martedì 15 dicembre 2020

FAMILIE. Il Nuovo capitolo del "realismo" di Milo Rau, il teatro oltre l'autofiction letteraria

 



"Tutte le tragedie familiari si assomigliano”. Solo in apparenza Milo Rau, durante un’intervista, ha ribaltato l’assunto del celebre incipit di Tolstoj, secondo il quale le famiglie infelici lo sono ognuna a modo suo. Con il suo lavoro “Familie”, visto al “Romaeuropa festival” ,  il regista svizzero ha invece indagato oltre la spiegazione psicologica che potrebbe accumunare storie di disagi familiari. “Familie” è il terzo capitolo di un lavoro che Rau ha dedicato ai crimini, ai gesti di morte nella loro possibilità – o meno – di poter essere rappresentati a teatro. Stavolta, rispetto al secondo capitolo  ( “The repetition”)  o “Oresta a Mosul” non c’è morte violenta per mani di altri, ma una storia privata, familiare, di straziante semplicità: nel 2007, in Francia, i Demeester, padre madre e due figlie adolescenti , con la loro vita normale senza problemi di sorta, finanziari, di separazione, nessuna patologia psichiatrica o depressiva, né problemi di droga, come assicurarono poi i medici, di media borghesia, decise di suicidarsi. Lo fece, dopo aver impacchettato tutto in casa, come un trasloco. I quattro componenti furono trovati impiccati nella loro villetta di Calais.  L'unico indizio un biglietto conciso: “Abbiamo fatto un casino.  Scusate." 

Cosa avevano sbagliato ? Non si è mai saputo. Milo Rau fa di questo enigma un punto di forza. Il procedimento teatrale è nello stile di altri lavori del regista , mescolando la realtà fattuale dell’accaduto, narrato/rappresentato, con il vissuto degli attori stessi in una sorta di indagine parallela. La verità della biografia dell’attore viene  “messa in scena” ma decostruendo ogni teatralità tradizionale. Rau usa i suoi consueti tre livelli : teatro fisico, video (telecamere sparse sul palco)  e frammenti di documentario. Questo potenzia la “rappresentazione”, ma Rau lo esplicita fino a evidenziare quanto questo distorca. Per questo caso di Calais Rau prova un scavo che superi la psicologia. La singolarità  assoluta dei Demeester viene posta da Rau nelle mani di un’altra famiglia, quella degli attori Filip Peeters edella moglie An Miller con le loro figlie  Leonce  e Luoisa. Così il resoconto di quel che potrebbe essere  stata l’ultima sera della famiglia Demeester si intreccia e sovrappone con una sera normale dei Peeters, che portano i loro gesti, abitudini, problemi, la  banalità quotidiana di una famiglia. Salvo alcuni momenti di narrazione in cui la scena si ferma, il vissuto delle due famiglie si confonde e i Peeters mettono in gioco le proprie  crisi, narrando anche cosa abbia significato accettare questo lavoro e assorbito e fatto proprio il gesto drammatico dei Demeester. Naturalmente si potrebbe dire: è tutto teatro, anche quando dal palco si dice “non è teatro”. Rau disinnesca però il paradosso del mentitore, decostruendo, esplicitando il percorso, lasciando agli attori di portate un’autoanalisi in scena, restituendo un senso umano alle domande esistenziali senza risposta. Gli attori “Interpretano”, ma pure “sono” (come) quella famiglia (a un certo punto Lousia Peeters lo dice parlando del suo personaggio : “ c’è poco da intrepretare, lo sono”) . Ciò che emerge è la potenza del non-senso,  di un dolore o di una frattura svuotante che dal privato dei Demeester passa ai Peteers e descrive non monadi di disagio privato ma, alla fine, descrive una generale inquietudine per il generale fallimento di un mondo occidentale, che non ha saputo essere ciò che sperava, dopo un secolo di utopie e ora è minacciato dal suo stesso benessere, che si fa erosione di risorse.  a classe media è vittima e carnefice di una profanazione del pianeta e - ci sembra sia questa l’ipotesi politica di Rau – si riversa con ritorno di angoscia esistenziale sulle stesse famiglie per cui questo benessere è stato felicità (i filmini della famiglia rivisti assieme con un carico di angosciata malinconia)e specie sui figli, proiettati ora verso un futuro di ombre. “ Se il nostro destino è la morte – dice a un certo  punto Leonce Peeters, aprendo una confessione su ciò che scrive nei suoi diari e sulle sue stesse pulsioni suicide - perché non morire subito?”. I Demeester potrebbero aver tratto le stesse conclusioni e poi messe in atto? Può darsi, se anche una famiglia soddisfatta come quella Peeters-Miller rivela in realtà questo pensiero angosciato al suo interno, sentito e elaborato dalle figlie. Il lavoro di Rau da psicologico si fa filosofico e politico, grazie ai suoi bravissimi attori, con un’opera che rinnova una tradizione di vis-a-vis con la morte e il non-senso, che va da Beckett (“ma senza la buffoneria esistenziale di Godot” dice sempre Rau,) fino a Carrère passando magari per Leopardi. La ragione per vivere sta nella coscienza che non c’è ragione sufficiente, ma pure la vita si ostina ad essere. Il suicidio come protesta esistenziale, posto dalla lucida analisi delle figlie Peeters, sta esattamente in quello stesso luogo privato del teatro familiare dei Peteers, con quegli stessi gesti e parole minimi, elencati dalle ragazze-ginestra a dire una irriducibilità della vita stessa,  che sa “essere” al di là del discorso dell’Io, pur nella sua logica stringente di una filosofia del negativo che dice il male di vivere, vede il non-essere dietro la maschera di una realtà assurda. “Familie” diventa così uno spettacolo che è sia Urlo muto, alla Munch, che inaspettato inno, commovente e sommesso, della vita. 

2 commenti:

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