domenica 30 settembre 2018

CORRADO BENIGNI "Tempo riflesso" (Interlinea)



Corrado Benigni a me pare un kafkiano che crede in Dio.
Il suo sguardo sul “nulla che frugherà nei tuoi giorni” rimanda alla tradizione di quel 900  dell’angoscia e dello smarrimento senza centro che è del secolo alle spalle,  ma ne indica con nettezza un secondo tempo, un tempo specchio, qui, nel nostro, che forse mai sarà secolo, con una seconda mente, come in una sorta di “bicameralità” dell’esistente.

E verso questo tempo più vero, c’è una fiducia nel poter cogliere una via metafisica,  che ricollega la poetica di Benigni invece ad un novecento alto e solenne. Il libro già dal titolo    (“ Tempo riflesso”, Interlinea edizioni, 2018) colloca il qui-e-ora come pelle di una dimensione sotterranea, dentro una definizione dell’architettura cosmica che grazie al dettato limpido, pulito, si profila con i contorni ben delineati e conseguentemente con un’assertiva certezza.

 Benigni prosegue in qualche modo il lavoro che aveva fatto con il primo libro (“Tribunale della mente”, 2012)  in cui tutta la costruzione simbolica era legata alla materia che il poeta maneggia quotidianamente, la legge, ed era un libro intessuto di lessico e sintassi giuridica che costruiva un tentativo di allegoria del processo di conoscenza dell'uomo nei confronti della realtà, della vita attraverso il gidizio dello strumento linguistico.
 Tutto è regolato attraverso il giudizio che noi possiamo dare delle cose, quindi il poeta partecipa – secondo la tradizione lirica -  con la sua ricerca verbale, di costruzione formale,  a questo processo estetico ma anche epistemologico.
Con questo nuovo libro c’è però un passo diverso, forse ulteriore, ma certo il giudizio kantiano è fuori da questo discorso, già dalla dichiarazione dell’ incipit: “Sospendete per un attimo il giudizio, leggete/ tra le righe di questo sonno”. Il poeta ci indica un diverso punto di visione (ed è un’attività extra-vigile, il sonno) dentro cui recuperare un testo e una diversa logica. Non è onirismo, né ci sono cedimenti a surrealismi, anzi per certi aspetti – lo vedremo poi – Benigni soffoca la figuralità, la autonomia del linguaggio e del significante, e pone solide basi del dettato dentro una versificazione che ha il suo piedistallo in un ragionare.

Vorrei soffermarmi su questo libro perché Benigni è uno dei più apprezzati poeti delle generazioni ultime e - come in altra poesia che si sta scrivendo ora, proprio quella presente in volumi di recente uscita di poeti giovani e più maturi - nei testi di Benigni ci sono versi dal forte connotato di riflessione, con un’accentuata densità del fraseggio meditativo, certo frutto di un pensiero e di una visione che penso di poter definire filosofica che, in questo “Tempo riflesso”, forse in certi momenti schiaccia la poesia sotto il concetto, a differenza del “Tribunale della mente” a mio avviso più equilibrato. Ma è interessante. Sono versi limpidi, precisi, fortemente assertivi in certi casi.

 Se da un lato la legge, come il linguaggio, il logos, è una struttura che mette ordine al mondo, il poeta in epoca moderna invece ha il compito di individuare i punti di rottura. Benigni lo fa ribaltando dall’oggi, una tradizione. Diciamolo in grana grossa, laddove per Montale oltre la rottura della maglia della rete, per indicare un’icona lirica classica, resta un’opacità, un indecidibile del senso, un vuoto, una non-certezza di possibilità altra, per Benigni questa possibilità esiste, è netta.
            Domani tutto sarà cancellato.
            Ma la strada è una lingua che ci vede
            E sotto la terra un bosco – immobile -aspetta di nascere.

Benigni appunta le sue riflessioni in versi su un segreto tenersi al di à delle apparenze riflesse in cui siamo immersi (“Tutto è legato a tutto, meccanismi di un’unica eternità.”) un tutto cosmico che andrebbe rivelato, indicando con nettezza una dimensione ulteriore . LA poesia di Benigni ha fede.  E’ questo che urge.
C'è fiducia che arrivino segnali, lingue, parole, simboli che possono aiutarci a comprendere questa ulteriorità:

         non smettere di essere fedele
         al disegno delle radici sull’asfalto,
         alla legge non scritta del ritorno.

Insomma dove Kafka pone il suo uomo di campagna davanti alla legge, una porta da cui tuttavia resterà escluso per sempre, consegnandoci con la sua parabola un’angoscia che si è sovrapposta nel ‘900 all’angoscia ulteriore della Storia, con il suo assurdo negativo quasi ne fosse una profezia, Benigni si dice certo che tra le “pieghe del nulla” ci sia un disegno di radici e di una redenzione.
Se dovessi collocare questa poetica, la metterei all’ombra di Mario Luzi o di Yves Bonnefoy.
Corrado Benigni fa decisamente quella che in altri tempi (quando si leggeva l’arte e la letteratura dentro un disegno progressivo idealista o marxista che fosse) si sarebbe chiamata una svolta reazionaria ma può essere anche letta come rivoluzionaria, al tempo stesso – perché esiste anche una possibilità di raggiungere quel compito di scartare dalla norma con una svolta decisa verso un ordine metafisico a cui nessuno più crede, diventando l’inaudito – e così riporta la poesia ad indicare una trama delle cose (“tutto si muove in un’unica sintassi”).
Certo se reazionario è tornare a un punto del pensiero indietro nella storia dal punto di vista cronologico, la rete di pensieri che Benigni tesse usa poi snodi simbolici, concettuali e lessicali che al passato si legano, di ascendenza simbolista - e sono le parti del libro che mi convincono meno - quando in “Tempo riflesso” indica l’esistenza di un “alfabeto perduto” qualcosa che sta “sotto lo spessore delle voci” dove c'è un senso cosmico e trascendente della realtà (più avanti Benigni scrive di una “trascendenza tangibile nell’infinita interiorità di un filo d’erba”) che rimanda all’idea storica post-Baudelairiana delle corrispondenze dei simboli.
 Questa fiducia in una lingua che si rivelerà dietro la nostra non è tuttavia altrettanto fiduciosa nei confronti dello strumento della parola poetica. Anche questo un classico, ma interessante se letto nel solco di una perdita di fiducia nella forma poetica, nel mirino per la sua artificialità.
La distanza da ogni idea alta di poesia è nel gesto linguistico, nella prosciugata figuralità di questo libro.  Benigni è poeta accorto e consapevole, si tratta immagino di una scelta, che ci dice molto di un tensione della poesia contemporanea al “dopo la poesia” “al “verso la prosa” o addirittura la “prosa in rosa” su cui meditare in altra sede più ampiamente ** . Benigni usa un verso libero, senza nessuna evidente predilezione metrica, senza nessuna orchestrazione sonora  del dettato  e dei significanti  (nei simbolisti invece la musica del verso era invece elemento di rivelazione essenziale) fino ad arrivare alla sezione “Dall’invisibile” fatta di brevi prose.  E’ più la fiducia nell’allegoria del tutto, che risponde a un libro della natura, che non la ricerca di uno stile e una voce. Col suo dettato chiaro e ragionato, Benigni scrive:

Tutto lascia una scia di scrittura.
Tutto si muove in un’unica sintassi. (…)
nessuna direzione è tracciata,
eppure qualcuno per noi
volta le pagine di un libro
dove ogni azione è segnata.
Ma a quale appello rispondono
Le cose che non riesco a nominare?
Nulla è promesso, nulla è sottratto
E la strada è muta.
Lo dicono queste pietre
Che abitano il presente prima di noi. 


C’è difficoltà di nominazione, ma esiste una “scrittura” altra, la sua scia sono le pietre, non il segno. Noi siamo dentro una tessitura trascendente di frammenti che “dicono di noi quello che ancora non sappiamo” p. 16) .
 È un’arcaicità dell’universo, delle galassie – o una geologia preistorica ( temi simili ma in modo assai diverso, non dentro questo quadro di riferimenti trascendenti, sono stati affrontati da un poeta   come Bruno Galluccio, che riconduce la sua ricerca ad una più raffinata e ponderata visione del cosmo che gli deriva dalle competenze di astrofisico, e Aliberti, con quel rimandare ad una preistoria precedente)

La foresta segreta che Benigni indica come esistente non traspare e non appartiene al linguaggio, tanto meno quello letterario, ma direttamente alle “pietre” (dunque il suo indicarlo in un libro letterario, di scrittura e di carta  è una didascalia, un riflesso di un altro vero libro della natura ).
Una poesia in cui torna prepotente quello che Gianluigi Simonetti nel suo “La letteratura circostante” analizzando le correnti della poesia italiana degli ultimi decenni ne individua una che definisce “il mito delle origini”:

L’inizio è di fronte a noi
Che a ritroso andiamo verso il tempo.
Siamo i passi di una distanza da ricolmare

E – a proposito della parola Benigni  aggiunge nella stessa poesia, in chiusura : “ Ora la parola ci legge e nella forma delle pietre/ è scritta l’evidenza, la fiamma dove tornare”). Noi “non possiamo parlare in nome della verità/ma possiamo dire il vero, custodire una voce”. Il fine ultimo è in questo incubare una dimensione intima e mistica, cuore segreto dietro le cose. Il tempo procede ma “come una lente rovesciata/ il passato ci mette a fuoco” . L’origine è sia spaziale che temporale. Ecco, se è scritta con evidenzia che non ammette appelli o ambivalenze, in tono apoftegmico, la nostra teleologia, o il destino, è altrettanto evidente che Benigni, scegliendo l’opzione di una scrittura asciutta e piana, e collocandola dentro questo universo concettuale, la riduce ad una condizione ancillare del vero, mentre a mio avviso il vero (sia esso fatto di tante verità, o anche di una lucida assenza di possibilità) è sempre nella scrittura, non nella voce (personalmente sono con Derrida, nel dubitare di  possibilità di far risuonare dentro di noi una phoné originaria) altrimenti la scrittura di ogni sua autonomia - e non è più ciò che distingue la poesia.  
Trovo simbolico a proposito di ancillarità, , che l’ultima sezione del libro sia un dialogo cieco con delle fotografie che nel libro non ci sono.  E una sezione interessante, ma anche qui l’essenziale della sua fenomenologia è comunque quella di un testo è al servizio di un oggetto, un testo celibe o un arto senza il suo corpo. Le Poesie  della sezione del libro “Apparenze” sono scritte in riferimento a fotografie di grandi artisti dell’immagine  – Giacomelli, Salgado - che tipograficamente non sono riprodotte (solo citate in nota). Questo ne fa didascalie cieche, mette la scrittura nell’ al-di-qua di un’invisibile che tuttavia esiste e mi sembra di poterle leggere come metafisiche.

Una scelta che non so classificare se di forza o di ammissione di debolezza del testo poetico, che dovrebbe essere immaginifico di suo, contenere le immagini, cosa Che Benigni non sceglie di fare, intanto a partire da quel basso tasso figurale che si diceva e poi - simbolicamente - alludendo a una vera immagine (e non a caso andava sotto questa definizione la disputa teologica sulla vera immagine di Cristo che ha impegnato i teologi medievali) . Benigni porta i testi verso una prosodia lineare, quasi con denotazione nominale, che però vorrebbe indicare un tempo pieno dietro il tempo riflesso. Un vero pronto a rivelarsi ma senza porre nel linguaggio, nella materia della lingua la forma di questa rivelazione.
 Siamo all’opposto del senso dentro una materia linguistica. Troppo è prepotente l’idea che il senso sia altrove. La scelta mette tuttavia - per altre ragioni certo, non per mancanza di una visione - anche Benigni nell’alveo dei poeti che cercano di recuperare la comunicabilità come elemento centrale in una sfida difficile e disperata nel panorama dell’intrattenimento *** contemporaneo. Ma qui la scelta è dentro un quadro di scelte modellate sulla weltanshaung del poeta.
Corrado Benigni in realtà si attesta, pur elaborando una visione complessa e meditata del destino che si oppone al tragico e al liquido, angosciante, scorrere  inafferrabile del magma del presente,  con linguaggio preciso:  ancora una volta, facile a dirsi,  come un avvocato, un uomo di legge che deve definire una sentenza. ****

Per Benigni esiste una “meridiana” (e una “trama delle parole” , p. 12) da seguire, una rivelazione che arriva dentro una “scintilla”, significativa la ripresa del termine della teologia aristotelica. Anche un materialista come Bejamin, vedeva nelle macerie del passato illuminazioni profane con tratti esoterici. Benigni è più dentro una collocazione latina e cattolica: vede una “ scintilla “ di un tempo parallelo o l’ombra di una  sorta di caverna platonica, dal cui fondo far attingere la coscienza, una diversa “perfezione”  che emerga dal caos che ci tocca vivere, dal “nulla” citato all’inizio.
 Il tempo è un procedere che tuttavia accumula distanza, l'inizio di questo tempo è - dice il poeta -  di fronte a noi, il compito è camminare, colmare la distanza, uscire dal linguaggio Il linguaggio sembra essere una valvola, una sistole/diastole tra il nulla e il qui;  la posizione etica e cosmica di Benigni, dicendosi certa dell’aldilà - o meglio di nu oltre l’apparente -   finisce per essere che è proprio la poesia. Dopo la lirica, per BEningni non è una lirica del dopo, ma è un oltre, in un certo senso. Scrivere  è solo una dimensione, invece “il movimento del tempo” “raccoglie tutto di me/ briciole, frammenti, tracce/ parole restate in voci altrui/vita che mi sopravvive” (p.26)  e così, l’invito è al silenzio e a ricongiungersi ad una “fiamma” che ha anche nel sostantivo un evidente ( e forse troppo ovvio) richiamo al divino,  perché - verso chiave -   “ in un atomo tutto è già scritto prima di noi “. Insomma, ci sta dicendo che dentro la materia è una forza divina qualcosa che sta  prima. Se Benigni è un Kafkiano che crede in Dio, possiamo anche dire che è un antibeckettiano che crede davvero e senza ironia in Godot (in una prosa su un frammento di Beckett scrive “viviamo per un mandato – sconosciuto, come le radici che ci nominano nel sonno”. Godot non arriva, ma ci dà un mandato?(p.40) .

 Tutta questa trama sotterranea di radici ci visita nella mente, noi inconsapevoli. Potrebbe essere dio, l’inconscio collettivo di Jung o un sapere mistico, orientale, non è dato sapere, non ci interessa qui affibbiare a Benigni un preciso credo, anzi è suo merito tenere viva la tensione del pensiero senza cedere del tutto ad una dottrina. Ci interessa la dinamica esplicitamente metafisica di Benigni. E se è vero che in un’altra breve prosa cita Houellebeq, altro reazionario-rivoluzionario antistoricista e le sue “particelle elementari”(p 41)  a sua volta desunte dalla fisica, ecco che questa cecità della conoscenza invece “rende tutto più visibile” per Benigni e quel “qualcosa” che pare esserci nelle particelle elementari della  polvere (è un immagine Lucreziana de “”La natura delle cose”) nascosto nell’invisibile, esiste. Anzi, con il  tono perentorio di un testo che da estetico si fa etico: “sta a noi, mappe nel vento che nessuna mano trattiene, trovare l’assetto”. Il compito è un dovere: trovare l’ordine delle cose e del tempo. ****



note


**  Questa decisione è davvero importante, e forse è la vera questione di cui discutere, al di là delle singole voi e singole poetiche. Ho l’impressione che la pluralità delle voci poetiche sia diventata tale e distintiva in singolarità, da rendere impossibile per molti poter condividere un proprio codice intimo. Difficile inoltre poterlo poi – da poeti – collocare in una dimensione di senso generale, in un sapere condiviso, con la possibilità e disponibilità di chi ci legge a penetrare la foresta dei simboli del singolo poeta (un solo esempio, immaginiamo il percorso di una poetessa come Amelia Rosselli oggi, il suo inciampare nella lingua che diventa tema del lapsus. Sarebbe difficile – a meno di appartenere ad una ristretta cerchia di amici sperimentatori –- vedi i Gamm -  poter avere attenzione, interpretazione, uditorio.
*** uso la parola che è stata usata con irrisolta ambiguità nel tradurre i libro di Balchot L’entretien infini, che si dovrebbe tradurre con quel termine desueto che è il “trattenimento” ovvero un consesso di una piccola comunità che discute e conversa, usa le parole per dialogare sul senso delle cose, e seguendo questa traccia anche la letteratura è “trattenimento” o intrattenimento, ma la parola è stata sottratta dall’entertainment anglosassone della società dello spettacolo.
**** E’ anche vero che la stessa fisica sperimentale  che  maneggia l'estremo e il tempo,  maneggia la realtà non visibile in quanto realtà che però interprete in un'altra maniera:  Carlo Rovelli nel “l'ordine del tempo”  spiega con parole chiare che è vero che c'è qualcosa da addirittura di ulteriore rispetto all’atomo, come scrive Benigni, (nel voler dire l’infinitesimale della realtà, usa un elemento vecchio ormai, di un secolo, a cui un poeta non aggiornato si ferma, rivelando il limite di cultura scientifica della nostra cultura umanistica) a dice Rovelli
**** Da questo punto di vista se Luzi è un ascissa della concezione metafisica del fare poesia, Valerio Magrelli è l’ordinata che nel panorama della poesia contemporanea che ha recuperato proprio il pensiero – anche se Magrelli è un poeta che vive e accetta il mondo, sta per partito preso con le cose  potremmo dirlo con parafrasi di Ponge. In ogni caso forse Benigni guarda al Magrelli di Ora serrata retinae, se questo “Tempo riflesso” va inteso come da incipit come un’analoga serrata degli occhi, dentro un sonno che vede oltre).

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