Avevo scritto molti appunti, poi abbandonati, su "Due Vite" nel maggio del 2020, dopo averlo subito comprato, come faccio con tutti i libri di Emanuele Trevi quando escono (il primo fu "Istruzioni per l'uso del lupo" di Castelvecchi, 1994 e prima ancora le poesie nel Quaderno di poesia italiana contemporanea. A volte però quando certi autori sono così seguiti da vicino, diventa difficile afferrarli. Almeno per me è così.
E tuttavia visto che Trevi sta per entrare in gara al Premio Strega, ecco quegli appunti, un po' aggiustati, ma forse sempre viziati da una certa lunghezza. Chiedo venia.
Tra queste, quella di chi scrive ma si rifugia nella verità
relativa, in una possibilità solo minima dell’Io (non meno narcisistica in
certi casi) di raccontare quel che sa, ovvero spessissimo solo di sé, nella più
diretta verità, anche oscena a volte. Come se la confessione intima dei vizi,
superasse il divieto filosofico dato al Soggetto di poter dire “io” a nome di
altri.
Posso dire la mia verità, solo quella e allora la dico
tutta. Questo in sintesi.
Con effetto non meno totalizzante (invasivo) quanto lo è
quel modo di fare di uno che ti volesse per forza confessare i suoi segreti. Se
è impossibile all’Io dire di tutto, l’io-minimo occupa tutta la scena. L’autofiction
né è solo una variante.
Emanuele Trevi ha scelto una via diversa, speciale e tutta sua, aderendo solo in apparenza al coté di chi fa autofiction, semmai più semplicemente, attinge alla biografia, ma sempre in un intreccio di “vite altrui” raccontate innanzitutto nella loro unicità di dolore e gioia, ma poi – trattandosi di persone che avevano intrecciato la vita privata di Emanuele Trevi, ma anche quella di altri e essendo figure pubbliche, autori letterari, intellettuali (dovremo dirla sempre con rispetto la parola) ecco che la dimensione narrativa di Trevi esce da ogni genere e perde felicemente ogni precisa collocazione (sono saggi? sono memoir? romanzi?).
Ad esempio in questo ultimo libro “Due vite” (Neri Pozza)
ora candidato allo Strega, il racconto di Pia Pera e Rocco Carbone è di fatto
una triangolazione d'amicizia, come era nella vita, dunque Trevi da un lato racconta sé
stesso, narrando dei suoi due più intimi amici, dall’altro si spoglia del Sé,
per lasciare, nel triangolo, spazio alla coppia (in un certo senso, ci si
perdoni l’irriverenza, ma la posizione di Trevi e in un certo senso quella
dell’abile “swinger” che nel Threesome riesce a generare una
circolazione di energia affettiva, non erotica (si perdoni la metafora da Reverendo
Cooper, ma che qui va intesa come Eros della conoscenza, dell’apertura a
intuizioni e sentire del profondo, posizioni dell’anima dentro una neo-agàpe di
micro-comunità non confessata a sé stessa).
Erano amici di Emanuele Trevi. Un' amicizia di formazione, di lunga data e di intima solidità.
Di questo racconta Trevi, nel raccontare di loro.
Qui si salda dunque amicizia in una forma d'eros conoscitivo, che di fa poi agape, comunità (qui piccola.
Eros è – prima di essere solo confinato all’amore – originariamente un più ampio e comprensivo sentimento (comprensivo anche di sessualità, come sappiamo dai greci, ora implicita a volte in certi equilibri di amicizia tra maschio e femmina, nell’epoca post psicologica e post femminista di fine 900) e che chiamiamo Amicizia e che ha avuto anche una sua lunga tradizione anche filosofica (Da Epicuro Pascal a Levinas o Derrida) e nella sua flessibilità (starei per dire “liquidità” per provocare i seguaci del reazionario Bauman) e una certa stabile aleatorietà, ha il suo pregio maggiore, benché sia difficile approdo. In fondo nell’intimità non si cerca possesso, ma “autenticità”, in cui specchiare la nostra. E su questa parola sta un nodo del libro. Parlando degli amori difficili di Pia Pera, Tre vi sottolinea come “a innumerevoli esseri umani è dato questo destino, di ottenere molta più felicità dall’amicizia che dall’amore. Ma purtroppo queste persone non si arrendono facilmente, perché come tutte le altre, sono vittime dello stesso liquame sentimentale sull’ anima gemella che fin da piccoli suggiamo dai romanzi, dalle canzonette dai film. E quindi si innamorano, pensando di accedere a un grado superiore dell’esperienza e alla loro piena realizzazione e invece stanno solo incasinando la vita che gli tocca vivere”.
Ecco che allora Trevi con Carbone e Pera, dà vita a un sodalizio che seppur
camminando precariamente sul lato del perenne fallimento, alimentato dai
romanzi, proprio dai romanzi, ma da una loro lettura al contropelo (anche nel
rigore strutturalista di Carbone) non possono che trarre l’antidoto, il farmaco che annulli quel veleno.
A me sembra che Trevi faccia questo, un trasportare fuori
dall’amicizia vissuta personalmente, quello che era il suo nucleo sia
psicologico e letterario, poetico in fondo, sia quello storico, pubblico, un
privato in fondo anche etico, nell’oscillare tra un lasciarsi andare anche
deluso e distruttivo (l’anima di Carbone) e invece la resistenza, ostinata e
contraria, del rifiorire fino all’ultimo (l’anima di Pera).
Lo sottolineo perché lo fa lo stesso Trevi in apertura di libro: buffo guardare
con ironico scetticismo, ma anche con un certo affetto, al destino delle due
anime, anche nel loro sostantivarsi onomastico, con Carbone e Pera, a due stati
di materia naturale differenti.
(Un po’ forse io stesso forzo il mio giudizio, per via una conoscenza che è stata tanto occasionale, quanto permanente, nella lunga durata, dai tempi dell’università, con Emanuele Trevi, divenuto poi maestro fratello – e pervia anche del fatto che in quel tempo, per alcuni mesi, alla biblioteca nazionale capitava spesso di parlare tramite Emanuele anche con Rocco Carbone. In me agisce, non lo nego, un affetto sentito, insieme alla condivisione dei significati culturali che questo come gli altri libri di Trevi hanno)
E dunque la lunga fedeltà alla vita e all’amicizia che ha
Trevi autore si esprime in diversi libri, tra saggio e autobiografia e
narrazione letteraria, con al centro persone che ha frequentato, a volte ponendosi
in posizione paritaria e orizzontale, come è normale tra amici, a volte di
sacro rispetto o di magistero (io stesso considero un maestro contemporaneo
nonché coetaneo, Emanuele Trevi come scrittore) a volte intimorente o insondabile,
ma sempre pieno di nutrimenti.
Ecco allora Pietro Tripodo in “Senza verso”, Laura Betti (e Pasolini sullo
sfondo) in “Qualcosa di scritto” e Amelia Rosselli, Cesare Garboli, Arturo
Patten in “Sogni e favole”. E ora in “Due vite” Rocco Carbone e Pia Pera. Da un
lato, restano tutti persona, raccontati con il registro da flaneur della
memoria tra divagazioni, rievocazioni, domande ancora aperte, ricordi precisi e
fotografici, sempre con lo sfondo di una città che è più Flaneuristica di
Parigi, una Roma sovraccarica della sua bellezza miserabile, poi auto-generatrice
del mito di sé stessa, città quasi set, quasi paesone, quasi metropoli, quasi
assente, quasi materna.
Tutte persone e tutte
evocate come vive. Come solo i personaggi scritti sanno essere vivi perché
vividi. È vero quel che in “Due vite” Trevi esplicita quasi in sentenza di
poetica “Scrivere di una persona reale e di un personaggio immaginato alla fine
dei conti è la stessa cosa: bisogna ottenere il massimo nell’immaginazione di
ci legge utilizzando il poco che il linguaggio ci offre”.
A questa indicazione, io però vorrei aggiungere un taglio di
sguardo: si tratta certamente di un unico percorso memoriale che cerca di
descrivere non tanto l’unicità di una persona e il suo vissuto singolare, come
suggeriva Tolstoj, ma di collocare in una unicità delle relazioni di amicizia,
chiedendo soccorso al “poco” (ma che nel casi Trevi è sempre tantissimo) che lo
stile, il linguaggio e la letteratura possono offrire, ma soprattutto
raccontano in un passaggio privato vs pubblico di qualcosa a metà, tra persona
e personaggio immaginario: è quel personaggio pubblico che è lo scrittore o
l’artista o l’intellettuale.
È riconoscibile a tutti i lettori di Trevi e ognuno lo “sa”
per quella sua esperienza più pubblica può dire, ovvero che nell’indecidibilità
del dittico persona/personaggio troviamo Trevi scrittore di letteratura.
La risonanza di epoca che aleggia nei vari libri, racconta di destini comuni e
lo fa dentro un’architettura delicata, sempre in bilico tra la celebrazione di
un secolo ormai fallito e crollato e l’acuto di una bellezza e vitalità che quel
secolo aveva e a quel secolo ha dato figure intellettuali. Esse sono state di
quelle epoche interpreti prima, non capite cassandre poi, infine vittime. Nel
frattempo essere intellettuali è diventato negli anni in cui Trevi racconta,
una figura ai margini (marginalizzata anche a causa di suoi presunti non sempre
veri privilegi di casta) spinta fuori da una socialità che non ha più bisogno
di intellettuali scrittori, insomma i ‘mediatori’, perché ogni può scrivere da
sé il proprio foto-romanzo su Instagram, ognuno spesso confonde l’innegabile
diritto a poter dire “io” come la unica garanzia di verità e autorevolezza di
quel “dire” (mentre invece conterebbe sempre la competenza, lo studio, la
dedizione, la pratica ecc.)
Per questo Trevi non appartiene a questa deriva del racconto di sé, se
non nella misura in cui si avvicina a chi lo ha fatto inconsapevolmente (Pasolini
e diversamente, nel metodo del suo saggismo, Garboli) e oggi in diversa maniera
(tra i pochi scrittori davvero rappresentativi) Walter Siti e più recente il
Mari di “Leggenda privata” (non è un caso che i due si siano confrontati, certo
da rive opposte, ma pure con parecchi ponti comuni in “Scuola di Demoni” una doppia
intervista di Carlo Mazza Galanti per Minumfax).
Leggenda privata come il Contagio o
Troppi Paradisi sono allora la perenne radiografia
in soggettiva di un paese senza capacità di coscienza e dunque lo scrittore
(tradizionalmente delegato dalla stessa società a rappresentarle e al tempo
stesso correggerla o spiazzarla, farla crescere, da cui il Demone che si fa
maestro, in una pedagogia non lineare) ora
ci parla da una condizione realmente postuma. Insomma, quella che racconta è
una deriva pubblica e quasi politica, del rapporto tra una società e i suoi depositari
di saperi.
Trevi ha strutturato in questi anni una sua strada, nell’uso
della biografia e nel fatto che racconta – di fatto – di amici intellettuali.
Egli eredita e liquida al tempo stesso, mantiene vivo un ruolo e si sottrare ad
esso, lo fa offrendo nel racconto di una formazione letteraria ed esistenziale,
un destino di deformazione e sconfitta, di sparizione, fantasmi. Trevi, in Due
vite e in molte interviste, dice di voler collocare il suo scrivere “tra
critica letteraria e spiritismo” che sono “due arti davvero gemelle, che procedono
dall’assenza a una presenza momentanea, del tutto fittizia ed opinabile”.
Con “Due Vite”,
questo accade in modo diverso dalle rievocazioni di amici, maestri, persone
frequentate e in qualche modo però passate alla storia come erano Garboli o
Rosselli, Betti, Patten, ecc. Qui ci sono due vite interrotte, parallele, una
amicizia di formazione a tre (come non ripensare a Jules e Jim? Di Rocheé/Truffaut).
Trevi costruisce un trittico in realtà
perché stavolta siamo oltre il gioco-dedalus, in cui il ritratto del maestro da
maturo viene fatto come fosse parte di un autoritratto dell’artista da giovane.
Qui in terreno “Jules e Jim” senza l’Eros, Rocco, Emanuele Pia diventano amici,
si frequentano e incontrano a Roma, vanno in gita, scattano foto discutono di letteratura e vita,
passano serate pigre e malinconiche,
stavolta nell’orizzontalità della relazione è come se Trevi giungesse al
capitolo finale di un racconto del 900 letterario italiano visto e condizionato
proprio dalla città, da Roma cornice mai neutra, un secolo che tuttavia si è irrimediabilmente
chiuso, morto con i due amici prematuramente scomparsi e rievocati nella seduta
spiritica del testo ( in un paese che ha affidata a una seduta spiritica, falsa
ma vera, il suo mistero più grande, quello sulla morte di Aldo Moro, mai
svelato).
Rocco e Pia sono poi morti, improvvisamente per incidente e
malattia, morti con dentro una delusione tragica e irrisolta che forse con la
Scrittura Trevi vorrebbe in qualche modo risolvere, restituendo memoria e
rilevanza alle figure intellettuali dei suoi amici, ma la loro importanza è sul
fronte di una condivisione culturale di un secolo, pur ferito a morte dal suo
stesso principio (l’indeterminatezza, la relatività) e figli di guerre che avrebbero
generato una conflittualità mai esaurita. Eppure, scrive Trevi, “nel 900 la
bellezza rappresentava ancora, un’esperienza a lento rilascio, strettamente
individuale, ustionante; una scoperta capace di sconvolgere la vita; capace,
soprattutto, di indicare un altro mondo a chi fosse disposto a credere alle
opere di artisti disposti a loro volta a bruciarsi nella propria materia” Erano
aggiunge lo scrittore “Esseri umani investiti da una vocazione”, sconnessi (e
disconnessi) tra i loro simili, non ancora come oggi, fenomeni da social,
“variabili mercantili della celebrità”.
Naturalmente Trevi qui gioca col fuoco e lo sfida: il fuoco pericoloso è quello della nostalgia restauratrice, della lamentazione da boomer per una superiorità
del passato perduto. Sfida il fuoco nel rischio di sembrare egli stesso
autoproclamato maestro, anche se implicitamente. Tuttavia, sono convinto non sia così,
perché libro dopo libro, Trevi racconta di una in fondo dissolvenza di un mondo e di un fallimento, in cui ciò
che resta a far da bandiera è un rigore delle persone, reali, non tanto del gruppo
o casta, semmai del piccolo gruppo comunitario, che non è rifugio. E in più, però, da questa esperienza resta l'amaro anche della morte che vince - e la seduta spiritica è solo un abile trucco di Ulisse
A questa esperienza di rigore, in ogni caso, era rivolta con Philìa amorosa, la comunità d’anime sconnesse e precarie,
fragili e rabbiose, malinconiche, che erano le tre vite del libro, che alla
fine condividevano questo rigore, che
non era rigidità ma l’abbandonarsi alla domanda e alla fame di vita e di conoscenza (come scriveva in Sogni e Favole,
era tempo in cui di fronte a scene enigmatiche di un film o a quadri o a opere
letterarie complicate, queste “ tutte quelle cose che ti colpivano perché non
le capivi e non le capiva neanche chi le aveva inventate”. Ma se da un lato
Trevi dice “finite per sempre inutile lagnarsi” io credo Trevi stesso scriva
ancora perché attratto da quel voler capire, dalla volontà di sapere).
Era una forma di resistenza e fede in qualcosa di scritto,
principalmente nella letteratura e nella vita stessa, pur essendo già postumi
in vita, tre allievi senza più maestri, ormai morti senza lasciare eredità. Eppure,
per le vite che hanno condivisione questa perdita, non resta solo un lutto, e forse
non resta affatto un lutto, né tanto meno a Trevi il sopravvissuto, ma forse un’umana
fratellanza, orizzontale, che rialimenta la stessa bellezza in chi ha semplicemente
voluto bene a Rocco e Pia, ma come poi, per osmosi da lettura, quel bene è
quello che abbiamo voluto a chiunque abbia avuto questo tipo di significanza per
noi.
La letteratura, i libri, ma prima ancora, in un’antecedenza morale,
il vivere conta, certo. Tuttavia, Trevi che tanto quanto spande amore per la
letteratura, da gran lettore e critico quale è prima ancora che scrittore, sa
pure che la vita è irriducibile alle pagine e questo è parte del dolore
malinconico condiviso con Pia e con Rocco, su due fronti diversi delle loro
ferite.
“Non solo nei libri
ma nella letteratura, non c’è nulla che davvero ci assomigli” scrive a un certo
punto Trevi “Noi stessi non ci assomigliamo e ogni forma di identificazione non
è, in fin dei conti, che il casuale sovrapporsi di ombre fuggitive”. Dunque,
ciò che possiamo portare con noi leggendo di Emanuele Rocco e Pia è un quasi-niente,
una fuggevole inconsistenza ontologica del reale, la sua porosa irrealtà che,
attraverso le favole (il racconto) fa della realtà, della vita, altrui o
nostra, al massimo un sogno ricordato. Questo impalpabile amuleto di parole ci ritroviamo
inaspettatamente in tasca, dopo aver finito “Due vite”. Forse un amuleto
lasciato da uno spirito che non ha voluto lasciarci, dopo la seduta.
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RispondiEliminaMio marito mi ha lasciato per una donna più giovane ed ero devastata. Era come se lo avesse avuto sotto un incantesimo malvagio, Saul si è rivoltato contro di me durante la notte senza alcun preavviso. È successo l'anno scorso, ero disperato, quindi ho usato ogni singolo sito Web di incantesimi che potevo trovare senza risultati. Un amico mi ha mandato dal Dr. Adeleke e l'ho contattato. Ha iniziato a lavorare con me a giugno. Come risultato di tutto il suo meraviglioso lavoro, io e il mio uomo siamo tornati insieme. Sono così felice e privilegiato di avere una persona così grande come te al mio fianco. Grazie! Contatta aoba5019@gmail.com e su whatsapp:+27740386124
RispondiEliminaSono una donna molto povera che non ha sempre trovato fortuna quando si tratta di giocare alla lotteria. Gioco alla lotteria da quando avevo 21 anni e ora ne ho 45, il che significa che gioco alla lotteria da 24 anni. La somma più grande che abbia mai vinto in vita mia è stata di $ 400. Ma un giorno la mia storia diventa storia dopo aver trovato su Internet il nome di quest'uomo che è il migliore quando si tratta di vincere alla lotteria. Quest'uomo è un dottore voodoo molto forte che dà i numeri che non possono mai fallire. Dopo tutti i miei anni di lavoro e lotta per vincere la lotteria, ho finalmente vinto ($ 27 milioni) il nome è la dottoressa Adeleke, ( aoba5019@gmail.com ). oppure contattalo sul suo numero whatsApp (+27740386124) questo è l'unico modo per vincere alla lotteria e il migliore.
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