Ad ogni romanzo, un lettore si chiede sempre perché lo debba leggere oppure, una volta finito, si chiede cosa abbia tratto dal libro, quale conoscenza aggiuntiva della vita abbia fatto. L’ho pensato anche per il nuovo libro di Mario Desiati. Il precedente, il suo migliore (“Candore”, Einaudi) mi era piaciuto moltissimo, forse il miglior ritratto di una solitudine quasi siderale e felliniana del maschile, con il protagonista perso nel regno metafisico dell’ideale d’amore più assoluto che ci sia, la pornografia. Un punto di vista che davvero aggiungeva qualcosa alla discussione pubblica sulle identità di genere.
Con questo nuovo, “Spatriati” Desiati ci porta dentro
un’altra condizione molto trattata dal discorso pubblico: le persone che
cercano una via di fuga dall’Italia o almeno da città di provincia troppo
strette per la loro singolare intelligenza.
I primi a diventare nei primi anni duemila, cervelli in fuga, gli “expat” con termine
inglese, che tradotto in “espatriati” non restituisce il senso del termine
dialettale scelto da Desiati per il titolo, “Spatriati” che esiste da sempre in quelle
contrade tarantine, da ben prima che
iniziasse il lento deflusso di una migrazione intellettuale di parecchi ragazzi
italiani verso l’Europa e non solo, di cui moltissimi dal Sud. Spatriètə,
avverte nell’esergo della seconda parte Desiati, nel dialetto pugliese della sua zona (a stessa del protagonista) significa “Ramingo, senza
meta, interrotto – detto del sonno –“ Insomma ragazzə interrottə, - ma per
dirla con Freud sono persone unheimlich, ovvero familiari, ma come private dal
risucchio di un negativo (il prefisso un-) di questa aura di appartenenza alla
comunità.
Crescono così
Francesco e Claudia a Martina Franca, lui dalla personalità introversa, preso
da una fede religiosa fervida ma dalle pulsioni sessuali incerte, attaccato ai
riti più che credente, forse perché così diverso ( che la stessa madre chiama
“Uva nera” là dove si coltiva solo la bianca) dall’avere un disperato bisogno
di essere accettato. E’ Francesco a tenere la voce narrante e ricostruisce una
storia di formazione assieme a Claudia, con cui intreccia una infinita conversazione
che vorrebbe essere – per lui – amorosa, ma che ottiene come risposta un "no" e al
tempo stesso un allaccio di nodi mai sciolti.
Fanno di un'amicizia una coppia, il sesso è sempre non fondamentale, ma non ha nessuna esclusiva, irrisolta e carica di non detti (come tutti gli amori).
Perché tanto Francesco è
incerto e trattenuto, tanto Claudia è spavalda, sicura di sé sul piano
sessuale, aperta e disinibita. A loro però è toccata una sorte singolare: la
madre di lui è amante del padre di lei. Per quanto siano ribelli in famiglia, e
antagonisti dei loro genitori, si ritrovano a fare comunità inconfessabile
a due perché legati da questo trauma familiare. Tutto il loro destino,
la loro odissea e anche il ritorno, temporaneo o definitivo che sia, sarà fatto nello svolgimento del romanzo, alla luce non di un destino generale (la guerra di Troia, l’esilio di Dante) ma
alla luce un po’ lamentosa degli eterni figli italiani che anziché accettare quando le famiglie (rette su ipocrisie secolari) vanno in pezzi e approfittare della libertà, scavano solchi
come gli islamici durante la Hajj a La Mecca, ruotando attorno alla Kaaba, la
pietra nera: tradotto per quelli come Claudia e Francesco, il buco nero del trauma
familiare.
Avverte la note di copertina con una frase dal libro: “A volte leggiamo i romanzi solo per sapere che qualcuno ci è già passato”.
La mia lettura di uomo adulto arrivato a 57 anni che
tuttavia come tutte le generazioni dai boomer in poi, conserva legami fin
troppo stretti con la sua formazione di gioventù, è di qualcosa di estenuato,
proprio in virtù di quell’eterna figlianza che ci affligge, che dovemmo far esplodere e con essa la
famiglia che – come sostenuto da molti, da Banfield, passando per Laing, per
approdare alla recente, giusta provocazione di Saviano,che non sarà un'autorità come antropologo, rilanciata da Michela
Murgia (idem) ma che molto dicono della nostra mentalità presente e puntano il dito sul legame tra ideologia delal famiglia e mafiosità
italiana.
La mafiosità italiana è molto più forte e diffusa delle Mafie - sono per l’Italia specialmente alla base di
nodi irrisolti del paese e degli individui (a partire dall’emergenza sociale
del maschilismo violento, del maschilismo novax ecc, del patriarcato che pure
sono centrali proprio in questo romanzo, specie nei rapporti di Francesco col
padre machista). L’effetto del libro durante la lettura era dunque, per me, di un déjà-vu,
che rischiava anche di ripetere cliché.
SPATRIATI, SPAESATI, EXPAT
Quando mi chiedevo perché leggere questo romanzo, che in
fondo mi sembra di aver già letto –
storie di formazione, queste amicizie che non sono mai amori, ma sono anche più
dell’amore, le fughe, i sogni le delusioni, c’eravamo tanto amati e compagnia
bella - mi sembrava di non avere un motivo, forse per un certo impianto
tradizionale e generazionale. Salvo poi trovare pietre d’inciampo che mi fanno
pensare. Ad esempio, gli spatriati sono spaesati? (Giorgio Vasta c'aveva scritto un libro, da Laterza sullo spaesamento)
Gli spatriati esistono solo nella provincia, del resto la parola esiste solo in dialetto
(Spatriètə ). La storia di Claudia e Francesco, ragazzini
tra gli anni 80 e 90 che arrivano alla soglia dei vent’anni col nuovo millennio,
è anche la storia di due persone che per quanto piccolo borghesi e benestanti
(lui figlio fi un’infermiera e un professore di educazione fisica, lei di un
medico di ospedale) sono pur sempre due persone cresciute in una cittadina di
50 mila abitanti, non è poco ma non è neppure tanto. Col giro di boa del 2000
crescono anche in un paese che si ripete ma non fa progressi. Credo che
certe vite interrotte (volendo spatriatə significa anche questo) toccate
in sorte come simboli chi è nato dopo il 1970 ed emerse per fatti anche tragici della
storia, dicano di questo freeze: Alfredino, rimasto bambino nel 1981, Carlo
Giuliani, rimasto ragazzo nel 2001 .
LA vita interrotta delle vite giovani, che i decenni di pace
hanno conosciuto, hanno creato quel senso del tempo storico che non va da
nessuna parte. A maggior ragione per chi è entrato giovane nel nuovo millennio.
Sarebbe dovuta diventare la generazione che avrebbe
dovuto portare questo paese da un'altra parte che invece è rimasta ancora a un
Italia amaramente ancorata all’antico, anzi al vecchio. Anche il rinnovamento
della Puglia degli anni Duemila, dell’era Vendola e dell’inizio del turismo di
massa, emerge come una disillusione in Claudia che deciderà, una volta a
Berlino, di non tornare a vivere in
Puglia – ma non smetterà i fare dei
ritoni temporanei. Nonostante ciò, la madre di Claudia come tutte le altre
madri, le onnipresenti Mutter Pugliesi
(peggiori di quelle di Woody Allen ) continuavano a vantarsi dei loro figli
expat, tutti “geni incompresi, dirigenti, capitani, professori universitari,
ricercatori, scrittori artisti piloti, ma il più delle volte disperati come gli
altri”.
Questo legame col materno e con le radici, anche nella
rivolta, come Francesco è legato a sua madre Elisa e Claudia annodata nell’odio
verso Etta, è il segno di un ‘Italia
immobile (L’emblema del gruppo comico Casa Surace, che ne fa comicità ma è
tristissimo questo riportare tutto sempre a misura di una Nonna antica che fa
l’impepata di cozze e manda il pacco da giù) a quella stessa Madre a cui si
richiama Silvio Berlusconi nel prender in mano il paese nel 1994 e lasciarlo
uguale e peggiore nel 2013. Proprio l’arco della vita in
cui Francesco resta attaccato alle radici, ma tutto sommato vale anche la fuga
di Claudia che è un “franare restando in piedi” come scrive Rina Durante in
Malapianta, una delle autrici che Francesco legge sulla scia delle letture di
Claudia insieme ad altre (come Maria Teresa Di Lascia). Tutto sommato il destino generale resta sullo
sfondo, benché la Storia faccia capolino nella vicenda di Claudia e Francesco
come una spia altamente significativa perché la loro storia è dei senza-Storia (1)
La Storia c’è, ma non pesa nei
pensieri di Claudia e Francesco, il loro scontento gira sempre attorno al
privato e alla piccola comunità.
La Storia per loro è come il rumore degli aerei che si levano dalla
base militare di Gioia del Colle, un ronzare di fondo che veniva a “insolentire la
pace” del loro idillio (di due “solitudini perfette, due monadi” tuttavia) sognante,
con le presenze nere e intruse nello sguardo “rivolto al cielo, come a far
respirare le cose che ci eravamo detti”.
A loro interessa
la famiglia e ciò che essi saranno, quella che avranno, anche se avrà qualcosa di diverso (“Siamo alieni” dice
Claudia a Francesco che desiderando non “nascondere le sue fantasie sessuali” agli uomini che
incontra, inevitabilmente tutti non in grado di capire, tutti sbagliati si rassegna sarcasticamente all’amara fiaba simil-Ovidio, fidanzarsi con un asino con cui dare vita a un centauro (sebbene
sia un continuo riportare tutto a casa, alle passeggiate in paese ai formalismi
da matrimonio (“faremo grandi vasche,
finalmente un senso ai corredi conservati un’intera vita”) a testimonianza dell’eterno familismo
(a)morale italiano di cui si diceva.
In un’Italia “ancora bigotta” per citare il libro di Vallauri (Einaudi) alle
soglie del XXI secolo non c’è solo la difficoltà per chi abbia sessualità
fluide come Claudia e Francesco, ma lo stigma morale ancora pesa su due adulti
che decidono di divorziare, come fanno la madre di Francesco e il padre di
Claudia. il moralismo è ovunque, anche nei 15 enni, il maschilismo delle babygang e dei fiancheggiatori maschi teen è davanti agli occhi di tutti quelli che vogliono vedere. (I fatti di Capodanno a Roma, quelli di Milano)
Questo stigma sociale, è un ritorno del rimosso anche nei
figli ribelli, perché in fondo il loro doloro e il loro disagio di strani,
parte da qui. Subiscono lo stigma, ma al tempo stesso c’è un ambiguo sentimento
di avversione per quei genitori, in fondo liberi come loro.
Il trauma sta alla base del loro sviare sociale, rendendo impossibile
una loro normalità e la tempo stesso annodando il legame tra i due figli.
Desiati si preoccupa, forse con troppa
insistenza didascalica – si segnalare come il padre di Francesco galleggi nel
brodo patriarcale e lo stesso ragazzo si definisca un “maschio codardo” che “
si innamora e indossa l’armatura del salvatore e la sostanza del predatore”)
Toccherà a Claudia provare a rompere la stasi, partendo
verso Berlino. Qui subirà una metamorfosi e al tempo stesso si scontrerà con la
realtà. Quando Francesco la raggiunge a Berlino, ancora una volta è la Storia
ad accompagnare l’intreccio dei due protagonisti . Stavolta sono i Siriani che
nel 2015 si diressero piedi verso la
Germania, fuggendo dalla guerra. Francesco li osserva con una “Ruinenlust”
(come dal titolo del capitolo) mentre
lascia finalmente Martina Franca. Qui era rimasto, a fare l’immobiliarista,
venditore di case eterne e “abbandonate” aggredite dalle “radici”, le
famigerate radici italiche che crescevano tra le pietre delle vecchie case
“come piante carnivore” contrapposte alla sbalorditiva quantità “ di alberi e
vegetazione” che sono a Berlino e che stupiscono Claudia.
Francesco e Claudia poi
a Berlino insieme, Claudia nella sua metamorfosi da adepta dei Rave e della Techno,
a lavoratrice che non sfugge anche qui alla precarietà. Francesco ad assaporare
finalmente una libertà dal contesto soffocante.
Il loro incontro è segnato ancora da una parola tedesca
SEHNSUCHT
significativamente Desiati usa prima solo dialettali, poi termini tedeschi, come chiavi di volta e titoli. Come se l’Italiano non permettesse chiavi di interpretazione, come se la lingua italiana non fosse in grado, malata dello stesso immobilismo imposto ai romanzi dalla medietas letteraria imperante, di spiegare le polarità sentimentali di una condizione fluida, inafferrabile indecidibile come l’identità sessuale di Francesco e Claudia, come il senso della loro relazione).
La parola è Sehnsucht che – spiega la nota del titolo – è termine composto, che
si può tradurre come nostalgia di un desiderio non realizzato o non
realizzabile, ma anche al sogno di dualismo simmetrico di maschile e femminile
che Claudia e Francesco cercano. Ancora una volta, nel turbinio di vita
sregolata e giovane (“avevamo quindici al massimo sedici anni”) sradicata, il
conflitto è sulle radici, sull’idea che non bisogna “affrontare tutto come fossimo
pietra” dice Claudia mentre Francesco è legato alle pietre, alla roba, agli
interessi e Claudia lo spinge verso la cura, il “volersi bene anche se non ci
siamo trovati”. Francesco tuttavia vede che anche Berlino è una città di
rovine, di speculazione immobiliare fatta su vecchie case abbandonate. La Storia
insomma sembra segnare la stasi generale, forse una stasi e un arresto vitale
di tutta l’Europa, in cui – sottolinea amaro Francesco – “eravamo liberi di
muoverci dentro un recinto”
A Claudia e Francesco, che vivono qui finalmente una fusione che tuttavia passa per altri corpi, come quello di un giovane gay Andria, georgiano, che diventerà amante di entrambi per poco tempo, non resta che questa dimensione solo spaziale di un tempo in cui non possono essere perché il compimento della loro Sehnsucht si è data in un momento.
O come sarà per la
nuova relazione di Claudia con la più giovane Erika che avrà un bambino da
chissà chi e che avrà due madri, legalmente (utopia neo-biologica
come nel romanzo di Veronesi a cui Spatriati è piaciuto molto).
Nei baci scambiati finalmente
da Claudia e Francesco attraverso la
bocca di Andria, dice Claudia baciavamo “tutto quello che eravamo e che non
siamo più”. Nel costruire un futuro per la piccola Elfo, c’è un gettare semi di
futuro e produrranno le olive che un giorno Elfo adulta andrà a
raccogliere nel terreno che Francesco, tornato a Martina Franca e reintegrato nella confraternita, nei riti religiosi
ma più sociali, del branco (i maschi che portano in processione il santo) alla disfida d’amore col padre (tutto il romanzo è un essere gettati fuori degli
spatriati, ma al tempo stesso attratti come un magnete al patriarcato dei padri
così disperatamente amati anche nell’odio).
Tornato a casa, ha piantato una dozzina di Ulivi
che saranno “la nuova vita” che
assomiglia alla vita fatta Berlino, “allattando le pietre con la calce”. C’è l’odio, c’è l’interesse, ma non c’è la
parola “amore” nel vocabolario delle
loro radici, nel dialetto come nella pratica, ma c’è un bene antico e
modernissimo che fa combaciare la saggezza del volersi bene ( "voletev' bunn” dei nonni, con
l’agape comunitario, vedi Jennifer Guerra) che si era creata ad esempio sull’asse
femminile a Berlino tra Erika Claudia e la madre di Francesco.
Tutte sono Piante che alla fine trovano il loro frutto,
assecondando una pazienza antica degli avi, che alla fine non è un sentimento sublime
e romantico, ma solo “una forma di umanità”.
Magari sono Ulivi come Ginestre, chissà.
E tuttavia saranno sempre
insoddisfatti, Francesco del suo ritorno, benché armato dal desiderio di
sabotare quel sistema patriarcale in cui – sfilando in processione coi maschi
che portano i santi – egli si consegna; Claudia non convinta della sua vita berlinese,
pure col successo in affari ma consapevole che Erika “somiglia al tempo che
viviamo, che sottovaluta i semi della
poesia, sottovaluta l’intreccio delle nostre radici, sottovaluta il mondo
interiore suo e di nostra figlia”. Erika che si preoccupa del fatto che Claudia
legga poesie alla piccola Elfo, perché potrebbe trasformarla in una broken
girl. Un Spatriatə.
Restano allo stesso modo indietro i nodi della psiche
irrisolti, un senso di inseguimento e fuga al tempo stesso del dolore, un senso
di crollo della famiglia, con quei genitori che sembrano sempre vincenti, che
superano i loro stessi non ostanti i disastri, degli affetti che non sono
andati come dovevano essere, ma al tempo stesso quel che "dovevano essere" non è
ciò che Claudia e Francesco desideravano davvero.
Volevano un amore che è
sembrato impossibile. Ma non sta né nel futuro, né nel passato: “Amore” – e il cerchio si chiude sul dialetto che offre un exit strategy, ma chissà se praticabile.
Amore va
inteso non come il sentimento della coppia monogamica tradizionale né il sentimento
che ossessiona la psicologica collettiva dei magazine e di certa editoria
destinata al pubblico femminile: il
dialetto infatti insegna a Francesco che l’amore non esiste, ma la parola
“amore” nel dialetto esisteva solo come “sapore” come nutrimento e cura e solo
in quel gesto di dare i sapori del nutrimento sta una varco possibile, un
diverso amore, più come cura. Tra l’antico e il post-storia, è la
consapevolezza d’essere sempre spatriati finalmente dalla loro stessa
dipendenza psicologica, dall’illusione
dell’amore e dalle ipocrisie della famiglia, questa la vera conquista. Sapore di sale?
Desiati tiene il suo racconto, dentro questo quadro in cui
per certi aspetti come lettore non c’è quella sperimentazione che aveva provato
a fare proprio Sandro Veronesi con Colibrì. I personaggi sono cesellati, descrive bene quell’ansia
da radici impossibili e inestirpabili che imbriglia soprattutto Francesco e che
Claudia cerca sempre di liberare non comprendendo quanto anche ella sia legata a
quel mondo attraverso Francesco. Mario Desiati da conto dell'incertezza e della
precarietà una precarietà esistenziale non
soltanto sociale che forse è proprio legata a questo trapasso
dall’antico al moderno che non si compie mai a creare una zona grigia di non-emancipazione
in cui è la famiglia il vero grande problema insuperato, la Fortezza che ci tiene imprigionati.
Sia Claudia che Francesco sono imprigionati
in questa in questa loro identità, nonostante tutto Patria, lo testimonia il
fatto che la loro estraneità la può dire solo un termine dialettale, che li identifica
come tali, Cioè quindi come degli
irregolari ma sempre nella lingua patriarcale. Claudia e Francesco come
l’unicorno sognato non hanno nome, se non quello e finche non ne avranno un
altro non avranno altra cittadinanza negativa all'infuori di quello. Cosa li farà uscire
dal nido? Forse la Storia?
Veronesi, Colibri - la storia di colibrì, anche se poi
Paradossalmente il colibrì getta nel finale del romanzo avanti la sua
prospettiva anche temporalmente, per Francesco e Claudia c’è già una nuova nostalgia di radici, c’è
“lassù” che è Berlino, come per molti meridionali al contrario il laggiù del
mare.
A me sembra che questa sia un delle eredità che mi lascia da lettore “Spatriati”:
capire il dolore di chi, venendo generazionalmente dopo la mia generazione di
boomer (io nato a metà anni 60) sa che non c’è nessuna prospettiva di futuro e che
l’unica possibilità e fare come Erika, essere superficiali.
Il Colibri di Veronesi che invece è più grande, segnato dalla macina di una storia collettiva di progresso, gli anni 50 e 60 della
sua infanzia, conserva una seppur romantica nostalgia dell’utopia, del possibile.
Un senso del futuro. Istintivo di specie, biopolitico.
Claudio e
Francesco volevano solo una felicità del "qui e ora", ma per loro non c’è alcun
“qui” e l’ora è sempre un rimpianto di atti mancati e un vivere id sottintesi,
come la poesia. Claudia e Francesco più liberi e col mondo a portata di mano, finiscono
per ritrovarsi al paesello, davanti a un piatto di spaghetti e nel loro microcosmo, heimat
di un'energia irrisolta tra loro, a quarant'anni già peggio di noi boomer, a rivivere un ‘infanzia, quel gioco tra loro quando “ il resto del mondo è escluso”.
Anche se il mondo si fa sentire coi suoi rombi
di caccia levati in volo dalla base vicina, l’unica patria è fuori dal tempo delle guerre, certo,
ma restando anche fuori dalla Storia.
PS marzo 2022, i rombi sempre più presenti chiedono una risposta, che non sia "pace tra gli ulivi"
1 (cresciuta
all’ombra di Berlusconi che agisce su
quella generazione nella doppia veste di editore e politico. La modernità
arriva con la televisione e le radio in quegli anni (Radio Deejay) anche nei
paesi che stanno subendo la spoliazione
stanndo diventando i luoghi spatriatə d’Italia. ( vedi Franco Arminio, vedi
anche Carmen Pellegrino, che ne cercano ancora l’anima, ma che io trovo
invece i luoghi-pozzo nero di una sopravvivenza dell’arcaico – vedi il
romanzo di Lipperini – ma anche con quel
desiderio di essere metropolitani da marginali che ha il pozzo nero di questo
paese (vedi i romanzi storicamente anticipatori di Andrea Carraro (dal Branco e
non ssolo) e poi quelli di Ammaniti, specie Come dio comanda per arrivare fino
alla Ferocia di Lagioia che non a caso porta nella suburbia periferica di Roma
il suo radar di narratore)
Sono una donna molto povera che non ha sempre trovato fortuna quando si tratta di giocare alla lotteria. Gioco alla lotteria da quando avevo 21 anni e ora ne ho 45, il che significa che gioco alla lotteria da 24 anni. La somma più grande che abbia mai vinto in vita mia è stata di $ 400. Ma un giorno la mia storia diventa storia dopo aver trovato su Internet il nome di quest'uomo che è il migliore quando si tratta di vincere alla lotteria. Quest'uomo è un dottore voodoo molto forte che dà i numeri che non possono mai fallire. Dopo tutti i miei anni di lavoro e lotta per vincere la lotteria, ho finalmente vinto ($ 27 milioni) il nome è la dottoressa Adeleke, ( aoba5019@gmail.com ). oppure contattalo sul suo numero whatsApp (+27740386124) questo è l'unico modo per vincere alla lotteria e il migliore.
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