Nelle ultime righe de “l’Odore del sangue” (precisamente nell’appendice del romanzo) Goffredo Parise porta la voce narrante, lo psicoanalista Filippo, al punto estremo della sua vicenda: dopo aver sepolto la moglie, uccisa come epilogo tragico della relazione erotica con un giovane amante, ragazzo rozzo e fascista ( iniziata da lei con la complicità ambivalente di lui) Filippo si aggira per Roma, a Piazza del Popolo ed esplora la notte.
Il punto estremo è allora la violenza diffusa, più che quella particolare di un singolo omicidio che pure lo ha toccato tragicamente. La violenza particolare è parte di un destino storico.
La piazza è il “ritrovo
dei giovani borghesi” e – dice ancora Filippo con una visione che è del Parise
di quegli anni, mutata dopo la morte di Pasolini e da lui “ereditata”[1] - anche la
piazza dei fascisti dove parlava Almirante. Non solo: il protagonista del
romanzo di Parise incrociando nella notte un gruppo di quei ragazzi “borghesi
travestiti da borgatari” che forse sono il contrario, proletari con apparenze
dei modi con cui i borghesi si travestono da poveracci, li inchioda a una
visione :
“(..) ragazzi
in giubbotti di cuoio che sfrecciavano rombando in
motocicletta. Eccoli, erano loro, i giustizieri della notte, quelli che avevano
assassinato Pasolini, quelli che avevano stuprato le ragazze del Circeo, quelli
che avevano bruciato un somalo dormiente su un letto di cartoni, “per scherzo”.
Intravedevo le loro facce, anche nella velocità della corsa. Parevano facce americane,
alcune bionde e butterate, altre nere dai capelli ricci, di arabi americanizzati. Erano, nella loro
anonima e meccanica criminalità, le facce di Roma. Dei figli della borghesia o
delle borgate di Roma, la stessa cosa: entrambi vestiti allo stesso modo, entrambi
con fattezze di tipo americano e criminoide con appena una punta di quella vanità
e brutalità mediterranea e romana che si vede appunto a Roma.”
Tutti
immersi nella cultura del consumo, della superficialità del benessere e al
tempo stesso “criminoidi”. Parise esprime una visione tragica della società
italiana al culmine del suo cambiamento modernizzante: non serve molto
distinguere, dice Filippo, è da quel milieu di che è nato l’omicidio della
moglie, come la strage del Circeo o la morte di Pasolini e quei ragazzi sono
tutti (borghesi e proletari) la stessa “faccia di Roma”, città (e paese) che nel 1979 Parise percepisce come cambiato, violento, superficiale, corrotto dai consumi e senza redenzione (dopo decenni di stragi, la
violenza politica, il rapimento Moro ma anche l’esplosione id criminalità con
protagonista la banda della Magliana)
Il nuovo romanzo di Andrea Tarabbia “Il continente bianco” (BB) è un romanzo che se da una lato sembra usare i capisaldi del postmoderno (la citazione) non lo è, ani ne vuole essere il superamento.
Infatti Tarabbia ha deciso di usare come calco esplicito proprio “L’odore del sangue” di Goffredo Parise.
Uno psiconalista cinquantenne, con una moglie molto bella , Silvia, con la quale non ha rapporti, se non contorti, mentali, aperti alla sperimentazione. Silvia si invaghisce, anzi meglio è presa da una vera ossessione erotica per un ragazzo, tipico giovane del suo tempo ma anche fascista. QUesta passione della donna che il marito vuole condividere diventarà sempre più avvitata su sé stessa, fino al punto di sfociare in violenza tragica. Ci sono però delle differenze, più avanti le vedremo.
Mi preme intanto dire subito che Tarabbia sceglie questa via del ricalco, per raccontare qualcosa di inedito, nuovo e profondo che attraversa il nostro paese e che – questo sì – sembra affondare ancora in questioni non risolte dei decenni passati e per portarlo nella “scena” del testo facendo deflagrare la realtà nelle contraddizioni dell’essere “autore” e personaggio (in qualche modo usando l’autofiction ma facendola girare a vuoto).
Sullo sfondo
c’è una Roma contemporanea in cui, in modo parallelo a quello di Parise, forse si è compiuto un (ulteriore) trauma di “non ritorno” storico e sociale, esprimendo
più che l’identità di una singola città ( difficile ormai da determinare in un
mondo metropolitano globale) la crisi di
tutta una società italiana e insieme occidentale. Una crisi che si è generata
nei primi anni Duemila a cui è seguita una risposta di rancore individuale, una
“sindrome unabomber” o nella fine dell’individualismo, nella solitudine[2]
delle persone come schegge disperse, nell’era che è al tempo stesso globale ma
anche “era del singolo”[3]
in una massa pulviscolare senza più né grandi narrazioni né identità
individuali di massa, con un gran bisogno e nostalgia di comunità (specie i boomer) e che – a fronte di
alcuni casi effettivamente di rabbia violenta e nella sfera personale che si origina
dalla crisi sciale (lo raccontano i libri di Didier Eribon e Eduard Louis per
la Francia[4]
utili per capire sentimenti profondi che stanno dietro l’ondata populista dei
Gilet Gialli) ha espresso
sostanzialmente un rancore diffuso, piuttosto indistinto (verso entità globali,
personaggi della finanza, istituzioni, ogni tipo di personalità, oltre i
politici ovviamente) che si è poi in parte riversato nel consenso alle forze
populiste e ora di destra populista.
La decisione di Tarabbia di raccontare questo nucleo magmatico e oscuro della società (e anche di una città ) passa dunque attraverso la dichiarata “riscrittura a memoria” de “L’odore del sangue”, così definita nella nota finale dove si esplicitano anche altre citazioni da altri autori[5]. L’impianto fondante della storia, però, è quello del romanzo scritto da Parise nel 1979. Paradossalmente (come in certe opere teatrali di Milo Rau) evidenziare la meta-letterarietà lascia accadere la realtà stessa, il suo duro nucleo di un Urlo dilaniante, di una ferita sociale mutata in richiesta di riscatto ma anche propensione a una forma di odio, aggressività, rancore e qualche volta violenza diffusa (se le violenze in piazza sono minime, l’odio in rete è invece di massa e va classificato in quel desiderio di sabotaggio di ogni valore come ipocrita, di luddismo etico diffusissimo) che ha un suo nucleo gassoso, instabile, fluttuante nel maschilismo e insieme nel doloroso senso di decadenza di intere generazioni di maschi che stanno reagendo spesso come animali morenti e feriti.
Sopravvivono, specie in Italia, ad aggravare la situazione, anche culture autoritarie e ferite irrisolte di una storia italiana di
più generazioni e Tarabbia usa proprio
la letteratura per ripercorrere una storia. Cose se la letteratura fosse un versante immaginifico, psicologico, paludoso di una storiografia.
E per evitare di scrivere un libro “alla Parise” ha deciso di ricalcarlo, esplicitamente, di usare l’architettura diegetica dell' OdS proprio per riallacciare i fili con i
tempi storici che Parise affrontava e sviscerava e - prima di lui - aveva affrontato come è noto, soprattutto Pasolini.
Nell'analizzare il romanzo d Tarabbia dobbiamo compiere un digressione proprio nello strano rapporto tra i due autori. Potremmo qui dire, che era proprio Pasolini l'autore che a sua volta Parise “riscrive” ricoalca o meglio continua a scrivere
al suo posto, a stretto giro, dopo la morte in questo romanzo che scritto nel 1979 lo scrittore
vicentino decise di tenere non pubblicato fino alla morte (uscì poi da Rizzoli
nel 1986).
Restiamo ancora un momento su Parise. Dal manoscritto de “L’odore del sangue”, scrive Garboli, sappiamo che Parise non cambiò di molto il testo scritto di getto nell’79, in un anno in cui si veniva dopo il rapimento Moro ma anche dopo il massacro del Circeo, e dopo una violenza diffusa, quella rivendicata dalla massa giovanile del movimento ’77, oltre che da un’ondata di criminalità anche questa radicata nei luoghi (la Roma della banda della Magliana, la Milano della mala ecc.).
Sappiamo che in seguito, tenendo presso sé il manoscritto, fu molto colpito dall’omicidio della storica dell’arte Francesca Alinovi nel 1983, vittima di quello che oggi chiameremmo “femminicidio” e maturato in un clima molto diverso dalla violenza politica, era la violenza del privato” che tuttavia aveva una radice politica.
Tornando al confronto tra Tarabbia e Parise, invece notiamo che una delle differenze
tra CB e OdS sta nella gabbia narrativa della riscrittura. Se in Parise a
narrare è Filippo in prima persona, Tarabbia mette in scena anche sé stesso,
come paziente dello psicoanalista che
nel romanzo di Tarabbia diventa “P.” ( un’iniziale non casuale) e sdoppiandosi
in personaggio col suo proprio nome e cognome.
Tarabbia si fa Tarabbia-personaggio (come lo definiremo da ora in poi) che di mestiere fa lo scrittore dei romanzi
che realmente ha scritto Tarabbia, adottando il trucco dell’autofiction, anche se
si mescolano cose vere e cose non vere. Mettere in scena sé stesso affida un
compito alla storia narrata, mostrando innanzitutto il profondo coinvolgimento
nelle cose della realtà, superandola anche quando Tarabbia-personaggio non è
solo l’autore della storia, ma partecipa ad azioni violente col gruppo di
neofascisti tra cui pestaggi di immigrati, incendi di campi rom. Silvia ha inoltre più autonomia di azione, è una donna sicuramente più emancipata, ma anche più aperta a un rischio più folle, nel gioco di obbedienza erotica verso Marcello.
Anche il dottor “P.” rompendo in modo clamoroso il set dell’analisi, permette
al narratore di essere a conoscenza della storia del suo rapporto con la moglie
Silvia (dunque nella prima parte è il medico ad essere narratore) e si fida
quando confessa allo scrittore il rapporto di coppia aperta tra lui e la moglie,
con lei racconta a P. il sesso fatto con Marcello giovane neofascista, il
dottore – che spesso è assente – quelli
per una donna più giovane che vive in Veneto (elemento biografico di Parise, sempre più si
può pensare che l’inziale P. stia per lui, dando un effetto di labirinto
metaletterario, anche considerando che in una lettera a Giosetta Fioroni,
Parise scriveva “se fossi diverso, sarei
andato da uno psicoanalista per liberarmi delle mie ossessioni, me ne sono
liberato scrivendo”).
C’è inoltre una differenza tra Parise e
Tarabbia: quello di Parise è alla fine un romanzo più chiuso nel rapporto tra
marito e moglie, che scava in pulsioni psichiche e fantasie profonde, è un
“romanzo del “Fallo” (definizione di Garboli nella introduzione del 1986), o fallocentrico, un romanzo di un maschio che
si misura con i propri limiti (apre la coppia, poi è geloso, ossessivo), il tormento
intellettuale di un individuo colto e borghese falsamente disinibito, come
illustra Garboli.
Quello di Tarabbia (ed è il motivo per cui mi sembra un
romanzo importante che va al di là della ripresa meta-romanzesca) affronta il campo più aperto della politica e dell'antropologia sociale, affronta la questione del maschilismo raccontando un
universo mentalità patriarcale che sopravvive in ragazzi giovani e lo lega alle
scelte politiche, al consenso politico e alle simpatie autoritarie diffuse (al
di là del consenso ampio per la destra in Italia che poi è esploso dopo l’uscita
del libro, ma a mio avviso – anche se faccio una forzatura – confermandone le
intuizioni e le tesi).
Questa saldatura psichica tra il
precipizio identitario sessuale maschile nella singolarità di uno sciami di
singoli dispersi e il desiderio di una identità forte etnica e politica, comunitaria
è il tema centrale dell’Occidente e per l’Italia in particolare, che ha connessioni
con vari passaggi di un secolo che si è aperto con la Prima Guerra Mondiale ed
è ancora in corso dopo le crisi economiche degli anni 2000, il populismo, la mentalità
antisistema che ora sembra aver trovato anche uno sbocco istituzionale e
consenso, è in qualche mondo lo sfondo del romanzo “Il continente bianco” (in
cui uno dei personaggi chiave, Ubu, ancora orienta le sue scelte grazie al
fatto che il nonno lo ha fatto crescere fin da bambino mostrandogli la
fotografia degli appesi a Piazzale Loreto al contrario, come se fossero esultanti
) .
Questo recupero storicizzante è implicito nel modo in cui Tarabbia riscrive Parise, ovvero riannodando i fili impliciti di questo libro che legano fortemente Parise a Pasolini. Forse è questo il nodo che cerca di ricomporre Tarabbia, in fondo riandando al famoso binomio dello slogan "il privato è politico".
Tarabbia fa in modo di sviluppare la sua visione assolutamente originale contemporanea, ma certo in qualche modo idealmente riconnettendo, ricomponendo il discorso
di Parise che completa quello di Pasolini, come del resto era nelle intenzioni dello scrittore vicentino [6].
Dietro quella violenza non organizzata ma spontanea, c’era già un preludio di individualismo e
infatti Parise se intercetta questa onda del riflusso (ma non la cita) ne
prendeva l’aspetto strettamente individuale più che collettivo.[7]
Mi colpisce inoltre la frase che scrive Parise e fa dire al suo
Narratore-Marito dopo l’omicidio della moglie, alla fine del libro: “Non si
seppe chi aveva ucciso Silvia ma io sapevo che il vero mandante ero io stesso”.
E’ evidente, mi sembra, un calco dell’ “Io so” di Pasolini, in cui il colpevole,
a differenza di quelli muti e ignoti di una qualche oligarchia, invisibile, di
Pasolini, qui parla in prima persona e dice “io sono”, oltre che “io so”, ammette le responsabilità, che Parise fa
pronunciare al suo narratore alla soglia degli anni ’80, una frase che prelude all’individualismo e al
privato che marcò quel decennio (pur non riducibile tutto a quello) e che
Pasolini aveva profetizzato quando ripeteva il concetto di omologazione.
E' come se in Tarabbia si dispegasse la paralbola di un fascismo maschilista e fallocentrico, dagli anni 70, attraverso una cultura sociale del consumismo praticata nei decenni a seguire, 80 e 90, è approdata dopo un estensione del dominio del berlusconismo (altro fallocentrico autocrate) e poi al populismo (a grande dominanza maschile adulta, boomer - Grillo - con un passaggio poi alla destra più radicale. E' in Tarabbia che mi sembra venir fuori il legame che univa i due scrittori degli anni 60 e 70. non a caso dopo la morte di Pasolini, la distanza tra i due è cancellata da Parise, in una adesione e prosecuzione quasi ossessiva, delle medesime battaglie culturali, come è ben dimostrato in un saggio recente di Gianluigi Simonetti.[8]
Insomma Possiamo dire che forse Tarabbia lavora, intenzionalmente o meno, da
scrittore ripercorrendo la drammaturgia di Parise ma immergendola nel presente una ripresa di una discussione che non è mai
morta perché – come possiamo toccare con mano intorno a noi – è viva e
attualissima, non tanto e non solo per il “mistero” sull’omicidio di Pasolini [9]
ma perché non c’è ancora chiarezza su dove affondi questo desiderio di violenza
che è una forma del desiderio.
Nel romanzo di Tarabbia la storia, dopo un inizio più rallentato per preparare
tutti gli incontri e il meccanismo della narrazione, deflagra scoprendo il magma della violenza organizzata
che sta dietro Marcello e va più spedita quando il personaggio-Tarabbia decide
di seguire Marcello, di capire cosa sia il Continente Bianco, l’organizzazione
neofascista che porta questo nome di cui Marcello è capo, e di partecipare alle
loro azioni. Tarabbia non è solo l’autore che ha firmato il contratto con Bollati
Boringhieri per il romanzo che leggiamo, ma in qualche modo viene incaricato
dallo stesso Marcello di essere autore della storia del Continente bianco,
scrivere la storia dell’associazione clandestina, di storicizzarla seguendone
le gesta.
Qui però avviene un salto, interessante quasi teatrale, nel sovrapporre i piani (la modalità di sequenza lineare della scrittura non è agile come un palco con i corpi e tempi in compresenza) Così nella pagina, Tarabbia mette una figura di autore-specchio che non si limita a osservare, ma diventa parte della materia che racconta.
Una cosa che non aveva fatto Parise col dottor Filippo, mentre invece fu
proprio Pasolini ad intuire la necessità di un martirio autofinzionale, poiché
aveva progettato cercato con Petrolio una diversa forma-romanzo, di cui quello
che leggiamo è ancora uno scartafaccio in fieri, come sottolinea sempre Walter
Siti ma che certo implicava così tanto il sé-autore come estremo sacrificio
simbolico, che lo scrittore friulano
aveva progettato di inserire le foto del suo corpo nudo scattate da Dino
Pedriali nella torre di Chia, alla fine del romanzo, con un passaggio di mezzi
(scrittura-immagine) e un salto bio-politico: non il “Narratore né l’Alias Pasolini-nome-scritto,
ma lui, proprio lui, esibito nel corpo biografico dello scrittore ( per tutte queste
considerazioni rimando alla nuova edizione di Petrolio e all’introduzione di
Walter Siti.[10]
Tarabbia non ha messo nessuna foto di sé
nel testo, si è limitato ai riferimenti espliciti biografici. Poi ha creato una
drammaturgia del sacrificio di sé come autore, processato da Marcello. Da pagina 198 , quando Marcello e Tarabbia-personaggio
si incontrano, apprendiamo che l'autore, o meglio il Tarabbia-personaggio che è scrittore, ha consegnato a Marcello il
manoscritto che “sta scrivendo” e che
secondo Tarabbia-personaggio il leader del Continente Bianco “non ha letto fino
in fondo”. Dunque, il romanzo che noi
stiamo leggendo fino a quel punto è quel manoscritto che è consegnato a Marcello.
In quel
manoscritto, che noi pure abbiamo letto era contenuta, in un capitolo iniziale,
una sorta di abbozzo di un altro romanzo,
non scritto, legato alle vicende di una ragazza, Anna, che “è una storia che
non dovrebbe stare nemmeno in questo libro” – scrive Tarabbia personaggio - una
giovane moldava, emigrata in Italia e che Tarabbia-personaggio (ma forse anche l’autore
reale?) conosce, si interessa della sua vita e delle sue difficoltà, la segue per
poterne scrivere addirittura nella natia Soroca, regione che non solo è al
confine con l’Ucraina (con un mise en abyme cronachistico) ma è anche la città
in ci è ambientato un altro romanzo scomodo e potremmo definire di sangue,
ovvero Kaputt di Curzio Malaparte. La storia di questa ragazza, in balia delle
sue vicende di emigrazione e di un fidanzato violento di cui è vittima, resta
sospesa nel libro-manoscritto, quello che abbiamo letto anche noi fino a pagina
198.
Da questa pagina in poi cosa leggiamo? Potremmo dire qualcosa di scritto diverso dalla
pseudo-narrazione del Continente Bianco, che abbiamo letto finora, con Marcello,
nostro lettore fratello, nostro sembiante come lettore (ricordiamo che la
modernità letteraria si apre con la dedica di Baudelaire a Hypocrite lecteur, — mon semblable, – mon
frère! ).
Marcello dopo aver letto pretende di sapere come va a finire la storia di Anna,
lo pretende perché vuole assecondare un suo senso di giustizia che forse –
anche senza essere fascisti – sta dietro tanti lettori che pretendono un finale
accomodante, una riparazione etica dalla narrazione. A questo servono i libri
secondo Marcello, a costruire un destino di redenzione.
Il giovane
fascista rimprovera all’autore che egli, come scrittore, non è nella posizione
di ergersi a giudice. Ma se da un lato questo è vero per la scelta ambigua di
Tarabbia-personaggio di essere “embedded” del gruppo fascista, sporcandosi le
mani nella violenza per raccontarla, è interessante l’altro rimprovero che fa
Marcello, nel nome di una visione etica sia della letteratura che del
suo fascismo: ”Tutti pensano che quello in cui noi crediamo dia intriso di odio
e violenza e ci sono non lo nego – spiega – ma non c’è solo distruzione, c’è amore (…) il fascismo è una forma di amore
(..) perché traccia confini, dice di un’appartenenza a una comunità, costruisce
un nido e vi accoglie tutti coloro che si somigliano”. La premessa, espressa poco prima, salda poi lo
scrivere e il manoscritto di Tarabbia-personaggio al suo fascismo: “Io voglio
salvare tutti (…) anche questa tua Anna avrei salvato” dice Marcello. E invece
cosa fa lo scrittore senza una visione etica, secondo Marcello? Quello che Tarabbia
ha fatto in questo libro, come nei precedenti, così come lo sentenzia il fascista:
“ Ogni volta che scrivi una storia, un uomo uccide la donna che ama”.
Il gioco di
specchi si fa ustionante, Tarabbia autore reale ha scritto quelle storie
e qui firma la dedica di questo come dei precedenti a moglie e figli, in
particolare alla nuova nata Caterina “chissà che idea si farà del Continente
bianco quando e se lo leggerà”. Interessante come prefiguri anche una
Caterina lettrice di un romanzo in cui Tarabbia esplicita il suo alter ego come
intriso di una contaminazione con quel mix di violenza maschile e fascista che
fino ad ora aveva solo scritto da esterno.
Per Marcello
la letteratura deve salvare le vite. Tarabbia autore (sia personaggio che
reale) tenta di sfuggire a questa forma di “controllo” autoritario mascherato da “cura” e
parvenza etica (anche Marcello a suo modo è un lettore buonista) che il fascista esprime e lo fa sottraendosi
all’onnipotenza dello scrittore, ritirandosi per lasciare la scena alla realtà
così come essa è, anche nella sua durezza (e come Tarabbia ha fatto con
notevole capacità nei libri precedenti) proprio lasciando al proprio destino le
storie delle persone incontrate e raccontate.
È uno snodo
di compresenza, un teatro di convivenza tra una finzione che riduce il suo
spazio e la realtà che prende il sopravvento, che forse non chiede di essere risolto, ma
tenuto aperto da Tarabbia-personaggio che scrive di questa scelta di non
proteggere nel destino scritto le persone di cui racconta, non cambiandone per
finzione il destino, così come fa con il personaggio-Silvia che gli appare in
sogno e chiede appunto un altro finale. Proprio la riscrittura esatta e non
cambiata del finale di Parise fa poi del testo di Tarabbia un evento di realtà
in cui non si può cambiare ciò che è fatto (e anche il testo di Parise è un
fatto).
Tarabbia (per un momento ricomponendo i suoi frammenti) espone le sue idee in questa sorta di appendice delle ultime 40
pagine del libro: “Perché se si protegge qualcuno di cui si vuole scrivere, si
altera il mondo, lo si piega alle proprie voglie e perfino al proprio senso di
giustizia. E un mondo piegato a tutto questo è un mondo giusto, senza scandalo
né orrore. Ma non è un mondo che può entrare in un libro”. Ricorda in qualche
modo la scelta di realtà fatta dal regista teatrale Milo Rau, che non a
caso come Tarabbia ha sempre portato “in scena” qualcosa che veniva lasciato
fuori dalle possibilità onnipotenti dell’autore (mentre invece è Marcello con i
suo delirio di cura amore e controllo fascista a esprimere un senso di “onnipotenza”
che spaventa anche il suo braccio destro “l’uomo che chiamano Werner” e che
sbeffeggerà Tarabbia-personaggio che in un impulso di eticità voleva fare
qualcosa per Silvia ma lo rimprovera: “Sarà morta da ventiquattro ore,
imbecille – inutile che fai finta di preoccuparti, lo sapevi come sarebbe andata
a finire.. adesso vuoi correre denunciare…per fare cosa? Il salvatore di vite morte?
Dopotutto hai il tuo finale, non farla troppo lunga”.)
Del resto,
anche nella cura e nella relazione, così come nell’amore (lo rivendica
Marcello) ci sono delle forme di controllo. Lo esercita anche il dottor P. che
si smaschera che si confessa a Tarabbia paziente, sapendo che è scrittore . Chi
controlla psicologicamente chi? Forse il dottor P. alla fine è il deus che
muove tutta la narrazione e l’azione, che spinge Tarabbia -personaggio a
aderire al Continente Bianco così come spingeva la moglie nelle braccia di
Marcello.
Ribaltando il setting psicoanalitico che è un teatro con le sue regole di “quarta
parete” ha la possibilità di avere un potere, controllare quello che accade e
si dirà, con quel mettersi a nudo (che a volte è degli scrittori di
autofiction) e che tende a far funzionare le cose secondo il proprio gusto.
Il dottor P. è scrittore-burattinaio, emblematico esempio di scrittore che vuole
– come il suo paziente – avere una storia anche violenta da raccontare. Tarabbia-personaggio
partecipa o assiste e decide di partecipare a pestaggi e farne una storia.
Quella storia sarà sotto il suo controllo, quindi è un tentativo di assorbire
la realtà dentro il racconto per poterla controllare. Lo fa Tarabbia, lo fa il
dottor P. raccontandola a lui.
Una realtà che appunto lo scrittore ama.
E come tutti gli amori, sono forme di controllo, di dominazione e di fascismo. Qui
mi sembra convergano i nodi, tra un’operazione metaletteraria e un resoconto di
sentimenti di destra che attraversano la nostra società e che si affermano come
identitarismo, come amore per la comunità.
A sconvolgere
le intenzioni è “la faccenda trita del destino” che qui Tarabbia sembra
recuperare nella necessità di scavare più possibile in ciò che è dato ,
ovvero sia il dato fattuale, sia ciò che si dà nell’evoluzione degli eventi. Posizione non riva di ambiguità, se ci si limita
a registrare quello che accade agli altri e ci si mette nella posizione di chi,
per quanto tenti di eclissarsi dalla narrazione, è l'autore che scrive, è
presentissimo e presentissimo al suo gesto di scrittura.
Nell’ ultimo
capitolo, Tarabbia personaggio dice che ha pensato e ripensato molte volte come
scrivere questo capitolo terminale per descrivere gli eventi tragici che in
qualche modo aveva già annunciato (del resto noi li sappiamo, poi ché era
scritti non nel destino ma nel libro di Parise).
Il narratore inquieto avrebbe desiderato che tutto questo non accadesse, che è
un esplicito trucco ambivalente, finzionale, letterario, aggiungendo che questa storia l’ha
cercata, l'ha desiderata, inseguita dentro e fuori della letteratura,
che se da un lato è un'affermazione che noi leggiamo dentro la letteratura,
è proprio l’affermazione al rimando ad una letteratura di fatti, rimando a
considerare ciò che “accade” senza il filtro letterario, proprio ne momento in
cui Tarabbia sembra averlo fatto alla massima potenza riutilizzando la materia
narrativa di Parise. Non c’è l’ammissione di una realtà che non esiste, ma il
contrario: un ribadire che esiste ed è prioritario un fuori dalla
letteratura anche se viene detto nelle pagine stampate. Anche se il cerchio
si chiude ancora sull’Eros esso è presente come forza reale che distrugge anche
l'azione di controllo della storia preteso da Marcello. Ubu s'innamora di Silvia
e questo rende impossibile poter dar vita all'azione secondo come era stata programmata
e quindi è l'eros che impazzisce, fa
impazzire e sabota tutti i possibili anche i piani politici. “il tuo dottore te
l’aveva detto fin dall’inizio” dice Werner a Tarabbia-personaggio. Cosa era prevedibile?
L’imprevedibilità della forza del vivente, l'Eros come agente di realtà che fa
saltare tutte le rivoluzioni, la forza politica della biologia, il motore delle
storie.
[1] Quali
fossero i rapporti tra i tempi di Pasolini degli ultimi anni e di come Parise
lo abbia prima sentito come un rivale (ma non a caso insistendo sugli stessi
temi) e poi dopo la morte lo abbia riaccolto come un fratello di cui continuare
la missione, si può vedere il saggio "Pasolini" di Gianluigi Simonetti in nella rivista "Riga", num 36 monografico dedicato a Parise (Marcos y Marcos, 2016) in cui è ben chiarito sia il rapporto tra i due scrittori, il tallonamento di Parise sui temi di Pasolini e la decisone implicita di proseguirli e tenerli vivi, farli letteralmente propri, dopo dopo la morte del amico-rivale.
[2] Rimando a
Mattia Ferraresi, Solitudine, Einaudi 2020 o a uno spettacolo de Lacasadargilla/regia
Lisa Ferlazzo Natoli “Ministero della solitudine”, ne scrivo qui https://www.repubblica.it/spettacoli/teatro-danza/2022/10/13/news/ministero_della_solitudine-369805887/
[3] Cfr. Francesca
Rigotti, Era del singolo, Einaudi 2020
[4] D.
Eribon, Ritorno a Reims, Bompiani, 2017 ; E. Louis, Chi ha ucciso mio padre, Bompiani
2019, Bompiani, entrambi i tesi messi in scena da Thomas Osthermeier con una
efficace versione teatrale che potrebbe adattarsi anche al libro di Tarabbia
[5] Il campo
dei santi, di Jean Raspail, Esodo di Dj Stalingrad, La superficie di Eliane di
Luigi Malerba ecc.
[6] Vedi
sempre G. Simonetti, Riga, cit. e Marco Belpoliti che in “Settanta” ha scritto che “dopo la tragica morte di Pasolini, Parise
sul ‘Corriere’ sembra fare propri i temi e le questioni del suo ‘avversario’.
[…] È come se perdendo il suo ‘antagonista’ – a tratti detestato, a tratti
amato, ma sempre ammirato – Parise avesse assunto su di sé anche la sua
parte”).
[7] “Eccoli,
erano loro, i giustizieri della notte, quelli che avevano assassinato Pasolini,
quelli che avevano stuprato le ragazze del Circeo, quelli che avevano bruciato
un somalo dormiente su un letto di cartoni, “per scherzo”. Intravedevo le loro
facce, anche nella velocità della corsa. Parevano facce americane, alcune bionde
e butterate, altre nere dai capelli ricci, di arabi americanizzati. Erano,
nella loro anonima e meccanica criminalità, le facce di Roma”. L’odore del
sangue, pag..
[8] anche qui rimando a Gianluigi Simonetti
“Pasolini” Riga, dedicato a Parise,
[9] Vedi il
recente pronunciamento della commissione stragi sulla morte di PPP, a testimonianza di un capitolo aperto e mai chiuso della storia italiana e al di là della (quasi) moda di infilare il martirologio di PPP in ogni cosa, resta indubbiamente un ferita aperta.
[10] Pasolini,
Petrolio, Rizzoli, 2022 e sia l'introduzione di Walter Siti che il suo "Quindici riprese", Rizzoli, 2022
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