LA VITA SPLENDE, NEL LIBRO SENZA GENERE
“Splendi come vita” (Ponte alle Grazie) il nuovo libro di Maria Grazia Calandrone è oggetto anomalo. Se per giudicare ci si aiuta comparando, difficilmente si può accostare al resto della narrativa di questo anno – ma più in generale degli anni – perché si tratta di una prova in prosa di un poeta ma forse “narrativa” è categoria stretta.
La storia è a suo modo “romanzesca”,
per chi non la conoscesse (ma Calandrone già in poesia aveva molti riferimenti
al vissuto, anche nell’ultimo libro di versi “Giardino della gioia” Mondadori) ma ora si
dispiega in modo più diretto, in libro felicemente inclassificabile. I due
fuochi centrali sono sia l’abbandono della madre biologica, sia il rapporto con
la madre adottiva, ma siamo in altro territorio rispetto all’ autofiction.
È biografia esplicita: dalla copertina e soprattutto dalla
prima pagina, siamo in media res, non con incipit di scrittura ma con un trafiletto
di cronaca, da Paese Sera del 1965 in cui si parla della “bambina abbandonata” Maria
Grazia che è stata “affidata” ai signori Ione e Giacomo Calandrone. Orfana,
perché la mamma biologica si era suicidata (ragazza madre di paese, non resse
alla vergogna nell’Italia ancora più bigotta, allora). Giacomo ex operaio,
combattente in Spagna, ora deputato comunista; Iode, anche lei comunista,
colta, insegnante, bella, bionda.
Libro anomalo, potrebbe anche essere un canzoniere d’amore che tuttavia risale
come anguilla alla sua radice amorosa. Canzoniere di Amore e tormento, nella
misura in cui tutti i canzonieri sono formazione di vite nove, cioè definizioni
dell’Io nel desiderio e dunque nella mancanza dolorosa dell’Altro. La sorgente
primaria è qui nel Luogo del Materno. Qui si compie un distacco, per Maria
Grazia doppio: prima dal corpo stellare unico di chi l’ha generata e nutrita
nei primi istanti, poi da chi l’ha curata e cresciuta. La prima è detta “Mamma”,
la seconda è “Madre” (anche se per poco anch’essa è Mamma) . Il secondo abbandono sarà a quattro anni,
quando Madre Adottiva rivela alla bambina MG chi ella è, ovvero chi non è.
Si genera qui un distacco ctonio. L’infanzia splenderà di una consuetudine
quotidiana di mille episodi, canzoni, fiabe, pettini, patatine, foto, vestiti, dettagli,
notazioni che nella prima parte del libro sono il racconto dell’Incanto.
La voragine sottile come un capello, si andrà amalgamando alla
materia psichica dell’adolescente in crescita: Maria Grazia in cerca di sé –
non trovando però un volto materno come “vero” (non era più MammaVera), dovrà
cercarlo nell’ombra, un’origine che
tuttavia non è quel vissuto di incanto che è stato. Neppure è origine.
La Mamma biologica si pone come l’ombra irrisolta, ma la Madre non si mostra da meno nel suo progressivo cambiare, da incanto dell’infanzia a tormento di un disagio anche psichico che acuirà il conflitto tra la donna e la ragazzina. Costruire scalando macerie, puntellando frammenti. Maria Grazia adolescente si espande verso la libertà adolescente che la fa essere, e si scontra con la Madre rimasta sola, figura normativa e via via sempre più assurdamente anaffettiva, con tratti paranoici, ossessivi. Era malattia era forse depressione. Ma certo lasciava in quel terremoto anche riemergere l’ombra della Mamma dell’abbandono, come un’impronta fossile lasciata sulla roccia di un animale estinto, o come l’ombra sulle scale ad Hiroshima di persone vaporizzate dalla bomba atomica, resta a una evocazione sorda. Essa stessa si identifica con quell’ombra di bambini polverizzati dalla Storia. La bambina legge (in una casa di comunisti e di persone colte) il libro “Il gran sole di Hiroshima” Karl Bruckner e comprende che "non vuole crescere", restare piccola come le ombre dei bambini fissati dal Sole Atomico, nzi forse essere ombra. Maria Grazia si sottrae alla realtà, scivolando nell’immaginazione di sé. Diventerà consapevolezza dello strappo. Amore è sempre de lohn, ma quanto più l’Io cerca di costituirsi nella restituzione da parte del Tu, tanto più quel volto-altro è distruttivo, ferisce in una lotta ( che costituisce tuttavia la forma futura di sé e che cerca l'approdo ad un amore che non sia possesso dell'altro, che sia generosa distanza, alterità non conflittuale).
La rivelazione fatta alla figlia era mossa da un disagio, da una mancanza o una
colpa interiorizzata e preventiva della stessa Madre adottiva (la paura che
Maria Grazia scoprendo la verità da adulta si allontanasse da loro o addirittura
si togliesse la vita)- Quello svelamento genera però la confusione di
verità. La Madre si disgiunge dal suo
essere anche Mamma, la voragine deflagra a 11 anni, quando finirà con un altro terremoto l’infanzia: è
la morte dell’amato Padre, uomo fascinoso come Gianmaria Volontè, assente per il suo impegno politico, in tanti
viaggi, ma che portava il mondo in forma di regalini a ogni ritorno. Da lì in
poi sarà la Seconda Ferita a misurare lo spazio del materno che non sarà più
tale. E con esso il disegno di sé. Foglio e matita saranno il primo piano di
rispecchiamento.
Accade alla fine degli anni 70, Maria Grazia entra con la psiche nella storia, sperimenta
l’altro, si veste da maschio, assorbe il conflitto di piombo bombe politica
paura, si getterà poi nella Roma dei primi 80, delle Estati Romane, del carnevale,
della piazza. Sempre in cerca di un centro,
un posto dove stare, sarà il disegno lo strumento poi la poesia le
parole, troverà a un certo punto anche più avanti un Sole surrogato in una
Stella del cinema ma soprattutto del fotoromanzo (d’amore ovviamente) Ornella
Muti (sono belle pagine di adolescenziale, folle coraggio ) e poi però anche finendo
nei labirinti di Scientology.
Indaga disperata il trauma, resterà sempre in cerca di una “latenza
di un generare immenso” (come scriverà poi Calandrone in un verso de La
scimmia randagia) che tuttavia è irrecuperabile, troppi sono i riflessi,
cercati nel florilegio linguistico. E la lingua della poesia sarà in qualche
modo l’esercizio spirituale della restituzione all’infinito naufragare in un
mare d’amore, che è abbandono, consustanziale.
Non sé, non-Io, se non molteplice
e alla molteplicità sarà devota Maria Grazia Calandrone come autrice poetica,
potremmo dire alla Moltitudine di sé, mancando il centro di un Io, ma abbracciando
un’orchestra di presenze e ombre in sé. Di questa polifonia è traccia proprio
lo stile adottato da Maria Grazia Calandrone in questo libro anfibio, una
scrittura che usa l’ellissi, la spezzatura metonimica, la simbologia, un certo
afflusso di immagini rigoglioso, eccedente lessicalmente, la spezzatura che
diventa enjambement improvviso della prosa, anche del corpo tipografico (un
procedimento adottato anche da Anne Carson in Autobiografia del rosso). Come
autobiografia del “molto”, o del troppo, dovremmo dire qui, del polifonico, pur
concentrato nel corpo-a-corpo duale dell’Amore.
La Storia di sé, prendendo corpo alla fine degli anni 70,
comincia tra canzoni e bombe, comunità amicali e P38, ma più nel nome
dell’amore (1977, per i (noi) tredicenni dell’epoca era “Ti amo” di Umberto
Tozzi che Calandrone cita - e volutamente anche ‘canta’ nell’audio libro che
lei stessa ha registrato, autrice polifonica)
Per Madre Adottiva, tuttavia, il piombo è la depressione,
l’angoscia che prende spazio, sarà “l’inferno” (titolo del capitolo) di malattie
e colpe immaginarie che addossa alla
figlia, grumo di amore e dolore, e che sfociano in repressione che da
privatissima non può che farsi storica. (anche il Canzoniere di Petrarca era
storico, seppur nella semplice scansione dei testi “in vita” e poi “in morte).
Sarà collegio, listello di legno per punire, isolamento, addirittura insulti (tra
cui il termine “villana” riandando all’origine di sua Mamma biologica)
Il romanzo-Canzoniere di Calandrone chiama in causa il
processo di identificazione per l’individuazione di sé. Il linguaggio si
assembla come una macchina celibe a dire però tanto afasicamente quanto poi verbigerante
un impossibile “io” anche perché bisognava arretrare, sottrarsi all’imprinting
del linguaggio che era stato di Madre, che è stata “parola” e insegnava le
poesie alla figlia (e in quell’episodio del rifiuto di recitare alla zia
“Pianto Antico” di Carducci non c’è solo l’intuizione di grumo di dolore
genitoriale, c’è anche la ribellione dell’Anti-Edipo alla koinè femminile, là
dove Madre era colei che dettava dentro parole, linguaggio istituito nel Nome
della Madre). Allo strappo doloroso della Madre, Maria Grazia reagisce
colmandolo di disegni prima (altra sottrazione al Linguaggio) e poi di suoi pensieri
e sue altre parole, sarà la poesia della propria voce, non il dolore falso di
Pianto Antico.
.
Ecco, parole e concetti, riportate
dall’autrice nel libro, da uno scritto
di quegli anni difficili, un “trattatello” in cui definisce
l’autoconsapevolezza: “ Chi diventa adulto accanto a un Grande Amato che come
contraccambio gli inietta nelle vene il veleno glaciale del Disamore” lo getta
nel “disincanto”. Punta al centro, con la Scrittura che tuttavia per paradosso
– complice il tempo storico o le “sciccherie
nietzschiane” come le definisce l’autrice - non può che essere una decostruzione
dell’Io o una sua metamorfosi in una polifonia rizomatica, sempre per dirla
col vocabolario del 1977. Che è dunque un modo per sfuggire al centro, questo
“sfondare il guscio” che “contenendo ci divide” e arrivare “al cuore radiale
della vita, all’infinito dentro le persone”.
LO STILE
Infinito e polifonia. Rigoglioso verbigerare rizomatico. Lo
stile del romanzo è selva di linguaggi. Un
Io che tuttavia si rende coro nel non chiudersi in un rispecchiamento e
chiusura di sé – a cui non Una ma Due fantasmi del materno-femminile la
spingevano - smontando il Due e smontando
Sé nel linguaggio, sperimentando una propria decostruzione.
Questo stile ha
portato Calandrone in questa sua prosa, certo ammorbidendolo rispetto alla
prolifica ricchezza della poesia (o sua “estrosa abbondanza” per dirla con Anne
Sexton). Qualcosa c’è forse qua e là di eccedente,
nella ricerca di immagini, parole che dispieghino sentimenti (laddove, per fare
un piccolo esempio, per l’appunto quel
desiderio di ricerca “dell’infinito nelle persone” – scrive a un certo punto
Calandrone parlando del suo gettarsi nella scrittura – e che già basterebbe di
per sé, come definizione aggiunge una più indistinta, Whitmaniana o vitalistica
ricerca definita “ eternità barbara e incandescente delle stelle” (col
rischio di un registro iperletterario) :
ecco l’uso delle immagini, di una ricchezza lessicale petrosa, colorata, è la forza e al tempo stesso il continuo clivo
ascensionale a rischio frana della Scrittura di Maria Grazia Calandrone che può
arrivare a una con-fusione dell’eccedente. C’è da dire che da sempre tutta la
critica – e concordo su questo – vede
questa mancanza di misura, lo spiazzante del suo stile, come un prendere-o-lasciare
della poesia di Calandrone, e la usa anche qui, con sua coerenza.
Chi conosce i suoi
versi ritrova, con una alternanza che mi sento di sottolineare, all’inizio
proprio in coincidenza con la fase più bambina, un punto di vista non-adulto,
con registro del meraviglioso e se dovessi fare poi un riferimento al mondo
della poesia vicino a Maria Grazia Calandrone, mi era sembrato quasi un tono
che mi richiamava Vivian Lamarque (il tono anche se diverso il registro)
di “Il Signore d'oro” o “Teresino”. Lamarque che con
Maria Grazia Calandrone condivide il destino delle “due madri” esplicitato
ancora di più nel libro di Lamarque “Madre d’inverno”, ma se Lamarque è
contraddistinta da un’ironica commozione controllata, Calandrone sceglie toni
con dolenza e violenza drammatiche ma pure con toni che strappano anche riso
(“il riso degli Abbandonati”). Man mano che la vicenda procede, seguendo prima
la crescita a scuola, poi il collegio, poi le fughe a Milano poi i ritorni, si arriva
a maggior compimento di tutto il libro, Qui raggiunge i suoi momenti più
intensi più dolorosi più partecipati.
In ogni caso, è naturale che un libro così singolare, a suo
modo sperimentale, abbia delle alternanze, con parti che forse chiedono aggiustamenti, o tagli.
Qualcosa invece è mancato (quindi si doveva abbonare) nelle parti più brevi, in ogni caso, sono imperfezioni necessarie (ed un bene che compaia un libro così in un
panorama che spesso lamenta anche un certo appiattimento sulla “medietà”
linguistica e stilistica da parte della narrativa).
Appendice
IL ROMANZO COME
BIOGRAFIA, NELLA STORIA E NEL PRESENTE SOCIAL
“Splende come vita”
racconta questo usando una biografia unica e reale una storia singolare, che - per citare il famoso
aforisma incipit di Tolstoj – è infelicità a modo suo, singolare e assoluta che
poi genera romanzo, che genera a sua volta anche la sua necessità di essere
ascoltato.
In questa seconda
appendice vorrei dire qualcosa sulla ricezione di questa storia assoluta e
singolare, ma che diventa universale, nel forte riscontro di successo tra il
pubblico che nella pagina social Maria Grazia Calandrone riporta con storie e
restituzioni di esperienze familiari, se non simili altrettanto intense,
pensando però che è fenomeno che ormai è costitutivo della presenza del libro
sulla scena pubblica.
La necessità di essere raccontata era ovviamente anche psicologica in primis
dell'autrice che l'ha portata a emergere in una sola estate dopo tanto tempo. Da
lì in poi il testo si pone – ma come
capita sempre più spesso - in una
dinamica di continuo accrescimento extra testuale, in dialogo con i lettori
mediato dalla stessa autrice (formalmente l’analisi testuale distingue tra Voce
Narrante e Autore/Autrice esistente, ma sta accadendo che – complice i social –
questa distinzione che era della semiologia o dello strutturalismo, salti).
Dopo il testo finito, c’è una vita del libro al confine tra testo e soglia. Non
solo il coagulo di tante storie di vita,
ma anche il compimento di ricongiungimenti e ritrovamenti della vicenda originaria
della “bambina abbandonata”, con trasmissioni televisive in cui il sindaco del
paese del Lazio da dove veniva la Mamma Biologica, ricorda a nome di tutto
quella ragazza. Non entro nel merito di come la TV possa rischiosamente
trattare “il caso Maria Grazia”, lo cito solo perché se la prima pagina del
libro ospita il trafiletto di cronaca in qualche modo l’ipertesto dello
stesso romanzo, la sua coda, più che soglia d’uscita, non può che essere la di nuovo la cronaca,
stavolta in TV. È un elemento – l’ipertesto-della-cronaca – che si pone spesso
e di recente per più di un romanzo italiano.
Una storia umana toccante e che di sicura va
oltre il libro, il riscontro che ha il libro naturalmente risente anche e
soprattutto della sua materia narrata. Cercheremo di restare anche alla materia
scritta per questo bildungsroman, romanzo
di formazione di un’autrice che è già poeta riconosciuta e molto apprezzata e
in cui tuttavia sia la Storia che la dominante autobiografica sono state sempre
presenti.
Questo vale anche per altri libri usciti di
recente. Non solo il Caso Carrére che
scrive un libro che viene tagliato, per
una polemica con causa in tribunale, della ex moglie ivi descritta, ma lo stesso
era accaduto all’ultimo dei sei libri della autobiografia sterminata di Knausgaard.
Siamo in un’epoca in cui
l'autore è presentissimo continuamente gli occhi dei suoi lettori ,specie con i
social e in generale grazie al digitale (oggi molti incontri zoom). Questo è un
aspetto che sta forse incidendo (me lo chiedo non so la risposta esatta) il
presente storico della letteratura mondiale, perché l'autore non è più
semplicemente quel nome che sta dietro una storia. E in qualche modo poteva
essere la storia che lo identifica oggi, l'autore ha una sua specifica presenza
di ‘personaggio’ può fare il Giullare su Facebook e poi scrivo dei libri
serissimi. In che modo le due cose interagiscano e anche si condizioni è tutto
da vedere.
Resta un libro che
probabilmente, anche Maria Grazia questo interesse per la vicenda la porterà
molti lettori che amano queste storie a confrontarsi con un linguaggio che
attingendo all’elaborazione poetica è sempre ‘ sperimentale’ anche quando
recupera stilemi lirici. Lo stile di Calandrone si ripresenta con i suoi
elementi di rottura dei limiti e di eccedenza, appunto, chi sta sperimentando
la macchina di un linguaggio che vuole dire l’eccedente per eccellenza ovvero
il mancante. In questo paradosso anche laddove sembra scritto troppo, sempre
probabilmente è troppo poco, mai l’origine ha un centro specie se in questo
caso paradossalmente i centri sono due, uno in luce l’altro in ombra. Libro inusuale
e prezioso per il tempo presente della narrativa l’urgenza e il desiderio hanno
dettato 8lo dice la nota finale) una storia che si è gettata, diciamo qualche
modo sulla pagina. Indubbiamente una scommessa di coraggio stilistico che è
duplice di tirar fuori una storia difficile personale farla diventare
narrazione e scriverla però con uno stile così personale poetico e che possa
dare conto proprio della complessità della storia che si sta raccontando.
Sono una donna molto povera che non ha sempre trovato fortuna quando si tratta di giocare alla lotteria. Gioco alla lotteria da quando avevo 21 anni e ora ne ho 45, il che significa che gioco alla lotteria da 24 anni. La somma più grande che abbia mai vinto in vita mia è stata di $ 400. Ma un giorno la mia storia diventa storia dopo aver trovato su Internet il nome di quest'uomo che è il migliore quando si tratta di vincere alla lotteria. Quest'uomo è un dottore voodoo molto forte che dà i numeri che non possono mai fallire. Dopo tutti i miei anni di lavoro e lotta per vincere la lotteria, ho finalmente vinto ($ 27 milioni) il nome è la dottoressa Adeleke, ( aoba5019@gmail.com ). oppure contattalo sul suo numero whatsApp (+27740386124) questo è l'unico modo per vincere alla lotteria e il migliore.
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