domenica 21 marzo 2021

GIULIA CAMINITO "L'acqua del lago non è mai dolce" (Bompiani)

 INCANTO SENZA REDENZIONE


Quello che mi ha impressionato di più nel romanzo “L’acqua del lago non è mai dolce” (Bompiani) di Giulia Caminito, è la “voce” della protagonista. Dire voce, è metafora o concetto spesso usato, sta nella tessitura verbale di un romanzo in cui la protagonista sembra salire il dizionario come uno scalino, aggrega le parole, mette in un’esistenza grama, il linguaggio come sua unica proprietà. Leggendo a colpire è innanzitutto la tessitura verbale, la sintassi, le immagini scelte, poi il complesso della storia e come Caminito tratteggia i personaggi, il ritmo di una prosodia furiosa come la ragazza che racconta. Nella prima persona c’è tutto il talento di una scrittrice che al terzo romanzo decisamente si impone.

“L’acqua del lago ecc.” è ’ una storia di esistenze sommerse, come quelle della famiglia della protagonista che appartiene a quella socialità periferica, dentro la grande metropoli di Roma a cavallo del millennio,  che lotta per mantenere una sua dignità, ma decisamente scivola vero la marginalità. La famiglia ha al centro colei che dall’inizio alla fine sarà muro, architrave, ma anche diga nel bene e nel male: la madre Antonia, personaggio vivido e tridimensionale, quasi una sorta di Magnani/Onorevole Angelina, arguta, battagliera, dura, a volte, troppo dura per una bambina. Siamo nei primi anni Duemila e  la storia ci getta subito nei modi spicci di Antonia, quasi comici, con cui si danna per ottenere una casa popolare ATER, contro la burocrazia capitolina, quella che assegna quelle pubbliche. La spunterà, per una casa in cui però si sentirà fuori posto con quella famiglia sghemba – un fratello nato da una relazione precedente e dopo la protagonista, altri due gemelli, e quel marito padre disgraziato per un incidente, più peso che presenza. Ottenuta la casa, opterà per un cambio, un piccolo impiccio, uno scambio non legale, ottenendo da una conoscente la sua casa popolare al lago di Bracciano ad Anguillara. 

La protagonista e narratrice osserva la sua famiglia. La “giudica e non la perdona” come dice della madre nel primo capitolo,  ed è questo essere laterale, fuori posto psichica nel 'fuori posto' sociale, a costituire la specialissima prospettiva della Protagonista ( e della Scrittrice che le dà voce). Vede il mondo dalla prospettiva di una bambina prima e di una ragazza dopo, sempre in tensione con la madre, tra ammirazione e conflitto. Siamo tra quei “penultimi”  e senza classe, di cui molto si è parlato. La storia di una sofferente battaglia di vita dignitosa e poi riscatto nello studio  per la  Protagonista (la chiamo così, il nome è svelato solo in fondo ha un senso non rivelarlo)

Il lago sarà quell’accoglienza torbida e traditrice che è la vita, supposto amaro, forse però dolce, sempre guardato storto. Così La Protagonista cresce, viene poi mandata a scuola a Roma, perché migliore perché studiare sarà il riscatto.

 Inizia un’accumulazione di treni e letture, a partire dal Dizionario che le regala la madre (ha in comune con Maria Grazia Calandrone questa identificazione della Maternità col Linguaggio, a fronte di Padri assenti, deboli silenziosi, sarebbe quasi una decostruzione del conservatorismo di Lacan e di Recalcati).

Ma il libro è anche un racconto della materia del vivere, in un epoca inevitabilmente legata ai suoi beni, per la Protagonista sempre vissuto tra averli e non averli,  nello slittamento di senso che crea avere i soldi o non averli. La Protagonista soffre di una disparità sociale sempre patita (ma è un romanzo con sguardo tagliente mai patetico, anzi, l’asprezza di tramontana sbattuta in faccia regala una limpidezza allo sguardo della narratrice). La scuola le andrà bene, con buoni voti, ma la famiglia galleggia o forse rischia sempre di affondare, il salto sperato, l’ascensore sociale non c’è più, semmai, l’andare a fondo.

 Il mondo intorno è proprio questo lago incantato di luce, ma pericoloso, limaccioso come sarà il 2001 dell’11 settembre o dopo la crisi finanziaria del primo decennio, cercando di vivere come una normale adolescente ma sempre un po’ indietro. Mai poter avere un vestito di moda, ma sempre un po’ rimediato, mai con l’ultimo smartphone, ma con un normale vecchio Motorola a libretto, e pure cercando di vivere come tutti i suoi compagni o meglio sopravvivere, dentro inerzie che diventano drammi, una piccola ribellione di provincia tra furtarelli e notti spericolate, le amicizie spremute fino al dolore, le delusioni, gli amori, sbagliati, non capiti.

Tassello dopo tassello, immagine, scelte di parole ricche di riferimenti, allusioni allegoriche, lampi di poesia, tutto il romanzo è il racconto di una difficile conquista di un proprio spazio di una propria identità di una casa, intesa come luogo per sé, quello in cui è nessuno le ha chiesto se voleva abitarlo. In cerca anche di una condivisione, costruendo una comunità da zero. Su tutto svetta il continuo confronto con questa madre-diga , un Super-io di protezione e colpa, di repressione e argine verso gli sprechi. 

Siamo in piena era del consumo, per la Protagonista trovare una propria identità (femminile e sociale) è complicato. Lo si vede nel rapporto con il ragazzo benestante che frequenta,  e degli altri maschi che le sono intorno, con cui ingaggia una lotta di emancipazione paritaria che al tempo stesso diventa inevitabilmente rispecchiamento, sarà tutto studio e caccia, toccando l’acme in quel pomeriggio che per sfida col ragazzo al luna park sparando con il fucile a Pallini, la Protagonista butta giù tutti i barattoli fino a vincere un enorme orso che poi resterà come ingombrante simbolo di inutilità della forza. Una Diana che tuttavia preferirà le frecce di Mercurio alle sue. Anche se avrà occasione, insieme a Cristiano, amico-fratello, di mostrare un lato di gesti furibondi e non solo dolcezza, i suo lato di animale cacciato e predatore insieme.

Più tortuoso il rapporto con le altre ragazze, confrontandosi sull’identico di sé, Dove la conquista passa inevitabilmente  per le cose, tanto mancanti, rifiutate come per partito ideologico preso ma alla fine desiderate (capitoleranno anche per il televisore) specie se i beni voluttuari sono il corredo di un modello formativo delle bambine, da decenni e che questa giovane ragazza degli anni 2000 ha intorno a sé. Se ne emanciperà, non potendo, ma soprattutto non volendo farli propri, tuttavia non sarà facile essere continuamente laterale, di scarto, antagonista in una giovinezza che ha bisogno di comunità. Intorno a sé ha il piccolo gruppo di amiche e il desiderio comprendibile di abbandonarsi e far coincidere se stessa con questo dispiegamento consumistico delle apparenze.

A tutto questo La Protagonista si ribellerà, cercando di crescere e trovare una sua strada. Nella parabola tra infanzia e età adulta segnata da fratture di affetti e riconquiste, da una laurea  e da amarezza che ne seguirà, Caminito segue i suoi personaggi con empatia fortissima, ma senza il facile escamotage di uno stile sentimentale ed emotivo, riuscendo invece a dare con una precisa tecnica di scrittura ciò che si agita nelle correnti psichiche della Protagonista e non solo, nel limaccioso, opaco e poi luminoso (ma mai dolce) nella sua coscienza. Con una voce che Tiene dall'inizio, alla fine, che si affida a una sapiente orchestrazione metonimica delle scelte linguistiche, dei correlativi oggettivi per cui le parole diventano sostanza materica di un esistere gettato nel mondo, e al tempo stesso descrizione del mondo intorno, per cui Caminito si tiene con il suo realismo,  costantemente dentro una nuance poetica, un’indecidibile concettuale che trasmette con veemenza questa conquista del mondo a morsi che fa la Protagonista.

Il libro percorre la strada del romanzo di formazione, se guardiamo la progressione esistenziale, dall’infanzia all’università, ma  restituita nella frana e nella lotta costante per un posto che sia davvero casa: per la protagonista che abita una casa stretta, povera, dimessa, usare bildung per dire della sua storia sarebbe parola amara, dato che nel suo significato è anche ‘palazzo’. Nascere, crescere per la Protagonista è la dura consapevolezza non solo economica, ma psicologica dentro un mondo al trapasso (mi fa l’impressione, sarà questo vivere in povertà vintage della famiglia della Protagonista, che ci stia raccontando una storia molteplice e senza tempo, che va dagli anni ’60 al 2020: ad esempio quando vanno in cartoleria e le chiede una “Smemoranda” la madre risponde come la mia nata nel 1932 ai primi bagliori di consumismo a fine anni 70: che di devi fare e – qui vedo mia madre – “m’ha detto che con due quaderni di piccole dimensioni ce lo saremmo fatte da sole il diario. Bastava dividere la pagina a metà, scrivere il numero e il giorno, lasciare le righe per i compiti.” Non decrescere felici, ma non crescere, nell’infelicità con desideri repressi,  del non potere avere il feticcio-bene. Ma oggi quel non crescere, quell’infelicità ci sarà utile.

Il trapasso d’epoca è uno stare precari, e qui è generazionale, per la trentenne Caminito, stare tesi e sospesi tra “le dieci cose che non si è riusciti a fare” e “ le dieci che non si faranno mai”, come quelle che elencandole si scambierà con la sua più cara amica in lettere dolorose di maturazione e nostalgia rabbiosa, quando è troppo tardi o un incomprensibile non ancora o mai.

Caminito spicca per questa capacità di precisione nel descrivere lo stato d’animo. Si elogia tanto Sally Rooney, se Caminito fosse anglosassone oggi sarebbe un fenomeno internazionale.

 La Protagonista in cerca di una Grazia, ma sempre in lotta con la sfida con la Pesantezza, la materia o il mestiere di vivere che non si impara da ragazzi, quasi preferendo come Leopardi l’affondare (il naufragare dolce) Le acque infide della vita sono anche sfidate, il lago è  un buco spento, la sua acqua lucente è solo l’illusione che copre ciò che non è più. La lotta della Protagonista si svolge, proprio in un’era postuma, in cui la Storia sembra definitivamente spenta come il lago e con essa le lotte (anche quelle disperate e fuori tempo massimo del fratello antagonista che era andato a Genova 2001 e a nulla vale il suo intervento nella casa riconquista a Roma, alla fine)  sebbene le possibilità che in tutti gli altri romanzi di formazione (già quelli degli anni 60 e 70) un “protagonista” disagiato avrebbe avuto nel riscatto. Qui invece non c’è redenzione né riscatto.

Tutto è troppo tardi, la casa  fa acqua da tutte le parti.

1 commento:

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