(Questa recensione è già apparsa in forma leggermente diversa su Robinson - La Repubblica)
Tutti possono dimenticare il passato, ma ci sono vite in cui
è il passato che non dimentica te e torna a chiedere il conto. Una di queste
vite è quella che Peppe Fiore racconta nel suo nuovo libro “Dimenticare
“(Einaudi, p.192, 18,50). Al terzo romanzo, Fiore lascia il registro brillante
e mirabile e con una narrazione maturata e di grande forza composta, racconta
una storia più nettamente dramamtica. A partire dai luoghi, dai paesaggi, in
cui si dispiega il talento di una scrittura precisa, che sa di inesorabile: c’è
un litorale romano selvaggio, abusivo e senza radici e c’è una montagna di
splendore, ma anche ombre e sangue.
Costruito a cavallo di due luoghi del margine, Trecase, paese a duemila
metri tra Lazio e Abruzzo, e Fiumicino dove il protagonista è cresciuto e che
da luogo di mare s’è fatto ormai landa sgretolata e sobborgo di una Roma
assente dal libro, ma di cui si sente il fiato pesante di ruggini, cemento
vecchio, sporcizia, abbandono.
“Dimenticare” snoda la sua trama lungo un ventennio, tra il 1995 e il
2015. Daniele, già uomo avviato alla mezza età, passato il secolo, cerca giorni
nuovi in un bar da ristrutturare a duemila metri d’altezza e si lascia alle
spalle il mare, la luce e il suo passato. Il peso che si porta dentro è ruvido
e muto. E’ deciso a sparire, si inventa un Messico come rifugio per marcare di
più l’assenza. Quello che cerca è stare lontano da suo fratello Franco, rimasto
impigliato al ristorante di famiglia, Lido Esperanza, una volta fiorente ora in
decadenza. Franco ha tanti guai con malagente, debiti, una moglie comprensiva e
un figlio, Cristiano, che ama lo zio, anche troppo, e soffre il suo abbandono.
Legatissimi quando erano parte di una meglio gioventù degli anni 80, come
nell’episodio del prologo, i due fratelli crescendo non si sono saputi
scrollare il margine di dosso. Periferia eri e periferia resterai, specie
Franco malmostoso, incline al losco. Non siamo nella Suburra romana criminale
ma cool delle serie tv. La loro vita è proprio marginale e la paura è il
sentimento dominante, anzi l’unico che sanno riconoscere. Colpa anche di un
padre violento e burrascoso. Daniele fugge non solo dai casini del fratello, ma
anche dalla sua stessa biografia “che schizzava intorno come un rettile dalla
testa mozzata” in cerca di silenzio. Qui compare il doppio fondo di un romanzo
che sa di tremendo e meditazione.
A Trecase si dice ci sia un orso, che ha
colpito e ucciso, che nel romanzo tornerà a colpire. Non sarà l’unica bestia a
ruggire in questa storia di un uomo solitario e imprigionato in sé stesso, che
non sa dire le sue scelte, ma le fa. Sarà pronto a fare i conti quando la vita
torna a cercarlo. Sono passati tredici anni di silenzio tra fratelli, la loro
divisione è rancore ma forse è come un patto a salvarsi. Da cosa, lo saprà chi
legge. Il nipotino è diventato uomo, lo zio e il padre invecchiano. E’ ora di
tornare, prima che sia tardi, dice Cristiano, metà ordine e metà supplica,
andando a ripescare lo zio sui monti. Lui ancora non sa perché lo zio s’era
fatto ombra. Prima delle parole, Daniele invece sa che quello è il suo
appuntamento finale, la vita è cravattara.
Tra le qualità di “Dimenticare” c’è proprio la forza di un silenzio piegato
dallo stile di Fiore a farsi presenza, un magma colmo di troppa vita, un
diluvio di significati che si agitano muti dentro i personaggi. Un romanzo
senza redenzione, il dolore che si accumula è così pesante che diventa pietra,
senza poter dire se sarà fondamenta o lapide. Tutti hanno dannazioni private,
in questa storia si plasmano in comunità, crescendo in un posto in cui ci si
conosce tutti, una legione di sconfitti che arricchisce narrativamente l’assolo
doloroso di Daniele: dai piccoli delinquenti senza nome come “Testa d’uovo” che
ti minaccia di morte ma poi viene al tuo funerale e piange, a Gigio il
commercialista che si danna per salvare i fratelli dalla rovina economica,
sentendoli famiglia, o Svicolo il pasticcere, solo una comparsa, ma emblema di
un’umanità dai caratteri ruvidi, che invecchia male, ingrassa peggio, sfancula tutti per dire che li ama. Il romanzo litorale di Peppe Fiore contagia con un senso di morte
in riva a un mare luminoso, intorno ai nodi irrisolti dei due fratelli, si estende al microcosmo di borgata, ma
lascia trasparire una decadenza generale, italiana, che balugina negli
attraversamenti di questo paesaggio di “ristoranti cinesi centri benessere e
liquidazioni di mobilifici”, dove “la vita resiste” dice Cristiano e deve
essere per forza così, per questi personaggi convocati dall’ineluttabile ad un
romanzo come alla loro vita, e che tuttavia chiedono solo di resistere, fosse
anche come “l’erba cattiva in una crepa
del muro”.
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