...)
IN effetti,in questi tempi di hate speech, appena il romanzo crescerà e si affermerà, magari nei premi, ci sarà pure chi dirà che rientra una leggibilità da "grande pubblico", da storia calibrata per giornalisti-e-pubblico, ma penso seriamente, perché l'autore è anche una persona seria, che non sia calcolato. Penso sia una scelta sentita come necessaria di un " ritorno", e assumere questa struttura era anche funzionale al racconto per tutta la prima parte si volge indietro - ed in effetti anche la migliore - poi verso la fine emerge anche l'impossibile del ritornare (chi leggerà poi capirà, fino all'ultima riga). io mi auguro che cammini a valle,ancora.
Se la storia di Sofia e dei due protagonisti maschili era dentro una New York dei destini incrociati, inseguendo i propri desideri, dilatata nei vari racconti-quadri narrativi , qui dunque Cognetti scrive un romanzo dai toni classici. E classico è il presupposto della storia: “una storia di due amici e di una montagna” dice in sintesi l’autore.. in realtà è anche soprattutto una storia di trasmissione dell’esperienza da padre a figlio, di un passaggio di testimone difficile se no impossibile.
Gianni, il padre di Pietro, che con la moglie dai monti del Veneto approda a Milano nei primi anni 70 (dove il figlio nasce) per lavorare come chimico nell’industria è un uomo del suo tempo: partecipa ad un’Italia che si evolve, in qualche modo progredisce ( se è vero che la madre di Pietro lavora in un consultorio cittadino, segno di un evoluzione positiva della condizione femminile, rispetto al paese retrogrado che si sono lasciati alle spalle). Ma è pure l’esponente di una generazione che farà da ponte tra l’antico la modernità, tra l’italia contadina da sempre e una industrializzazione e urbanizzazione accelerata. Per Gianni la patria è il paesaggio, sono le montagne, è quello il sigillo che Gianni e sua moglie si portano dentro. Gianni ha anche una ferita che lo lega ai monti eppure non ne può fare a meno, anzi forse da quella nasce una sua ostinazione a fuggire dalla città e dalle nevrosi che lo schiacciano. LA montagna del resto è per la coppia un mito familiare fondativo (in montagna si sono conosciuti, innamorati, e sposati) e questo li porta ad eleggere come heimat Grana, un piccolo paese delle Alpi Occidentali. Qui Pietro avrà la sua formazione parallela , ma di fatto l’unica perché nel romanzo è narrata solo quella, estiva, montana “(ed è la consapevolezza di PIetro e Bruno, implicita: "La nostra amicizia abitava su quella montagna e ciò che succedeva a valle non la doveva sfiorare") . Pietro cresce d’estate insieme a Bruno un coetaneo, pastore e montanaro e sarà attraverso il confronto con quel fratello acquisito, quel doppio stagionale che Pietro misurerà anche quanto distante un padre può essere e quanto vicino ma inafferrabile sia l’amicizia.
E’ anche una storia di duplice identità, tra un’appartenenza al mondo immutabile dei monti a cui Gianni si sente legato e Pietro sempre meno, e la modernità del fluire e della trasformazione delle cose. Così se crescendo Pietro si allontanerà dai sentieri del padre, preferendo la via dell’arrampicata come forma di protesta, Sarà Bruno il montanaro inamovibile ed eterno a diventare pian piano anche quel figlio che ama la montagna come cosa sua e che Gianni in fondo desiderava. E il romanzo si regge tutto su questo metaforico e alluso incrocio e scambio di posto tra le figure di figure: Gianni e Pietro, come padre e figlio, che finiranno per scambiarsi di posto, come inevitabilmente succede nella vita, crescendo. ma anche Bruno al post di Pietro e Bruno come quel fratello o doppio che Pietro non avendo potuto avere non è tuttavia neppure potuto essere. C'è nel libro una precisa idea del tempo, un tempo.centro e "senza tempo" che è a la vita semplice e sospesa. Mungere, camminare, guardare gli spazi dalle vette: c'è però anche un tempo reversibile,che apre la sua possibilità nello scambio, in una sorta di rinascita, per questo credo di trovare giustificazione al cambio di rotta stilistico che altrimenti collocherebbe questo romanzo nella categoria “molto bello ma ..”. Qui la critica che faccio è puramente letteraria, noiosamente letteraria, il lettore sarà felicissimo di leggere questa storia - e mi rendo conto che la letteratura con quel vizio della "forma" come l'abbiamo conosciuta nel 900 possa addirittura entrare in contrasto con la necessità (anche economica e politica) che ci sia una comunità di lettori che capiscono i codi di una forma "riconoscibile".
Da questo punti di vista Cognetti è bravo, è uno dei nostri scrittori under 40 migliori e conosce la montagna: il risultato un bel romanzo, è un piacere certo leggerlo, nel suo dare materia ala storia, psicolocgia petrosa ai personaggi, a tutta la fisicità della vita montanara, c’è il legno, la neve, l’umido del bosco, la ruvidezza, anche il silenzio, che in montagna è un corpo, e il non detto che è un sapere delle mani. Però non dura.Il punto di fuga del libro - e dove forse con un "non detto" Cognetti dà il segnale che questo "classicismo montanaro narrativo" è solo una parentesi - il punto di fuga e d'uscita, anche dello scrittore dal suo libro è quando tutto questo mondo antico e solido frana e Cognetti va forse un po ' troppo precipitosamente verso l'evoluzione della fine: che inizia non solo per il lutto del padre, ma in coincidenza soprattutto la fine dell’attività agricola tentata da Bruno come montanaro-imprenditore.
E così torna il presente, la valle, il cammino e il tempo, la storia: Ancora una volta, come fu per il padre negli anni ’70 è la nuova iper-modernità, è l’economia, è il mondo a valle a schiacciare la montagna e Bruno. Il paesaggi odi Grana minacciato dalle trasformazioni a valore d'uso turistico, e il suo amico-fratello che ora è sui monti come un nume tutelare di quel mondo mitico in cui il padre ormai morto continua ad essere una presenza, ma che è in difficoltà economica.. Pietro nel frattempo s'era incamminato in altri sentieri, lontani, ma sempre la montagna c'era di mezzo, in Nepal, a svolgere lavoro umanitario, attività che nel suo essere semplice, è in realtà ben cosciente del presente storico, non è affatto lontana, anche nel suo essere apparentemente antica, in cui il sapere delle mani ridiventa un’attualissima forma di riscatto storico: “noi insegnavamo l’inglese e l’aritmetica, ma forse avremo dovuto mostrare a quei figli di emigranti come salvare un orto, costruire una stalla, allevare capre”. Il mondo non salvato di ragazzini in cui rivive in un baluginìo l’infanzia remota di Bruno e Pietro e quel che c’era di puro e integro in quella vita, tramesso da Gianni come un mito impossibile, di un ritorno impossibile, incarnato e ereditato ma malvolentieri da Bruno, che apparteneva naturaliter a quel mondo, ma nonostante ciò tutto era era destinato a franare, prima di tutto economicamente. Del resto quando è impossibile tornare in vetta, anzi quando tornare è soltanto un sogno, quando tornare è illudersi con l’invenzione d’avere un centro permanente del tuo mandala interiore, allora è ora di tornare - o meglio accettare l'idea di "restare" a valle,come forse sommessamente consigliava a Pietro la madre, bellissimo personaggio - restare nel cammino della Storia dei giorni che hanno date –e nel romanzo appaiono, il 2010 della crisi, il 2014 dell’inverno più nevoso – e dentro quegli anni camminare, che la bellezza delle montagne è anche quando ti indicano il cielo, sì, ma visto da un prato a bassa quota. Forse anche per Cognetti è stato necessario scriverlo, immaginiamo quanto. Per chi come me sta a valle e ha il "vizio della forma" in letteratura, è ora di distruggere il mandala compatto di “Le otto montagne”, seppellire “Bruno” e proseguire, almeno letterariamente, stilisticamente, on the road. Namaskas.
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