Leggo da sempre con grande piacere i libri di Alessandra Sarchi, di cui ho stima che va al di là della letteratura, che pure non è poca cosa. L’ho conosciuta già che era una scrittrice bravissima, quindi la conoscenza non c’entra se ora parlo e consiglio la nuova raccolta di racconti “Via da qui” edita da Minimum fax, quel che ha fatto negli anni Sarchi è stato mantenere sempre alto il suo livello di scrittura.
Alessandra possiede ciò che conta quando si scrive letteratura, lo stile. Dovendo scegliere degli aggettivi, sempre limitanti, potrei dire: Sarchi ha una scrittura essenziale senza che ciò significhi scarno o men che meno minimale. Si ha sempre un lascito, leggendo i suoi libri, che ciò che è scritto sia giusto, sia la cosa giusta da dire in quella situazione narrata, anche qui senza che la “giustezza” esprima un soverchiare di principi, pur mantenendo viva una forte tensione morale (va da sé mai moralista). Ne dava prova in romanzi (su tutti il bellissimo “L’amore normale” o il “Il dono di Antonia” ) in cui si incrociano proprio snodi di un vissuto che si misura con situazioni in cui la “normalità” viene messa alla prova del non conforme che cerca voce e chiede spazio. Sarchi sa dare alle sue storie e ai suoi personaggi tutto ciò. Qualità che si ritrova nei quattro racconti che compongono il nuovo libro “Via da qui”.
C’è un condensato di temi del nostro tempo che scorrono
tuttavia nel naturale flusso del racconto. Ne “La tana” in cui Monica, giovane
donna che perde la compagna in un incidente, si trova di fronte alla questione
del possibile espianto dei suoi organi : ma chi decide? Chi riconosce
quell’amore? E si apre una voragine nel non detto sociale e familiare, ma la
relazione stessa con Evelyn era nata nei silenzi, nell’implicito di una difficoltà anche di
Monica e Evelyn di poter far seguire fragili definizioni a una relazione che
era evidente alle due donne. L’amore era nato da “un improvviso strappo
della coscienza”. Evelyn l’aveva
“toccata”, lei, proprio lei. Era un amore senza definizione che si nutriva
della presenza della vita (il brusio sotto casa, il rumore del frigorifero, lo
strofinio dei pennelli durante la ristrutturazione della loro casa, “la tana”
appunto). E’ in questa capacità di collocare anche il tremendo
nell’insignificanza che permette a Sarchi di lavorare sull’attrito della vita,
dando ai personaggi la capacità di esprimere senza espressionismo. Siamo pieni
di libri sul dolore e i travagli dell’esistere, narrati strappandosi le vesti.
Una catarsi a buon mercato. Sarchi percorre altre vie. Così Monica, tornando
nella casa senza la compagna, sente la spinta a “strappare tutti i vestiti” come
rito privato del lutto, ma poi punta su altro: condividere quella perdita con
la famiglia di Evelyn. La vita non è ricordare, ma rifondare, è sempre uno
strappo che porta via dal “qui”. Ma via dove? E se non si può che rimanere in
quella casa, ora senza l’amata?
E se si è costretti a un ritorno? Le memorie rischiano di impantanarti. Così in “L’argine” il ritorno di Ines dopo il fallimento del suo matrimonio ventennale in America nei luoghi della sua infanzia ritrova la sorella Rossella a sua volta alle prese con la precarietà di una vita post-matrimonio insieme ai due figli, nel territorio lungo il Po dove però questo ritorno cerca lo spazio – e la casa da acquistare – che sia nuova vita, liberata dalle nostalgie. Si può tornare e al tempo stesso andare via da quel luogo per ciò che è stato? Sarchi conduce questo contrappunto anche facendo della precisione delle parole un elemento narrativo per Ines che deve in qualche modo imparare di nuovo a parlare la sua lingua, così come lo stesso sarà per il diario della figlia adolescente di Rossella, Giorgia: a quel ritrovarsi delle sorelle, che non sono più le stesse, alla “fantasia” del ritorno di Ines, Giorgia sovrappone le meraviglie (sempre le stesse, certo, ma la meraviglia di chi scopre il mondo è sempre nuova) e sarà proprio il suo ‘racconto nel racconto’ ciò che rompe lo schermo di irrealtà che impantana Ines. Sarà proprio Giorgia a “inventare un finale” ( a differenza di quel che sente Claudio, un ex di Ines ora dirigente del comune a qui la donna va a chiedere informazioni sulle case dell’argine e che ripensa a quel ritrovarsi di fronte Ines come una fantasia senza sbocco) permettendo a Ines di poter finalmente dire cosa prova in quel suo ritorno. Viviamo un’epoca che fatica a ridefinire i nostri sentimenti. Sarchi lavora su questo ‘non-detto’ della fatica di trovare le parole (lo è anche per Ines che deve imparare di nuovo a praticare con l’italiano). I personaggi di questi racconti sono sempre in quel bilico instabile tra possibilità di mutamento e sconfitte. C’è sempre una casa (da ristrutturare, o che i protagonisti non hanno pur abitando in un “palazzo della principessa, come nel racconto che ha questo titolo) ma è essa stessa fluttuante. Chi le abita sta sospeso, precario, o su un fondo limaccioso pur avendo una terrazza sulla storia: è quella degli amici che si ritrovano dopo molto tempo per una cena, a Venezia, alle Fondamenta della Misericordia, titolo significativo. Come negli altri racconti la casa qui è costante di trasformazioni, dove hanno abitato a rotazione alcuni di loro, dal tempo in cui erano studenti. Ora dopo molti anni è invece tempo di bilanci, per le coppie, per ognuno di loro in lotta per i destini individuali. L’imminenza di qualcosa di rovinoso, che divora (la casa che per il turismo potrebbe essere venduta, l’insegnamento non è più quello di una volta, la carriera, i desideri di figli, nuova vita ecc). LA scoperta per loro è le vite alle spalle non sono mai state salde nei fondamenti: Marta che pure ha in Silvia una vecchia amica confidente, si rende conto che delle cose importanti, nei loro quotidiano scambi di mail non scrivono – il giorno che aveva pensato al divorzio si era detta “adesso scrivo a Marta e poi si era ritrovata a darsi della cretina davanti allo schermo del computer. Non c’era proprio niente da scrivere.” Sarchi lavora a dire tutti i non detti dei suoi personaggi, lasciandolo però emergere ugualmente da movimenti di cose, di sguardi, di gesti che sembrano incarnare quel silenzio svelandolo poi con poche precise parole, che restano non dette, o affidate al loro monologo interiore. Così Silvia commentando la stanchezza irritata di Marta verso suo marito le dice: “Dovresti prenderti un periodi stacco” ma la cosa importante la tiene per sé: “ Silvia, rimuginava tra sé e sé: eppure non dovrebbe succedere. Dovremmo trattare tutti quanti con più intelligenza l’amore, dovremmo impedirci di farne la poltrona logora su cui ogni giorno ci sediamo”.
Come le sorelle de “L’argine”, anche
questi adulti sembrano immobili e fragili, avvolti in una solitudine troppo affollata
di trame di pensieri, in perenni lotte: lavoro, amori, procreare. Come la
coppia del palazzo della principessa, sul confine tra una vita di successo e
una povertà di senzatetto. Tutto sembra
sul punto di cedere come l’altana su cui sono, sui tetti di Venezia. Per Dario
l’ultimo ricordo di quella terrazza di legno, racconta, è legato agli anni di
università, ma pure della guerra del Kosovo: “Aerei militari carichi di missili
ci volavano sopra” dice agli amici. Pubblicati nel febbraio 2022 i racconti
“Via di qui” incrociano dopo trent’anni ancora una guerra. Quel piccolo gruppo di amici potremmo essere
noi o “l’umana compagnia” della Ginestra di Leopardi: di fronte alla sconfitta,
alla rovina a cui siamo destinati, ci si può fare solo l’un l’altro testimoni
solidali d’essere stati in vita, sebbene sia stata piena di possibilità mancate.
O scomparse, come le stelle che gli amici sull’altana ora cercano invano,
nell’illusione di ancorare ad esse ciò che resta dei loro desideri.
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