giovedì 24 maggio 2018

MARCO BALZANO "Resto qui" (Einaudi)


Finito di leggere  il romanzo di Marco Balzano “Resto qui” rimangono  impresse le due linee di sviluppo di questa storia, che forse non va sciolta, il suo tema è proprio continuare a vivere insieme ad una rimozione,  a come si sopravvive se il nostro fondamento scompare.
Il romanzo nasce da una storia vera e ci interroga anche per il presente – questo fanno i buoni libri, anche se nella forma del romanzo  – per vicende di stretta attualità, in Italia  e non solo.

Ambientato in una in una zona di confine e  ispirato alle storie vere degli abitanti di un villaggio della Val Venosta, tra prima e dopo la seconda guerra mondiale,  in Sud Tirolo, “Resto qui” è un romanzo a cerchi concentrici nella sua simbologia: nel cuore centrale ha la  storia intima di Trina, il romanzo ce la presenta ormai vecchia, mentre scrive  quel che leggiamo come romanzo, ovvero una lunga lettera a sua figlia sparita quand’era bambina, meglio : strappata  via dagli zii durante la guerra - o forse andata via lei stessa con loro,  seppur bambina, di sua volontà.

Sullo sfondo ci sono le vicende storiche  del paese di Curon, tedesco, austroungarico prima, strappato con violenza alla sua culla linguistica dopo la prima guerra mondiale, strappato poi della sua lingua dal regime fascista che impose l’italiano e poi infine strappato ancora e fisicamente dalla sua terra, raso al suolo per far posto alla diga di Resia, della Montecatini, poi Edison che ancora oggi è incuneata nella valle.
 Curon è uno di quei luoghi di confine dove la Storia abita solo come un vento ghiacciato che divide il cielo.
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 Trina è maestra e non ha paura. Quando Mussolini decide di abolire nelle scuole il tedesco, lei diventa una “piccola maestra clandestina” che fa scuola nelle stalle e nei campi per mantenere lingua e identità. Col marito, nonostante il dolore per la perdita della bambina, sarà in prima fila per protestare contro la costruzione della diga, prima coi fascisti, poi con la Repubblica Italiana.

E’ una storia che si proietta sull’oggi in modo limpido: non si può non pensare da un lato a tutta la complessa vicenda della Ricostruzione del dopo- terremoto dall’Abbruzzo all’Umbria alle Marche. E in particolare il pensiero di Curon si proietta su quello di Castelluccio di Norcia,  dove stanno per realizzare un complesso turistico che con la sua colata di cemento sfregia per sempre il paesaggio…

Così come,  leggendo la storia della costruzione come la racconta Balzano -  che usa dosi di fiction,  ma in una storia che è calco di  quella vera, della diga, dell’allagamento mortale di Curon  - si può pensare alla TAV che attraversa la Val Di Susa (  dove Marco Balzano, non è un caso, è stato chiamato a fare la prima presentazione)
Anche quella di Curon, di Resia e della Val Venosta è storia di una “grande opera”, che nel nome del progresso, nel nome delle necessità economiche, forse anche del miglioramento della vita delle persone – elettricità, treni oggettivamente lo soso stati per la società di massa del 900)  sono stati fatti dei sacrifici, paesaggistici e umani, cancellate vite, distrutti paesaggi…

Essere antimoderni non sarebbe corretto, chi ha abitato case dei nonni senza fogne ed elettricità, chi doveva camminare a piedi per arrivare in paese a trovarli, come chi vi scrive ora nato a metà degli anni 60,  sa che la modernità ha fatto molto bene alla vita delle persone.
Il progresso tuttavia, o quelle Grandi Imprese chiamate a interpretarlo, non è sempre lineare. La Olivetti non fu la Montecatini, impresa di stato che poi divenne Montedison, e nel 900 con le sorelle SEDA, ENI fu tra le grandi imprese che emergono sempre dalle acque torbide delle trame nere, emergono dalel carte delle indagini su stragi, catastrofi naturali, complotti, colpi di stato, impianti petrolchimici, ecc. Sono le imprese che non considerano comunità.

Per paradosso, tuttavia, il Progresso divora sé stesso, tanto che come oggi il TAV è ritenuto dai tecnici superato, così anche la centrale del lago che sommerse Curon oggi produce pochissima energia , ed è la stessa Trina a raccontarlo alla figlia perché “ costa molto meno comprarla dalle centrali francesi”.

Una lunga digressione, storica politica e ambientale, necessaria per capire meglio il contesto del romanzo, ma va detto che “Resto qui” è soprattutto il racconto di una storia intima e personale . Quello di Trina che resiste e al tempo stesso si adegua al progresso, di come la lingua e la scrittura siano armi di resilinenza, di come però  la Storia decide e completa o spezza le vie individuali, come per Trina e suo marito Erich, battagliero contadino che lotterà fino all’ultimo per opporsi alla cancellazione del paese e del paesaggio..
E forse il paesaggio, come la lingua – e la scrittura – è il protagonista immateriale del libro di Balzano.  Questa  diga che ha ferito, che ha creato un tragico muro tra il prima e il poi, muro e ferita nella terra, sommersa dall'acqua , è andata poi a ricreare un paesaggio che è diventato oggi - per paradosso – un’attrazione per turisti , e bello - turisti che non sanno, né la storia e forse nemmeno si accorgono della diga…invece è un “paesaggio secondo”, un paradiso artificiale 

…se non fosse per quel monumento funebre, quel memento mori che campeggia anche in copertina, il campanile  della vecchia Curon, unico edificio rimasto in piedi prima che l’area venisse allagata e sommersa dal lago fatto per la diga..Era questo il senso della storia, che non si può arrestare né far deviare di corso…col suo carico di ferite, violenza della storia lutti. Come quelli privati di Trina ed Erich, una famiglia che si divide, si lacera si perde, una terra che scompare anche se c’è. Una figlia, dissolta.

il romanzo di Marco Balzano come dicevamo, è in forma di lunga lettera che la madre scrive molti anni dopo alla figlia, raccontandole la storia in cui lei non c'è stata, raccontando di come al lutto bianco per la perdita della figlia si sommò  nella storia della sua famiglia un lutto bianco collettivo, la perdita progressiva della pace, del paesaggio e della stessa casa..
Trina mette su carta il sommerso della sua memoria,  tutto quello che è accaduto quasi per riempire un vuoto -  sicuramente un vuoto della figlia, per una  storia che lei non ha mai vissuto e  di cui non sa nulla. Come i turisti guardando il lago “come se sotto l’acqua on ci fossero le radici dei nostri larici, le fondamenta delle nostre case”. MA ciò che salda questo nuovo paesaggio alla coscienza di Trina e anche a quella della figlia è comportarsi “come se la storia non fosse esistita”.

La lettera è una resa dei conti che Trina fa con la propria memoria, con le colpe: il cuore anche tragico, ma  sommesso, sussurrato e discreto come i caratteri di questa gente tenace delle  Alpi, è un macigno sempre sospeso sulla testa dei protagonisti, che si sforzano e negano a sé stessi di pensare a quella bambina fuggita e per questo ripudiata – ma chissà se era vero..

Lo stile di Marco Balzano, come già ci aveva abituato nei libri precedenti,  è teso, ma fugge ogni facile commozione,  presta la sua scrittura limpida a questa donna dall’esistenza semplice, innamorata anche dell’Italiano, in cui confluiscono le tradizioni di chi racconto questioni private e grande storia: da Calvino del sentiero dei nidi di ragno ,  a Fenoglio, a Bianciardi  fino ad arrivare ad autori come Edoardo Nesi . Anche la scrittura è parte del castello narrativo, diventando l’attività preferita di Trina tra italiano e  tedesco, … E se da una lato narra le vicende di contadini che si oppongo alla Storia che li seppellirà, narra di sé e di suo marito, che psicologicamente si aggrappano forse a questa battaglia per non essere sommersi e cancellati, ma con un segreto contrario: perché loro stessi  portano una privata cancellazione  e sommersione, nell’oblio, quella della loro figlia. Questo contrasto tra il dolore privato e la battaglia pubblica dà verità a questo libro.

 L’acqua non deve sommergere il paese, i loro morti – e invece la loro figlia, dopo quella lettera maledetta, fu sommersa nella dimenticanza. Anche questa è una forma di violenza che si fa alla propria storia per andare avanti. Ma è quello che forse ha fatto la comunità della Val Venosta, e che somiglia al processo raccontato da Almudena Grandes per la storia del franchismo, dopo il ritorno alla democrazia del 1975 "dimenticare per andare avanti”  questo è il patto, usato proprio con questo slogan, per convivere tra ex franchisti e nuove generazioni…così la piccola comunità di Curon. Trina lo dice “dopo la guerra, insieme ai morti, bisogna seppellire tutto quello che si è visto e che si è fatto, scappare a gambe levate prima di diventare noi stessi macerie. Prima che gli spettri diventino l’ultima battaglia”. E questo romanzo ci consegna anche la sofferenza di un territorio di confine che contrariamente ad altri, non si arricchisce della molteplicità, ma viene schiacciato da un continuo reprimere o cancellare identità: prima austroungarici, poi italiani e senza lingua madre,  poi annessi al Reich, poi cancellati dal territorio e riannessi, vincitori ma vinti, alla Repubblica italiana. Erich muore anche di questo dolore perché “la vita, quando non la riconosci, ti stanca in fretta”.

Qualcosa di analogo lo racconta  W.G. Sebald in “Storia naturale della distruzione” – parlando di come in Germania la distruzione totale della guerra non fu tematizzata come tale, ma i qualche modo esibita e al tempo stesso rimossa, proprio come il campanile di Curon.  A Francoforte, racconta Sebald, si vendevano cartoline con due foto, una con la città rasa al suolo, l’altra per come appariva nel 1997 e e Sebald scrive  “”la distruzione totale non si presenta quindi come il terrificante esito di un processo di pervertimento collettivo, ma come il primo stadio di una ricostruzione pienamente riuscita”.
 L’amnesia collettiva che oggi permettere di vivere  del turismo e delle attività agricole in Val Venosta basa la sua ricchezza su quel seppellire la memoria, relegarla a segreto di famiglia – come il lungo racconto di Trina che ora Marco Balzano, da “straniero” è venuto a disseppellire, perché questo fanno gli scrittori. MA forse anche per i tirolesi e per il loro benessere, in particolare per questa valle, si può dire quel che Enzensberger(citato da Sebald)  scrisse dei tedeschi, i tedeschi ricchi e di nuovo potenti economicamente dopo la guerra: che è impossibile capire “la loro misteriosa energia, se rifiutiamo di ammettere che essi hanno sublimato il loro difetto facendone virtù. Il loro non voler prendere coscienza fu il presupposto del loro successo”. Quelle fondamenta sotto l’acqua sono la forza di chi riesce come Trina, come una ginestra che cresce sulla lava e fiorisce nonostante il vulcano , che riesce a guardare con coraggio a tutti i precipizi e le mancanze della propria storia.


Scrive Trina/Balzano "nessuno può capire cosa c'è sotto le cose" Non c'è tempo per fermarsi e dolersi di quello che è stato quando non c'eravamo. Andare avanti come diceva Ma', è l'unica direzione concessa. Altrimenti Dio ci avrebbe messo gli occhi di lato. Come i pesci"





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