1 VITA E DESTINO
Più che servire al futuro, l’oroscopo disegna la
costellazione del nostro passato, solo dentro quella sedimentazione si astri
possiamo muoverci, forse con la possibilità di contraddire anche il cielo. Più
in generale, nel movimento in questo specchio del celeste che chiamiamo terra,
lungo le nostre vie, cerchiamo l’accordo con i canti sotterranei degli avi, quelli
a breve distanza o gli indistinti, con
le formiche verdi o con gli dei, o più semplicemente: gli accordi, per capire
dove andiamo, non possiamo prescindere dal punto d’origine, l’incipit da cui
proveniamo.
Forse è per questo che Claudia Durastanti (inseguito come "CD" ) ha organizzato il
suo nuovo romanzo “La straniera” (La nave di Teseo) – che in sostanza è il
racconto della sua vita, o quanto meno va a coincidere con essa, di quella dei
suoi genitori e velatamente anche di quella che è la sua direzione attuale –
nelle cinque sezioni canoniche dell’oroscopo da magazine, quello che più spesso
leggiamo e anche la protagonista e sua
madre, leggono, con aggiunta di tarocchi e altre divinazioni che la madre
praticava - Famiglia, Viaggi, Salute,
Lavoro & Denaro, Amore. (1)
E se il senso del destino del personaggio, come della
persona, si coglie in modo significativo nel riandare all’incipit delle sue
costellazioni, l’incipit della storia de “La straniera” (definiamolo romanzo ma anche “dispositivo di
narrazioni”) ci avverte già – quando lo
scoprirete vi lascio la sorpresa – che qui non c’è solo un’esperienza da
condividere, ma c’è una grande scrittrice che ci sta parlando con una
mediazione letteraria forte. Forte in un panorama in cui le mediazioni
letterarie sono deboli e poche. Per il resto ci sono romanzi che più spesso
intrattengono, ma non scavano.
Nelle cinque sezioni del libro si muovono i personaggi: ci
sono migrazioni andata e ritorno tra Stati uniti e Basilicata, di nonni,
genitori e la narratrice, figlia (nata a Brooklyn, negli 80’s, poi portata in Lucania e poi di nuovo viaggi e
vita, tra stati uniti e Londra). C’è la sordità dei genitori, una doppia
disabilità, uno scarto di forma, nel
ciclo biologico della generazione, ma che permette questa raffinata
esplorazione a più strati non solo di una storia privata, ma anche - attraverso
il disegno di più storie di famiglia - vengono esplorate reti sociali,
parentele, mondi, comunità (le coppie amorose, i disabili, i lucani, gli
migranti ecc.) tanto che la protagonista sceglierà di studiare antropologia quasi
come un riscatto dalla fuga (“cerca di sfuggire da sud e Magia” scrive ) –
scelta che diventa simbolica di un compimento d’emancipazione, la discendente
di paesani forse studiati da De Martino diventa a sua volta indagatrice. Così
come la migrazione non è solo quella di andata, ma è pure di ritorno, così come
il sud è altro dai luoghi comuni.
La saldatura tra una biografia che si offre eccezionalmente
anche ad indagare le ragioni di un espressione (scrivere, principalmente, ma in
generale: organizzare un linguaggio) partendo dalla disabilità biologica,
supera anche quello che potrebbe sembrare un raddoppio meta-referenziale (e
tuttavia ereditato da un secolo di letteratura e arte che continuamente lo
hanno fatto) per approdare un polittico che tuttavia è come un quadro
d’insieme.
Il punto di tenuta dell’insieme è appunto l’elemento forte
diegetico, la disabilità dei genitori e quel che ne consegue, anche in termini
di svolgimento della vita. Sordi alla
nascita, i genitori della Narratrice si trovano, fanno coppia, si sposano fanno
figli, poi nel tempo divorzieranno, ma reteranno sempre legati di un legame che
– come tutti i sentimenti dei due, proprio perché non esprimibili in parole che
non s’erano create spontaneamente nella loro cognizione psichica - non è detto si possano tradurre. E tuttavia la
loro vita racchiude in sé un enigma, che è: come mai queste die vita
disarticolate e in un certo senso centrifughe, sono poi, insieme, diventate
destino?. E la Narratrice è figlia di un
destino?
2 SE
FOSSE SOLO UN ROMANZO
Se fosse solo l’emozionante storia di una bambina che cresce, figlia di due genitori sordi, con già un carico di anarchia, vita selvaggia e nomade da canto loro, se fosse solo come questa esperienza della disabilità uditiva che diventa parte della educazione originale di una bambina che nasce a new York e poi cresce in un paesino della Basilicata, poi torna regolarmente a new York e infine diventa scrittrice e si stabilisce, anche per amore, a Londra, come capita a tanti trentenni expat della nostra epoca, bè sarebbe già un interessante romanzo.
Di certo li supererebbe, già per la forza della scrittura,
ma sarebbe collocato in quel bisogno di “intrattenimento epico” o “avventuroso”
o “strano” che è già il segno di una produzione media della narrativa
occidentale o occidentalizzata, e lo è anche del più diffuso deposito di storie
di cui fruiamo, le serie tv. Sarebbe un romanzo che passa la contropelo questa
biografia indisciplinata, ma alla fine segnata dalla povertà che non ti scrolli
da dentro, se non aderendo a tutto ciò che è broken. Sarebbe sempre quel che
anche è, un romanzo irriverente, con tratti comici, verso tutto quello che si colora di mitologia,
familiare prima e poi generale – la vita
americana, la migrazione, l’estraneazione doppia col ritorno nella Basilicata
prima della sua fase cool (la Basilicata non c’era mai nei telegiornali, a
differenza di ny) , il lavoro culturale . Anche dei genitori se ne fa un
ritratto scorticato: gli abbandoni, le liti,
la paura di un padre che ti rapisce bambina perché litiga con la madre,
le mille cose sbagliate che la fanno irritare, perfino il fatto che ormai
superata la mezza età, la madre ceda alle derive antilluministiche dell’italiana
dei complotti e del sovranismo. La Narratrice è figlia di un vita libera e laterale, ma dall’altra non si negano tutte le mancanze, di
questa vita, prime tra tutte quelle materiali. Se fosse tutto questo, sarebbe
uno di quei romanzi – citati nel libro – di epopea novecentesca rurale, una
saga famigliare, qui in versione contadino-metropolitana. O materiale di
storytelling forte in cui Durastanti è immersa,
con la sua attività giornalistica,
dedicata a cinema, musica rock e pop o serie tv, videogame ecc.
3 MA
NON E’ SOLO UN ROMANZO
In realtà l’oggetto della narrazione è a monte sia di ogni
esperienza di relazione, che della stessa attività scelta da Claudia D. (ma così intimamente legata alla sua storia,
biologicamente dire, scrivere) ed è quella che potremmo dire in sintesi la possibilità di capire, capirsi, esprimere
quel che si ha dentro, decifrare il “sentire” e elaborare le sollecitazioni del
mondo. Il doppio binario tra sordità e multilinguismo – inglese, inglese
broccolino, italiano, italiano scritto, dialetto lucano - sono il terreno in cui tutto ciò diventa un
mix riuscito tra narrazione, poesia e saggismo. E’ la lingua, alienata e
slittante tanto quanto le geografie e le appartenenze.
I genitori e i nonni si devono confrontare su due livelli, l’assenza di lingua per i sordi, “l’altra” lingua (l’inglese) negli Usa. La protagonista con l’italiano riapparso nel ritorno (e poi la lingua dei segni, il body talking con la madre che tuttavia rifiuta perché odia “si veda che lei non sente”)
I genitori e i nonni si devono confrontare su due livelli, l’assenza di lingua per i sordi, “l’altra” lingua (l’inglese) negli Usa. La protagonista con l’italiano riapparso nel ritorno (e poi la lingua dei segni, il body talking con la madre che tuttavia rifiuta perché odia “si veda che lei non sente”)
La protagonista eredita tutto questo, ed è la sua vita. Ma c’è
anche una formazione altra, per la Narratrice in questa storia, così
eterogenea,dai libri harmony, ai telefelimi anni 90, al post-punk, all’arte
sperimentale, alla filosofia, di tutto si appropria perché - come il
proletariato di contadini inurbati (chi scrive appartiene a quelli inurbati all’inzio
degli anni 60 e la Narratrice appartiene a generazioni successive e con un
percorso complesso) - non si possiede una lingua-madre. Per la Narratrice è
così anche alla lettera - in seconda istanza perché a partire dagli anni 60
sono stati i proletari - o i poveri o il popolo ogni epoca li chiama differentemente
- a non dire sé stessi in prima persona, perché non possedevano una voce e una
storia, se messa sul piano sociologico, sono stati sempre nobili o borghesi da
Dante e Boccaccio in poi a raccontarli.
IN “LA straniera” è come se le due cose si saldino: una Storia collettiva in una biografia singola, col risultato che ne può essere vivente e scritta allegoria.
Il romanzo parla della lingua, ma parla anche la lingua di una voce presa, creata da sé,una endogenesi della voce e dunque dell’identità.
IN “LA straniera” è come se le due cose si saldino: una Storia collettiva in una biografia singola, col risultato che ne può essere vivente e scritta allegoria.
Il romanzo parla della lingua, ma parla anche la lingua di una voce presa, creata da sé,una endogenesi della voce e dunque dell’identità.
C’è materia per l’analisi psicologica di sé e materia
ulteriore se anche per un romanzo, che è
anche una moltitudine di possibilità (a differenza della psicoanalisi specie anglosassone
così improntata sull’efficientismo del rimetterti in una sola direzione). Il
sottofondo è che ci sia poi un lessico, un codice privato empatico, in questo
comunicare di cui racconta la Narratrice con al centro i genitori, la madre
soprattutto, ma che per il resto del
tempo tutto è sfasato, come nei sottotitoli dei film quando leggiamo
definizioni del rumore del mondo
espressi in una parola (che so: fruscio) ma quasi mai ci sembra coincida. E’ così per i
genitori, che non si sono mai amati perché non conoscevano al parola “amore”,
così come del resto l’amore misura l’imperfezione della lingua anche per
chi la possiede («ci si lascia quando si smette di parlare, ci
si lascia dicendo troppo spesso la stessa cosa»).
E’ la lingua, la necessità di esprimersi al di là di essa,
il fatto di provare a farlo in quel dialogo muto con i segni senza fare gesti
che nel destino della Narratrice che diventa autrice di libri, fa si che la
stessa attività muta sia la lettura
di un libro e poi la sua scrittura.
Questo non è solo un romanzo, perché è un ‘opera di scrittura. Il romanzo è una forma che non solo racconta di una relazione, ma – in quanto atto che permette di comunicare tra sordi – contiene la “scrittura” non solo come etichetta da scuola o filosofi francesi, ma è uno strumento necessario e vitale implicito nella storia. Durastanti studia antropologia, letteratura, filosofia, arte, ma quando incappa in tutte le elucubrazioni alla Derrida sulla phoné per le è questione di vita e sangue. Quindi Durastanti fa qui un’altra cosa, prende di petto non solo la sua storia privata, ma l’eredità di un secolo.
Questo non è solo un romanzo, perché è un ‘opera di scrittura. Il romanzo è una forma che non solo racconta di una relazione, ma – in quanto atto che permette di comunicare tra sordi – contiene la “scrittura” non solo come etichetta da scuola o filosofi francesi, ma è uno strumento necessario e vitale implicito nella storia. Durastanti studia antropologia, letteratura, filosofia, arte, ma quando incappa in tutte le elucubrazioni alla Derrida sulla phoné per le è questione di vita e sangue. Quindi Durastanti fa qui un’altra cosa, prende di petto non solo la sua storia privata, ma l’eredità di un secolo.
4 NEL
SECOLO, STRANIERI
Il secolo è il XX, quello della filosofia, della
letteratura, dell’antropologia, della psicologia e della linguistica.
Straniamento, unumllich, estraniazione, straniero. Quello di Camus.
Quello evocato dal suo titolo: la straniera. Prima che per la dinamica migratoria di cui è erede (i suoi avi della Basilicata e poi i suoi genitori emigrati in America, poi lei trasformata in expat di “italiana a Londra” nel tempo delle migrazioni mondiali) “la straniera” è all’altezza di misurarsi col fantasma delle questione ereditate dal secolo che ha avuto nello scrittore franco-algerino un perno fondamentale..
Quello evocato dal suo titolo: la straniera. Prima che per la dinamica migratoria di cui è erede (i suoi avi della Basilicata e poi i suoi genitori emigrati in America, poi lei trasformata in expat di “italiana a Londra” nel tempo delle migrazioni mondiali) “la straniera” è all’altezza di misurarsi col fantasma delle questione ereditate dal secolo che ha avuto nello scrittore franco-algerino un perno fondamentale..
Lo racconta l’autrice, meta letterariamente (perché è il suo
titolo scelto per questo libro) :
Quando Camus uscii col suo “L’etranger”
nei paesi anglosassoni era da poco stato pubblicato nel 1944 il libro “The
stranger” di un’immigrata polacca, Maria Kuncewiczowa e pubblicato anche in
Italia col titolo “La straniera ”nel 1940.
Nei paesi anglosassoni il libro di Camus fu tradotto “The Outsider”. E poi Claudia D. scrive “La sua storia [di Kuncewiczowa ] è molto diversa da quella di Meursault [il protagonista di Camus] Ma entrambi vivono una condizione di rifiuto che li rende invincibili e non soffrono di solitudine. Lo straniero di Camus aveva un intero movimento filosofico alle sue spalle”.
Ecco, Claudia Durastanti affronta questa consapevolezza – questo è un romanzo-saggio, un romanzo denso di riflessione, per certi aspetti come lo era appunto Lo Straniero ---: è esistita la possibilità di far muovere nel mondo un personaggio che si stagliava dentro costellazioni di pensiero comune – e tra queste anche il pensiero di cosa fosse lo strumento della lingua del linguaggio letterario. Oggi la expat Claudia Durastanti, come i milioni di expat italiani nel mondo racconta sua condizione non come “esilio” ma “’assenza di una causa comune” e ogni singola storia sarebbe solo il racconto di “cosmopolitismo del privilegio” che non diventa mai “naufragio.” Tante vite, ma nessuna esistenza comune. Se Camus era il naufragio dell’umanesimo, oggi la parola è cancellata dal vocabolario. O muta. Ed è forse per questo che - contrariamente a questi presupposti, la NArratrice adotta il suo stile legato all'esperienza della sua lingua, ma non fa una scelta più radicale, stilisticamente, che fu propria di tutto il secolo delle avanguardie, come ci si potrebbe aspettare (io stesso mi sono formato su Beckett e Zanzotto, ma non c'è più bisogno di quella radicalità che tuttavia c'è dentro questo libro, non ri-amnierata nelle pos stilistiche comefanno troppo spesso i lor epigoni. Semmai mi sento di dire che è più vicina all'altra radicalità del 900, ad esempio la sintassi di Milo De Angelis, anche se per tutto altro percorso)
Nei paesi anglosassoni il libro di Camus fu tradotto “The Outsider”. E poi Claudia D. scrive “La sua storia [di Kuncewiczowa ] è molto diversa da quella di Meursault [il protagonista di Camus] Ma entrambi vivono una condizione di rifiuto che li rende invincibili e non soffrono di solitudine. Lo straniero di Camus aveva un intero movimento filosofico alle sue spalle”.
Ecco, Claudia Durastanti affronta questa consapevolezza – questo è un romanzo-saggio, un romanzo denso di riflessione, per certi aspetti come lo era appunto Lo Straniero ---: è esistita la possibilità di far muovere nel mondo un personaggio che si stagliava dentro costellazioni di pensiero comune – e tra queste anche il pensiero di cosa fosse lo strumento della lingua del linguaggio letterario. Oggi la expat Claudia Durastanti, come i milioni di expat italiani nel mondo racconta sua condizione non come “esilio” ma “’assenza di una causa comune” e ogni singola storia sarebbe solo il racconto di “cosmopolitismo del privilegio” che non diventa mai “naufragio.” Tante vite, ma nessuna esistenza comune. Se Camus era il naufragio dell’umanesimo, oggi la parola è cancellata dal vocabolario. O muta. Ed è forse per questo che - contrariamente a questi presupposti, la NArratrice adotta il suo stile legato all'esperienza della sua lingua, ma non fa una scelta più radicale, stilisticamente, che fu propria di tutto il secolo delle avanguardie, come ci si potrebbe aspettare (io stesso mi sono formato su Beckett e Zanzotto, ma non c'è più bisogno di quella radicalità che tuttavia c'è dentro questo libro, non ri-amnierata nelle pos stilistiche comefanno troppo spesso i lor epigoni. Semmai mi sento di dire che è più vicina all'altra radicalità del 900, ad esempio la sintassi di Milo De Angelis, anche se per tutto altro percorso)
Ed è qui che si salda l’esperienza narrata da CD,
nell’assenza di una causa comune ma soprattutto di un linguaggio ostinatamente esistenziale
e letterario che riesuma quel punto, nell’idea che affrontare la propria esperienza
dovrebbe riportarci a mettere in discussione le parole e le cose, le
radici del nostro stesso “dire” il mondo, il modo in cui lo leggiamo, in cui
pensiamo di poter dire “io sono” e “questo è il mondo, la vita, l’esperienza
umana ecc.” cercando non solo di trovare un pensiero, se non un movimento
filosofico che ci sostiene, ma pure – come avevano fatto scrittori come Camus –
trasformando lo stesso linguaggio letterario a partire da una radice interiore.
E’ ancora possibile?
Ed è qui che a storia strana e bella di una singola vita,
nel caso, quella dell’autrice, Claudia si trasforma in un confronto proprio con
quell’eredità di messa in discussione dei
nostri stessi fondamenti del dire, nei passaggi che furono segnati da Saussure
e Freud, Levi Strauss per poi approdare ai filosofi francesi, fino al Foucault
della storia della follia e de Le Parole e le cose, insomma il 900. Ma lo fa –
seppure il sottotesto di riferimenti sia visibile, anche nel racconto degli
anni di studio universitario di antropologia – a partire dalla propria
esperienza personale che offre Claudia uno strepitoso percorso sintetizzato
così: essere figlia di sordi, che non hanno mai voluto imparare la lingua dei
segni con le mani e diventare scrittrice, per provare a “dire” appunto questa
esperienza, misurandola con la radice di chi non ha evidentemente il nostro
stesso parametro, perché non ha formato il linguaggio e la sua interiorità a partire
dall’apprendimento di una lingua madre fonetica. E oggi, alla figlia, diventata
scrittrice, raccontare dei sentimenti provati dai genitori sordi, prima della
sua nascita e fino a oggi nell’interazione con lei e suo fratello, significa
per una scrittrice prendere di petto, seppur da sola, tutta l’eredità della riflessione
sulla realtà, sul linguaggio di un secolo e usarlo per la sua bruciante esperienza
personale.
Sta in questo la condizione di straniera che racconta, oltre
che il dettaglio dico s’ tanti codici praticati e nessuno perfetto, come le
traduzioni che la riflettono ( “nessun significato assume forma stabile in me –
scrive D parlando del suo tradurre, sempre tradente – e tutto quello che penso, quello che poi dico, soffre nella
trasmigrazione tra paesi diversi” ) L’identità è strutturata come un linguaggio,
ma quando questo linguaggio non ha più origine, l’identità si compone anche dei
silenzi, degli errori, dei disguidi di senso.
Claudia Durastanti ci riesce benissimo il romanzo lascia
moltissime risonanze, senza perdere la tenerezza, per dirla facile, senza
perdere la tensione narrativa, il
groviglio di sentimenti, lo sviluppo diegetico. Smonta la sua storia, l’epopea,
da dentro la sua privata autobiologia
( rubo il titolo di Giovanni Giudici, non so perché ci sta) e cercando valore comune, mette di fronte il fatto
che la domanda sul nostro destino deve essere sempre alta e non può ridursi a
una meditazione privata.
Dopo un grande dolore, / viene un sentimento formale” sono
versi della Dickinson in esergo al libro. Attraverso la sua storia, Claudia Durastanti
approda a un sentimento della forma.
E una mitologia da costruire da zero, anche usando le stesse
parole: “straniero è una parola bellissima, se nessuno ti costringe a esserlo;
il resto dl tempo è solo il sinonimo di una mutilazione”. Segnati da questa
mancanza materiale, La patria di CD va cercata oltre la sua lingua privata o le
lingue non-madri in cui si è formata –
l’inglese in cui è nata, ma compreso quello deformato di Bruklì, l’italiano in
cui è approdata tornando ragazzina in Basilicata – compreso il dialetto – la
lingua dei romanzi attinti dal deposito materno (questa si lingua madre, nella condivisione
della dimensione comunicativa profonda in cui erano immersi, ovvero il
silenzio. )
Da Nietzsche a Derrida, passando per Foucault o Lacan la
dialettica era sempre tra segno e un originario “dire” che tuttavia non c’è.
Che manca. Ecco, la storia romanzesca dell’io narrante, coincidente con
“Claudia Durastanti” persona, immerge esattamente in questa dimensione, oltre
la teoria filosofica. Il segno tracciato dalla scrittura di Durastanti per
ridire cosa esattamente è stata la storia d’amore e dolore della sua vita, è di
altissima riuscita stilistica, ma sedimenta nell’io narrante e poi i noi una
nostalgia dell’impossibile perché, per quanto possa la figlia dire nel profondo
sua madre, il suo dire è quello della figlia, senza che ala madre sia mai
possibile averlo da sempre posseduto in quella forma di linguaggio che si
apprende biologicamente nel momento in cui si è immersi nell’esperienza di un
alterità che “ti parla” e tu la ascolti”. La madre che si relaziona con la sua famiglia in
una babele di segni, dialetti, italenglish,
in cui alla fine il linguaggio “in un nucleo familiare in cui tutti parlano in
maniera diversa comunque?”
Durastanti li evoca qua e là, i filosofi e i linguisti , gli
antropologi che si scontrano da anni su questo punto: esiste un linguaggio
naturale, una capacità universale dell’uomo di sviluppare il linguaggio a
partire da una grammatica interiore che lo genera per strutture innate? O noi
invece apprendiamo sempre un linguaggio come fosse un linguaggio dei segni solo
in un secondo memento? E quando posso essere sicuro che quel che sto dicendo con
la parola “amore” è effettivamente il medesimo sentire che prova l’altro da me?
E se poi l’altro, quel tu, come i genitori sordi, non hanno avuto neppure
l’illusione di un apprendimento dell’amore in coincidenza con l’introiezione
spontanea della lingua in cui la parola “amore” come possiamo dire cosa
proviamo con sicurezza? E in più, a causa della disabilità, che cosa posso dire
io come scrittore della loro interiorità? Sarà vero quel che dico? E anche a
partire da ciò, la storia che sto raccontando, sarà vera?
“il linguaggio è una tecnologia che rivela il mondo ma poi
finisce sempre per essere una dialettica tra codici diversi in cui la cosa che
passa è l’intraducibile. Noi “rappresentiamo il silenzio, il nostro silenzio,
scrivendo [silenzio]” in altri il silenzio è una condizione all’origine, poi il
linguaggio usato che chi è disabile nella sordità, sarà paradossalmente scevro
da ogni metafora, sarà bidimensionale. Alla fine possiamo scrivere “silenzio”
ma il silenzio di un sordo resta irriducibile intraducibile e soprattutto non
esprimibile, ad ogni linguaggio, specie in scrittura, nel suo doppio legame con
la phonè.. I che per un romanziere,
specie se figlio di sordi e volendo raccontare la loro storia, diventa una
sorta di messaggio dell’imperatore kafkiano.
Però in qualche modo
il capirsi accade – esattamente come
faceva la madre con il padre, la loro sostanza profonda di un’interazione che
resta enigmatica –(“io non so che sostanza ci sia nei miei genitori: so che io
non ce l’ho. Ogni vantaggio l’ho conquistato e perso con il linguaggio” .
Cosa è stato? forse un ‘empatia, forse biologia? Cosa li connetteva?
Scrive CD: “le parole
sono fiammelle che accostiamo all’indicibile per farlo apparire, come se la
realtà fosse scritta in inchiostro simpatico e quando non ci sono le parole ci
sono i gesti a rendere possibile questa traduzione. Forse è per questo che ho
voluto impararle: al silenzio e all’ombra bianca che avanza io ho opposto
pagine scritte e i miei genitori una corda vocale stanca. A volte ci siamo
fatti malissimo, ma lo sforzo è stato capirsi”.
Con mezzi differenti, è lo spazio comune che li contiene, è il volto dell’altro sempre di fronte che fonda il linguaggio, Levinas, non Derrida, se lo dovessimo dire in paragoni filosofici. Del resto la letteratura è prevedibile se rapportata al reale della disabilità: “di solito i disabili sono protagonisti dei romanzi gotic, horror o dei vangeli. Nei romanzi un disabile non può avere una vita a Franz Kafka o da Emily Dickinson”
Con mezzi differenti, è lo spazio comune che li contiene, è il volto dell’altro sempre di fronte che fonda il linguaggio, Levinas, non Derrida, se lo dovessimo dire in paragoni filosofici. Del resto la letteratura è prevedibile se rapportata al reale della disabilità: “di solito i disabili sono protagonisti dei romanzi gotic, horror o dei vangeli. Nei romanzi un disabile non può avere una vita a Franz Kafka o da Emily Dickinson”
5 HOMELAND
IS NEVERLAND
La disabilità alla fine è un’identità, non solo una
mancanza. Così come la mutilazione è un linguaggio. Diventano una precisa
identità, come del resto la disabilità, nell’essere un universo psichico chiuso
in sé, vive di un suo idioma, in questo caso tecnicamente per comunicare, a più
in generale ci sono una sfera di valori, usi, modi di intendere la vita, oltre
che significati, che ci fanno dire ci sia un “codice” o un idioma. Può accadere
con le comunità legate a una disabilità come anche quelle legate a un gender.
Questo perché hanno un di verso “sentire” e la partita si gioca proprio su
quell’ambivalenza che l’italiano contiene nel verbo “sentire” – avere l’udito e
provare un sentimento. Non è un caso che – come sottolinea CD – in inglese hear
e feel siano parole distinte per due realtà distinte. Ma il superamento di ogni
limite, disabilità e relatività del linguaggio, porta paradossalmente a poter
accettare un’utopia in cui “saremmo tutti imperfetti e orientati al benessere
comune”.
Del resto anche l’amore
- e questo percorso nato da un amore che non conosceva la parola “amore”
di due genitori sordi, approda a una storia d’amore della protagonista a cui
quella parola, conosciuta, non serve più perché andrebbe riscritta – vive di
un’utopia non condivisibile, quel comunismo
di una comunità inconfessabile (come la chiamò Blanchot e noi per
estensione vorremmo dire: comunità non comprensibile e al tempo stesso sorda
all’esterno) che è l’amore, appunto, lo spazio universo tra-due. Solo quei due
si riconoscono, ma non hanno la parola per dirlo esattamente, se le parole sono
quelle degli altri. Essi si riconoscono nell’essere sempre fuori dalla
possibilità che l’amore che essi vivono sia corrispondente alla parola amore
che tutti usano. Nell’arrivare dopo ogni idea di amore, la protagonista si
ritrova come i genitori, che – in quanto disabili al linguaggio appreso
naturalmente – hanno sempre vissuto in modo anomalo tutti i significati legati
alle singole parole.
E in questo amore espatriato, monade fuori dalla lingua
della propria società, della
protagonista col suo compagno a Londra, una Londra straniante e che a sua volta
sta uscendo con la brexit da un altro spazio comune, l’Europa, continua a produrre tutti gli slittamenti di non-appartenenza che non permettono di attribuire
con certezza ad un’esperienza un nome, un etichetta, un senso. Condannati ad
essere continuamente outsider, è proprio a questo che approda tutta l’epopea
familiare. E’ tuttavia lo spazio della relazione la personal heimat che dura
dentro un continuo slittamento delle geografie e degli astri, l’aleatorietà del
destino che come i tarocchi spostando una carta, una sillaba, inverte il senso,
come un witz del destino, si muta in energia di sincronia, nel momento tutti questi
errori sono in ogni caso tentativo e desiderio di capirsi, un’infinita
conversazione, pur istituita da un codice privato altrettanto singolare di
quello utilizzato nell’amarsi. Ed è qui che si produce la poesia, perché questo
romanzo parla la lingua segreta della poesia, quella che sta sotto il codice
linguistico specifico, nazionale adottato dai vari poeti.
Tanto singolare è l’amore da essere paradossalmente un
dialogo tra sordi che - in barba al detto popolare, , e questa storia lo
dimostra – esiste : un dialogo tra due solitudini irriducibili che tuttavia non
rinunciano a provare a rompere quel limite.
Questa sentimento dell’estraneità prolifica e generativa di
comunanza, è quel che ci resta, quando il romanzo finisce, perché sappiano che
non è solo un romanzo, ma un’irradiazione, un dispositivo di molte narrazioni,
alcune privatissime, altre no. Nello spazio tra due singolarità che mai si
fonderanno una nell’altra, si colloca quell’homeland, che è un posto dove
abitano tutti gli stranieri che vogliono rimanere tali. Homeland è neverland.
1) Come romanzo, collocato nell’alveo
dell’autobiografia (non della autofiction, spesso categoria applicata in modo
troppo allargato) “La straniera” è un romanzo contemporaneo, ma mi appare uno
dei tentativi riusciti e più seri di
riportarci a quel che il romanzo moderno deve fare, almeno quel romanzo moderno
in cui molti si sono formati: capace di darci un’idea della forma del mondo a
seconda di come l’eroe (usiamo questo termine da narratologia) che affronta il medesimo mondo, dispieghi il
suo epos, ma soprattutto a seconda di come sia dispiegata la FORMA – scrittura
e struttura - in cui è organizzata la
narrazione. Lungi dal voler esaltare il romanzo che racconta dello scrittore
che scrive, ma nemmeno facendo banali apologie dell’intrattenimento, qualche
conta a mio avviso è dire il senso di un destino (sempre i personaggi muovono
verso un destino anche quando sono immobili).
Sono stato sposato per 7 anni. Il mio matrimonio si è deteriorato per un po 'di tempo, quindi era destinato a sciogliersi. Ero la sua moglie leale, fedele, solidale e fiduciosa. Aveva un altro lato selvaggio che è andato fuori controllo. L'ultimo incidente è stato quando ho scoperto che aveva una relazione 2 settimane prima del nostro 14 ° anniversario di matrimonio. Di punto in bianco mio marito ha appena lanciato il discorso sul divorzio su di me. Ero così ferita ed essendo una donna indipendente, pensavo di poter sopportare l'essere single. Era così difficile andare avanti, quindi ho dovuto chiedere aiuto. Il nostro terapista matrimoniale pensava che "qualcosa" non andasse bene in mio marito. Sono andato online e ho scoperto il dottor Adeleke e le sue buone recensioni sul lavoro di incantesimo. L'ho contattato per un lavoro di incantesimo d'amore e ho fatto tutto ciò che il dottor Adeleke mi ha ordinato di fare, 2 giorni dopo la mattina intorno alle 09:34, sono rimasto totalmente scioccato da come mio marito mi ha chiamato dicendomi quanto gli mancavo. Il suo incantesimo ha funzionato su di me così velocemente e mio marito è stato così amorevole, naturale e sto avendo un matrimonio felice dopo aver usato il suo incantesimo d'amore. Se sei in un matrimonio senza amore e infelice che non può essere salvato, credimi ... C'è luce alla fine di questo tunnel. La dottoressa Adeleke può anche lanciare incantesimi di morte, risolvere casi giudiziari, riportare indietro la tua partner omosessuale e riportare indietro la tua partner lesbica. Puoi raggiungerlo sul suo Tel / Whatsapp +27740386124
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