Avevamo letto nel 2012 Infinita
fine di Cesare Viviani, seguendolo nell’ulteriore tappa del suo lungo
cammino di poesia, portare alle estreme conseguenze gli esiti e il senso di
quarant’anni di ricerca. Ma se dagli
anni Settanta agli anni Novanta questa medesima ricerca era ancora dentro il
Novecento, seppure dopo la lirica, negli
ultimi vent’anni Viviani ha iniziato un lungo esercizio di “uscita dalla
recita”, come aveva già scritto nel libro del 1981, L’amore delle parti. Il libro del 1993, L’opera lasciata sola fu il punto di svolta che arriva con diverse
trasformazioni, al libro del 2012. Già da allora Viviani affrontava i temi che
gli sono cari, il rapporto tra vivente, la natura, e un soggetto che si
confronta con ciò che sa per interpretarla, il divino, mondato da tutte le
false presenze, così come il teatro delle forme della vita comune, dei saperi e
dei linguaggi, compresi quelli della poesia e da cui emergeva anche un
sentimento di pietas verso l’umano. Iniziava allora anche un progressivo
abbandono del territorio della lirica, quasi radicalmente ponendosi sul confine
di riconoscibilità (e di grande originalità) della poesia tutta, anche la più
sperimentale e antilirica. Percorso estremo per ribadire che ogni forma
d’espressione e interpretazione è ingannevole spettacolo.
Da anni Viviani
affronta una riflessione profonda che nasce dalla filosofia, psicoanalisi, dalla
meditazione in senso più ampio, e da un’intima indagine del rapporto con il
mondo e con il divino, il silenzio di quest’ultimo nella storia. Se il
Novecento ha scardinato certezze, e tolto fondamenta al Soggetto, al Vero,
neppure la rappresentazione in arte di questo terremoto, della crisi, della
nevrosi, dell’assenza, niente ha senso, né l’idea di un’Espressione o
Creazione.
È qui che Infinita fine –
come il precedente Credere all’invisibile
– prendeva su di sé questa riflessione praticandola, coerentemente, ovvero portando
la poesia a un livello di rottura unico nel panorama italiano. La scelta allora
degli attuali brevi testi affermativi – ma con un richiamo ad una sua lunga
consuetudine di scrittore per aforismi - senza orpelli stilistici era quella annunciata
proprio in alcuni versi de L’opera
lasciata sola: “il racconto in prima persona / con i virtuosismi / è una
spirale che ad ogni giro si restringe”. Ecco, al giro più stretto ora sono
l’apoditticità, la sentenza e l’aforisma, il taglio liminale dell’epigrafe dei
testi di Infinita fine. : portata ad un
ground zero dell’espressione, per
privarla di inganno e per assimilarla alla matericità del mondo, la parola,
qualsiasi essa sia, poetica o della terapia analitica o della scienza, dei
saperi umanistici, poteva avere ancora un qualche credito, è inevitabile per la
natura umana, ma a patto sempre di svelarne il vuoto di sé e del tutto e puntare
ad esso, al coraggio di confrontarsi con il silenzio
dell’universo: scriveva in un verso che la “fede nella parola salva”, ma, subito dopo
aggiungeva con ironia, solo “la parola ‘paradiso’ salva”, il resto non è nel
dire”. La parola, la sua bellezza ingannatrice, è al massimo “rimedio
istantaneo agli insulti del tempo”. Dunque se il resto non è nel “dire”, perché
continuare ancora?
Il livello di riflessione attraverso il paradosso di una
pratica antipoetica della lingua, della sintassi, della frase e del dichtung nel suo complesso era così
estremo che sembra davvero sul punto di un abbandono del fare poesia, all’ ammutolimento
di quella materia-natura chiamata sempre a unica appartenenza, un consegnarsi come scrive in Infinita fine “senza corpo, senza volto,
senza espressione” a un “oceano ondeggiante / senza fine” dove tutto c’era
tranne che ancora un opera del dire, un’opera dell’arte.
E’ quindi sorprendente, quasi uno scarto ulteriore, ma di
lato, l’apparizione del libro del 2016, che già nel titolo riprende direttamente
la questione e riporta anche evocazioni di una preghiera della parola e del nome: “Osare dire” (Einaudi, p
114, 2016, E, 11).
Viviani osa ancora,
nonostante quel punto estremo, tornare a dire come nella preghiera del Padre Nostro chi ha fede e pure paura, ma
osa rivolgersi al Padre stesso. La preghiera di Viviani è in assenza di un
padre-sostegno. E’ nell’assenza totale ora la sfida. E tuttavia il superamento della paura di
procedere senza nessun aiuto (un Dio, un linguaggio, un padre o un nome del padre) è un punto chiave centro
del libro. Affrontare la paura di superare il deposito di sapere critico che
pensiamo sia strumento e invece ci mantiene in una posizione di relatività,
distanza e frattura ((attenzione: lasciare i saperi dopo averli assimilati, siamo all’opposto di un’esaltazione della
semplicità e della ingenuità, che sono un approdo di spoliazione di sé)
LA PAURA
Già in apertura di libro il “buio “e il “nero” non concedono
riposo a quelli come “noi” – prima persona plurale dice il poeta, a sé stesso e
al lettore, ancora qui attardati su un testo poetico, quindi non completamente
liberati) noi “affannati a smontare e rimontare il vero”. Come Petrarca che in apertura di Canzoniere si
rivolgeva a “voi che ascoltate” qui il poeta lirico spodesta sé stesso e
l’uditorio, intrappolati in una comunità senza comunità, in cui è la
dismissione, l’uscita dalla recita, anche se si è pagato il biglietto, l’uscita
dal sapere, dalla volontà di sapere, dalle conoscenze, dall’illusione di verità
(neppure in poesia né psicoanalisi ecc.) è l’unica possibilità.
Verranno mica a cercare la verità da noi,
quelli lì, anche se hanno pagato?
Prepariamoci.
Perché nessuno di noi ha la verità.
E nel vuoto qualcuno
Si attacca a un libro, altri
A un legno e lo lavorano, o ad un masso.
A un cellulare, o a un corpo vivo.
Ma il sostegno viene da altrove,
e allora puoi immaginare
che è là il tuo caro padre defunto.
La natura va vissuta nel suo essere tremenda presenza:
“perdi la folgore/ se non l’hai temuta”. Né liturgie né attività di costruzione
del mondo, attività, società: tutto è una “sequela di atti osceni”. La semplicità
della chiarezza che Viviani osa dire
si lega alla rinuncia ad ogni interpretazione (“distinguere i cambiamenti. È buttare
via le ore”) Il mondo va amato ma senza illudersi di comprenderlo, bisogna anzi
farsi natura. Naturalmente stare come poeta che continua a scrivere è stare su
quel confine del dire che tende a spegnersi, depotenziando le parole è perché
quando “ci sono loro”.” non c’è più prato e cielo/ ricordi e prossimità”. La
poesia di Viviani aspira ad essere il luogo in cui si mostra questa spoliazione
estrema, senza seduzione e senza “promettere paradisi”, anche se è nella
“natura umana” a tentare sempre una preghiera o profezia di salvezza. Siamo in
un finale di partita della poesia
contemporanea in un teatro dell’assurdo in cui ogni conoscenza tende oltretutto
a relativizzare sé stessa (la decostruzione, l’analisi). Ecco allora in
alternativa Viviani guarda ad altro: il “delirio” (o della “credenza del
demente”) come un paradigma, non la logica binaria (“l’essere o non essere”) su
cui è costruito il sapere occidentale. Rinunciare ad ogni “indottrinamento” ma
affidarsi a qualcosa evocato da una immagine arcaica e enigmatica “seguire fino
ai margini del bosco”( ..)”un coniglio” o “una bambina luminosa”. Siamo quasi
nel territorio di un’alterità radicale, un rovescio della logica, una via di
fuga dalla rappresentazione del reale. Il bosco è una presenza che ricorre
spesso, così come la paura: il mistero, l’ombra e la minaccia, accettare questo
è la possibilità futura.
Com’è, come sarà
Vivere senza ricevere aiuto,
senza favori, protezioni,
senza materne associazioni,
anche quando la febbre sale,
anche quando il fiume straripa
e travolge il riparo, orto e baracca.
Sarà come vive il resto della natura,
vicino ai predatori e senza paura.
Niente paura. Un richiamo quasi dal sapore francescano. Nelle
cadenza anaforiche, nei richiami sonori, un coro semplice e profondo, una sottile
tessitura metaforica dietro gli apparenti enigmi di ogni singola parola scelta.
Semmai lo “spavento è nella cultura degli uomini, nella tecnologia “nelle
nostre invenzioni/ nelle nostre perfezioni “ma “finché l'uomo non si fa natura
resta la paura”. Attraversare la natura “senza voler cambiare nulla” (echi di filosofie
orientali? misticismo occidentale?) –
attraversiamo questo “fuoco della materia” “come se Dio fosse un onnipotente / perché
Dio è onnipotente “.
Questi due versi finali sono un altro esempio del procedere
frastico, linguistico e stilistico senza stilemi di Viviani. In questa frase un
avvitamento logico, giocando sull’ambiguità concettuale del rispecchiamento
della comparazione (“come”) dei due segmenti uguali, uno usato a spiegazione
dell’altro identico “(perché”). Viviani dà vita al suo registro poetico soprattutto
in chiave concettuale, lavorando sulla torsione del linguaggio, svuotandolo di
senso, smontando immagini, allegorie, come frasi, la sintassi logica, con
accostamenti che sono spezzature e viceversa. Torcere la frase, farla arrivare
a possibilità di dire qualcosa che non stia appunto nel dire consueto del poetico (o poetese, per usare un neologismo efficace
di Sanguineti).
MATERIA VS DIO
Lasciare che il già
creato della materia che siamo resti nel divenire di noi, come fosse dio. La vita è dentro inezie
aneddotica da prigione, quella per la quale non ci accorgiamo di essere
imprigionati “solo/ per custodire/ beni di proprietà”. Ma alla fine “non
sapremo mai” se in “tutta la vita/ abbiamo conquistato/ un filo d’erba, un
frutto, un sorriso”.
Scorre sempre carsica una corrente di afflato religioso
privo di ogni “Gloria declamata” che marca dubbi su Dio, fino a negarlo, come
facevano gli chassid, semmai trovando come sia “vicina la gloria/ alla
stupidera”. Viviani apparentemente dice cose semplici, sfida la forma della
banalità per scartarla. Un procedere che mi verrebbe da accostare – pur nella
diversità – al senso del lavoro per frammenti che fu dell’ultima fase di Luzi e
Caproni.
CREDERE E VUOTO
Credere è altro
concetto chiave in questo libro (come già nel precedente libro fin dal titolo: Credere nell’invisibile). Di fronte all’universo e all’inesauribile
enigma che metteva in discussione la nostra presunzione di essere
……………)
c’era chi reagiva
Con il sollevamento pesi o con gli addominali
Chi scaraventandosi dal primo cliente
A insistere
Per concludere un contratto,
chi si indebitava per comprare una macchina suv
chi correva in chiesa a supplicare Dio
di rimediare a tutto.
Corrosiva grottesca satira dell’umano, nei suoi affanni
ridicolizzati, accostando la supplica a dio all’acquisto del suv. In realtà di
fronte al crescente non essere, la via da percorrere è tenere il pensiero verso
un abbandono ad “un’inerzia”. Né amare,
né meditare o lavorare: forse siamo nati “solo per credere”? non la cultura, la
storia (“Non mi parlare di ugonotti o di horkheimer”) ma anima spoglia (“sono analfabeta”).
Forse il semplice gesto muto dell’abbraccio. “L’autenticità è parola/ senza corrispettivo
di vita” scrive in una poesia dedicata a Giudici.
E’ infondo l’indicazione che di una resa al non essere, che
non è considerato un’esperienza negativa, uno stato negativo. Quell’altrove su
cui poggiarsi è una distesa ampia e deserta in cui non c’è nessuno, è “quel che
è mancato alla vita di tutti”. Che cosa è dunque? Sottile, impalpabile conclusione che riduciamo
a conclusione di un ragionamento sottraendoci alle indicazioni del poeta, ma
possiamo dire così: quel che è mancato alla vita è stato il suo non poter essere altro che vita, ovvero
finire, non il contrario, l’essere senza essere morte e inesistenza, ma non per
essere come dio, bensì come cosa. Non poter essere quell’eterno fuoco di una
materia dell’universo, che è creata dentro uno spazio-tempo, ma al tempo stesso
è privata della deteriorabilità della morte. Dio ci ha fatto questo scherzo supremo
donandoci la vita e condannandoci all’esistenza, che tuttavia è inessenziale.
Se siamo polvere, abbandoniamoci al senso di esserlo. Polvere dell’universo. La
materia inerte e tuttavia sempiterna, (il bosone di higgins) ovvero ad evocare
un qualcosa che è dato, che c’è senza
essere stata portato ad essere. Questa inerte materia, questo arrivare a
sentire di poter abbandonarsi a questo è il recupero dell’impulso del creato, di
fronte a tutte le limitazioni della vita ma senza le rappresentazioni del dopo-morte
di un’eternità paradisiaca, che è certamente costruzione artificiale del pensiero.
Restare cosa, anche se è dall’universo
eterno che viene il nostro essere corpo, carne, vita, finitudine. Ma credere
anche di esser parte di questa inerte inerzia della cosa materia è il filo
sottile, fragile e potente, della poesia di Viviani, per esempio quando ne
riassume la secolare constatazione attorno a cui ruotano tutte le domande sul
senso della vita:
Come fu questo impulso di esistenza
l’avvio, la prima smorfia come fu,
non so spiegare questo ritrovarsi al mondo,
è incredibile
come incredibile
è credere.
L'unica via è la
ottundimento della pietra, più si tenta anche la definizione più si cerca un
verità anche di fede, capire che cosa è il tempo di esistenza, più
si rischia di riempire “con un fiume di parole giorni e anni” quel vuoto a cui bisogna
invece tendere, credere, abbandonarsi. Tutto questo riempire di parole quel
vuoto in ogni caso “è la prova inconfutabile dell'esistenza del vuoto divino”.
DIRE NELLA FINE
Piano di slittamento della poesia di Viviani è tale perché
abilmente si sottrae all’asse del significante, per concentrarsi su quello del significato,
ma che in ogni caso è sempre dato attraverso un’elaborazione della forma, della forma della frase, assemblando costruzione
sintattica calibratissima del pensiero che in apparenza non ha neppure la forma
di quello, modulandosi per concatenazioni assertive e aforistiche, che aprono
infiniti concetti spaziali della logica, costruendo dissonando, deviando dalla
logica, in una continua mobilità del pensiero stesso in altra forma, un'altra
via, un'altra logica che si fa indicatore di una necessità ulteriore e finale:
ammutolire, non nell’arrivare ad una reductio.
Osare
dire che non bisogna più dire, il pensare anche qui – come il versificare –
non appoggiandosi a nessuna costruzione di sapere (e di fronte a quelle
rischiare di apparire poesia di assertività semplice al limite dell’ingenuo,
“meglio la credenza del demente” dice ad un certo punto). Questa fase della
poesia di Viviani ci pare un tentativo di porsi dentro il processo del pensare
la “via ulteriore” che sta dopo di noi come “il tempo che resta” come il tempo
di chi annuncia la fine dei tempi, come se coagulasse dal magma di
un’elaborazione originaria. Pensare prima dei pensatori. Pensare come se nessuno avesse mai pensato
prima. E appunto osare dirlo.
Sono stato sposato per 7 anni. Il mio matrimonio si è deteriorato per un po 'di tempo, quindi era destinato a sciogliersi. Ero la sua moglie leale, fedele, solidale e fiduciosa. Aveva un altro lato selvaggio che è andato fuori controllo. L'ultimo incidente è stato quando ho scoperto che aveva una relazione 2 settimane prima del nostro 14 ° anniversario di matrimonio. Di punto in bianco mio marito ha appena lanciato il discorso sul divorzio su di me. Ero così ferita ed essendo una donna indipendente, pensavo di poter sopportare l'essere single. Era così difficile andare avanti, quindi ho dovuto chiedere aiuto. Il nostro terapista matrimoniale pensava che "qualcosa" non andasse bene in mio marito. Sono andato online e ho scoperto il dottor Adeleke e le sue buone recensioni sul lavoro di incantesimo. L'ho contattato per un lavoro di incantesimo d'amore e ho fatto tutto ciò che il dottor Adeleke mi ha ordinato di fare, 2 giorni dopo la mattina intorno alle 09:34, sono rimasto totalmente scioccato da come mio marito mi ha chiamato dicendomi quanto gli mancavo. Il suo incantesimo ha funzionato su di me così velocemente e mio marito è stato così amorevole, naturale e sto avendo un matrimonio felice dopo aver usato il suo incantesimo d'amore. Se sei in un matrimonio senza amore e infelice che non può essere salvato, credimi ... C'è luce alla fine di questo tunnel. La dottoressa Adeleke può anche lanciare incantesimi di morte, risolvere casi giudiziari, riportare indietro la tua partner omosessuale e riportare indietro la tua partner lesbica. Puoi raggiungerlo sul suo Tel / Whatsapp +27740386124
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