Qualche giorno fa non ho dormito. Mi è tornato in mente Beppe Salvia.
Era morto da poco un altro giovane
poeta, Gabriele Galloni. Della sua morte si è parlato in questi giorni, suicida
o no, conta poco, la scomparsa di una vita giovane lascia sempre un senso di
amarezza e ingiustizia. Che fosse un suo dolore o una protesta, anche questo
conta poco.
Ma mi è tornato in mente quel 6 aprile del 1985. Beppe Salvia per quelli che amano e fanno
poesia, specie se all’epoca viventi a Roma, è stato un evento che ha messo un
segno minimo, ma per me grande, sulla stagione letteraria italiana. Un poeta
che ha bruciato per una stagione breve, accolto con sorpresa ed entusiasmo dalle
prove su rivista – non arrivò mai a pubblicare un libro in vita, ma la sua vita
rimase a risplendere, luce coatta della stella congelata nella sua morte.
La poesia aveva ereditato stagioni importanti, ma anche un
senso di finitudine, in quei primi anni Ottanta. Salvia non aveva pubblicato
nessun libro, a 30 anni – per quanto possa sembrare strano i giovani di quell'epoca
furono molto rallentati, frenati, invitati a restare adolescenti da un piacere
della vita che era seguito ai decenni di conflitti. Consumare, for ever young. Al
resto pensavano i più grandi, i nati nel dopoguerra che non avrebbero mai
mollato i loro culi dalla cadrega ancora per anni a venire.
Da qualche anno l’industria culturale dell’editoria era
cambiata, punto di svolta “il nome della Rosa “di Eco. Dietro il suo milione e
passa di lettori, anche più negli anni a seguire, emergeva un nuovo pubblico,
frutto dell’istruzione di massa iniziata nei primi anni 60. Quei bambini del
boom avevano preso un diploma quasi tutti e una fetta era anche andata
all’università, ce n’erano tanti che da figli di proletari che erano (c’ero
anche io, qualche anno dopo, entrato a Lettere nel 1983) studiavano, che a
studiare erano i primi della razza loro, come cantava Guccini.
Io di anni ne avevo
21. Ma adesso realizzo che era già pesante quell’età, sentivo non d’aver
vissuto, ma che il vissuto fosse stato il vulcano dell’epoca precedente
esploso, ma noi eravamo sepolti dalla cenere.
La condizione del fuori-corso dall’università era diventata
categoria spirituale di una generazione. Poi l’avremmo chiamata post-moderno.
Era condita da molta nostalgia, non del nostro vissuto, ma di ciò che avremmo
potuto essere e di ciò che intuivamo non saremmo mai potuti diventare.
Salvia era nato a Taranto nel 1954, studiò a Roma dove aveva frequentato la scena letteraria della capitale, allacciato rapporti con il gruppo “Braci” un importante gruppo letterario romano, raggruppato attorno alla rivista che portava quel nome, fondata da Claudio Damiani di cui facciamo parte Arnaldo Colasanti Marco Lodoli Giuseppe Salvatori Gino Scartaghiande e a cui ruotavano tutta una serie di altri giovani poeti aspiranti poeti. anche io, con qualche amico, cercavo di stare ai margini delle loro serate, neostudente, silenzioso e muto come alle feste delle medie, in cui fai carta da parati. Avevo iniziato a Scrivere con maggior cognizione consapevolezza tra la maturità e l’inzio scintillante dei corsi universitari, grazie al caso: fui assegnato a una giovane docente, associata, Biancamaria Frabotta. Fu una stagione indimenticabile. Maestria e illuminazione, insegnamento che filtrava nelle fibre del vissuto. Racconto di stagioni del 900 e insegnamento di cosa la poesia fosse dal testo. Il Testo su tutto – e tutto, il resto, intorno. Non solo, ci guidava fuori dai suoi doveri di docente, i pomeriggi e serate ad alcune letture di poesia.
Una volta seguimmo anche le letture del festival di poesia a Villa Borghese, era il 1984.
Salvia era tra i partecipanti, ma non salì sul palco. Voleva far rumore con la sua assenza, lasciando vuota “la scena” riconsegnandoci al vuoto e a una meditazione solitaria, intrapsichica. Era il 1984 non a caso. Era iniziata da tempo la società dello spettacolo, Salvia che era un poeta dallo stile cristallino, diretto, ci avvertiva del pericolo. partecipava allo spettacolo sottraendosi. Con la contraddizione dei poeti. Il palco era già crollato sotto il peso del “pubblico” che l’aveva occupato nel 1979 a Castelporziano. Forse era tempo di lasciarlo definitivamente. Infatti, i festival di poesia finirono, da lì a poco, Roma, Milano, ecc.
Al festival di Villa Borghese del 1984 ricordo anche Amelia
Rosselli. La sua bisaccia, la camicia
leggera, lo sguardo fisso, né cupo né
socievole. Fisso.
L’altra notte nel mio dormiveglia angosciato ho ricordato anche lei. Che si
suicidò anni dopo, nel 96, gettandosi anche lei da casa sua.
Amelia Rosselli l’avevo incrociata una sola volta di persona sarà stato il 1987
o 1988, insieme al mio amico Pietro Pedace che faceva una tesi di laurea sulla sua
poesia – la incontrammo dalle parti di via del Fico, lei voleva che lui le
riparasse la lavatrice, non si fidava a chiamare i tecnici potevano essere
della CIA. Pietro non sapeva come fare si offrì di salire, con me, ma lei non
si fidò neppure di me e se ne andò – Pietro era sollevato, dell’incombenza da
idraulico, io certo persi una grande occasione, anche se leggendo sia il libro di
Renzo Paris ("Miss Rosselli") sia quello di Emanuele Trevi "(Sogni e favole") penso non sarebbe stato facile parlare con lei. Chissà.
Intanto solo oggi mi accorgo
che Primo Levi si era ucciso non molto tempo prima, nel 1987, insomma pochi
mesi prima dell’incontro con la poetessa-libellula. Levi si era ucciso
lasciandosi dalla tromba delle scale – anche sulla sua morte c’è una qualche
incertezza, qualcuno dice non fu suicidio, ma chissà.
Di tutti questi voli, di tutte queste morti, credo che l’altra
notte sia tornato indietro come una risacca lenta di anni. Anche Pietro Pedace
morì, per una banale ma tragica complicazione operatoria, nel 1999. Il millennio
che fuggiva era finito in un precipizio. Le pagine del diario, ferme e
incollate.
Prima della morte, Beppe Salvia era vitale e in
fibrillazione. Voleva essere come tutti e nessuno, forse. Oscillava come in
quel gesto a Villa Borghese tra il teatro sempre aperto del quotidiano (Roma è
questo) e l’annullamento dell’anonimato nella metropoli. Un poeta è sempre – a Roma
– un ragazzo di vita. Uno che si crede chissà che e chissà chi.
Ai poeti di Roma, da Catullo a Valentino Zeichen e Patrizia
Cavalli importava una certa teatralità della vita del poeta stesso, più che la
poesia, che ne certificava il sentire. Unico a fare la differenza, Valerio Magrelli
a cui importava invece, come un filosofo tedesco, di più un certo teatro mentale della lingua e del senso e della realtà delle cose – era fenomenologia, per Magrelli , poeta che faceva parte per sé stesso e a questa sua singolarità resterà sempre
legato.
Essere poeta a Roma, un leggero fantasma di indolenza. Forse un po’ anche un atteggio. Come forse i poeti delle grandi metropoli, ma a Roma viene fatto in un modo tutto suo. Il poeta creava il personaggio di sé. Sempre attaccato alla vita come Romolo e Remo alle zinne della lupa.
Beppe Salvia pure era poeta romanissimo proprio perché come Catullo,
Zeichen o Cavalli NON era di Roma, e dunque oriundo come tutti - questo ammassarsi di corpi e deformazioni della lingua e insieme sentenze. non aveva pubblicato nessun libro, ma Salvia di personaggi
ne aveva creati, fin dall'inizio, su riviste. Le sue poesie erano note e acclamate, con lo pseudonimo alla
Pessoa: Elisa Sansovino. Silvia Isola. Con questi nomi aveva pubblicato, solo
su riviste, oltre che col suo nome.
Conservo ancora il libro che è uscito postumo, “Cuore” dell'editore Rotundo - e dentro
il libro conservo l'articolo di Paese Sera, di qualche giorno dopo il suicidio,
In cui c'erano tre articoli che ne parlavano: il più noto, quello di Marco Lodoli
(“Morte di un giovane poeta “).
Quella morte – e in qualche modo anche quell’articolo, quel tempo - fu uno spartiacque per me. E sigillò l’inizio di una storia di poesia personale, ma nel segno della morte. Del resto ero un ragazzino cresciuto col senso di piombo cupo, addosso, la lunga sequela di morti e feriti aveva scandito dall’asilo (il 1969 con Piazza fontana) a scuola, medie e liceo e poi l’Università: la morte mi inseguiva per la strada, e pochi giorni prima della morte di Salvia, il 27 marzo 1985 , mentre io sono a lezione a via de Lollis, poche centinaia di metri più davanti alla facoltà di Economia le Brigate Rosse uccidono Ezio Tarantelli. Ci ero nato e cresciuto col sangue dei morti ammazzati italiani, io come tutti. Di questa morte ora pago lo scotto. Con un senso della fine che - finendo la vita o finendo la poesia, è indifferente - mi risucchia nel mare aperto.
Tornando ai morti di quell' 85: quella di Tarantelli era l’ultima coda velenosa del drago di sangue. Gli anni 70
erano finiti, la società cambiava pelle, anche la poesia. C’erano grandi poeti,
ma – come diceva Magrelli – era la fine dei gruppi. Ora solo Poeti e poetiche e al massimo, individui.
Se nei primi anni Ottanta era ancora in corso quel weekend
postmoderno sottolineato da Tondelli, che era seguito agli anni 70 che eredita, con ancora moltissimi
stimoli e fibrillazioni che arrivavano specialmente nel mondo musicale dagli
Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, di fatto iniziava un'altra era.
Gli anni 80 veri e propri. Altri valori Certo il modo la guerra
fredda i trattati del nucleare, Reagan, Thatcher. E da noi? basti dire che
pochi giorni prima della Morte di Beppe Salvia (non che ci sia legame, ma
segretamente chissà) il Governo Craxi aveva fatto votare con la sua maggioranza
in Parlamento il decreto Berlusconi, il famigerato e cosiddetto “decreto
Berlusconi” che gli assegna a prezzi di favore le frequenze – un gesto che
segna i futuri trent'anni di storia italiana. E Fininvest era nata da poco.
Oggi si polemizza
molto, attorno allo scrivere della morte di Gabriele Galloni. Si è esagerato. Certo, Nel 1985 non c’erano
tutte queste esigenze di prudenza, ma magari parlare con spudoratezza della morte di un amico non era mancanza di rispetto ma un segno d'amore.
Marco Lodoli, che di anni ne aveva 29, e anche lui
all’attivo un solo libretto (Un uomo innocuo) iniziava l'articolo su Paese Sera che citavo prima (in foto) così:
“Beppe salvia è morto a Roma 30 anni gettandosi dalla
finestra di casa sua sabato 6 aprile a via del Fontanile Arenato. Ho sempre
avuto l'impressione che abitasse in quella via perché il nome gli piaceva. Un nome
liricamente simbolico”.
Ci sentimmo tutti fontanili arenati” e prosciugati. Altri
poeti stavano scrivendo di una desertificazione metafisica, Come Milo De Angelis, il tragico, il tremendo, invadeva anche l’asfalto e i campi di calcio di periferia, le stanze – e sì, quello era
diventato un tempo di stanze, non di piazze.
Stanze di poesia. Però la fine epoca si sentiva, c'era il
prosciugamento. Qualcuno ha scritto anni dopo (lo scrittore e poeta Daniele Mencarelli)
che già il gruppo dei Poeti di Braci: “aveva capito che la poesia non
interessava più a nessuno” in quei primi anni 80. È una sensazione ricorrente. nel 1985 quando muore Salvia, non erano passati molti anni, anzi solo 10,
dalla morte di Pier Paolo Pasolini e dal discorso memorabile di Alberto Moravia
in Campo dei Fiori quando dice “di poeti, di grandi poeti ne nasce solo uno per
ogni secolo”.
In realtà ne erano nati diversi, di grandi poeti, per esempio l’anno dopo, nel 1976 quello che
io considero davvero uno dei grandi del secolo XX, Milo De Angelis pubblico il
suo primo dirompente libro “Somiglianze”. Uno strappo, sia rispetto alla
poetica e lo stile piano e comunicativo della poesia romana, sia verso le
tessiture avanguardistiche del gruppo 63. Altri grandi poeti avevano scritto
prima di Pasolini e dopo. Le parole di
Moravia erano un po’ come un post su Facebook oggi, cose che si dicono sulla
scia d’emotività poco controllate.
Per Marco Lodoli – come altri hanno scritto a proposito di
Gabriele Galloni – anche Salvia, con qualche generosità, era descritto come “il più amato trai poeti della sua
generazione di chi ha “30 anni e scrive versi senza sapere bene perché”. Era
vero, certo erano bravi, vero per entrambi, per quel loro stile limpido, esatto, arioso, di luce orizzontale.
Io lo avevo letto, ma poco. E con Salvia ci ho parlato solo una sera. non posso dire nulla. Rileggo come ne parla Lodoli e ne parlano anche altri ( Ne ho scritto sul diario di quell’anno, il mio, ho un
ricordo vago, anche se ricordo vagamente un timbro del discorrere, malinconico o amaro, ma spesso i poeti hanno
il sangue amaro. magari sbaglio sono passati più di trent’anni. Erano chiacchiere
primaverili a Roma. Forse eravamo dalle parti del Rione Monti).
Il giorno in cui
seppi la morte di Salvia ci fu un terremoto interiore. Ero ai primi passi,
studente e aspirante, alle prime uscite dentro quel mondo della poesia e già il
sigillo di un suicidio. Che poi ha segnato a varie riprese la letteratura
italiana ma questo era al mio fianco, il resto lo avrei imparato con gli anni.
A 21 anni per me fu una spezzatura, una faglia o frattura. Ci costruisci sopra le case ma sai che resta sotto.
Ora torna indietro questo ricordo di Salvia, dopo la morte di Gabriele Galloni. Qualcuno ha scritto, con fare di iena
cattiva, che Gabriele Galloni si era suicidato contando le copie invendute del
suo libro. Non si può dire nulla in verità. Ma che serve dire questo? nulla.
Ai tempi Lodoli scrisse qualcosa di simile su Salvia, ma lo conosceva bene. Scrisse che “se avesse pubblicato un libro, chissà, avrebbe preso forma la sua vita. E forse avrebbe accettato più stabilmente di essere poeta ci si sarebbe riconosciuto “.
Lodoli Cita Umberto
Saba.: “Fu come un vano / sospiro/ il desiderio improvviso d’uscire / di me
stesso, di vivere la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di
tutti / i giorni “
Perché il poeta per definizione è sempre in una condizione
di separatezza, esclusione e insieme auto esclusione. Oggi invece coloro che
osano dirsi con sicumera “poeti” sui giornali rivendicano di essere guida e
consolazione dei lettori.
Oggi il modo è enormemente cambiato, ma pure ha dinamiche
simili, specie in quell’esercizio per una minoranza occidentale di benestanti
(tutti gli occidentali sono benestanti rispetto a gran parte del mondo anche i
poveracci) e che chiamiamo letteratura.
Ancora una volta come la poesia del gruppo Braci, contesta l’esistenza
di un mondo di poteri forti della poesia, gli “addetti ai lavori” un’élite che
occupa il territorio.
Oggi a dire il vero molto è cambiato e Beppe Salvia se da
un alto ha avuto ragione nel cercare il suo dettato semplice e puro - e fu
anticipatore – dall’altra io dubito che un poeta che non voleva salire sul
palco, oggi sarebbe salito su scranni di festival e tv, social e serate,
incontri e occasioni sociali. Però hanno successo (relativo ma pure successo) i
poeti che scrivono con le parole di tutti.
Arrivando anche a scrivere, Forse, tutto sommato delle didascalie di un
sentire Diffuso e rispecchiabile in tutti.
Anche la poesia di Gabriele Galloni poteva sembrare parte di questo rinnovamento, lasciando alle spalle una poesia supposta “difficile” e per addetti ai lavori, ma anche Gabriele lo era a suo modo, ricco di letture raffinate e meditate e infatti la sua scrittura è quella che oggi fa riferimento a una poesia alla Caproni, ricca di sensi e tramature, rimandi, capace di evocare una sospensione della realtà pur dentro un quotidiano delle immagini, un controtempo della Storia fatto di Momenti, un sole che brilla un pomeriggio estivo fissato in una sequenza come fosse per sempre. (sopra, Gabriele Galloni, foto di Dino Ignani)
Riconosco tuttavia nei versi di Galloni questa ascendenza seria e complessa del 900, pur nella riva di chi non voleva un "trobar clous" ma pure cercava nella poesia la forma che faccia scaturire il non visto dalle parole e non quel dettato semplice, troppo semplice più che breve, che cerchi di
ribadire il già visto e compreso.
Una poesia che cerchi non di guidare ma generare insieme al lettore un altrove, e non lasciarli
dove sono già, trasformandoli, spingendo una trasformazione - senza temere di farli sentire spiazzati - che l'altrove non appartiene a nessuno, nemmeno al poeta.
Desidero una poesia che vada ovunque, ma non dove
già sanno d'essere i lettori.
Perché al contrario una poesia che abbia paura di offendere i lettori, che non sia mai scarto dalla loro norma, ma ribadisca il già comune (come
cantare la canzone che sanno tutti) scalderebbe sì, i cuori di una sera, ma sarebbe
il vero suicidio della poesia.
Non io, ma nemmeno coro.
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