C’è una bella mostra da vedere se capitate a Venezia, alla Fondazione
Prada (aperta fino al 24 novembre) ed è ““Everybody Talks About the Weather”, negli
spazi del palazzo storico di Ca’ Corner della Regina. Più di cinquanta opere di
artisti contemporanei con un’idea già sperimentata da FP di una sorata di
mostra-documentaria, in cui l’arte intreccia i suoi percorsi con la scienza (del
resto biologia, fisica, neurologia e in
questo caso climatologia, sembrano essere il background dell’estetica,
scalzando la tradizionale filosofia ) seppure c’è un collegamento con l’arte
del passato che proponeva gli effetti del clima sul mondo, pur dividendosi tra
una suggestione romantico-progressista (Turner) e più direttamente sublime di
fronte allo spettacolo catastrofico degli eventi naturali (Friederich).
Una decina
di questi quadri sono riproposti in copie esatte ed è utile poterle rileggere
in chiave climatica, là dove un tempo potevano esaltare una dimensione di sfida
dell’uomo alla natura- In effetti quella sfida fu vinta, l’uomo ha piegato la
natura ai suoi interessi, piegandola e alterandola, senza capire – per eccesso
di filosofia rispetto alla scienza – che quella vittoria era esattamente il suo
contrario, una sconfitto, per altro mortale.
Oggi di fronte alla catastrofe la bellezza sposa una consapevolezza diversa – così ai quadri su associano grafici di metadati dedicati molte crisi climatiche , con didascalie e abbinati alle opere d’arte. E’ la forza estetica del sapere scientifico e in qualche modo è sublime anche lo sgomento d fronte alla fine del mondo naturale per opera dell’era dell’Antropocene, arrivata ai suoi ultimi giorni, specie se la calcoliamo come alcuni come iniziata con l’epoca dell’Agricoltura tra i 20 e i 10 mila anni fa verso la fine del Paleolitico,
Curata da Dieder Roelstraete , la mostra alle opere in mostra si affianca un ampio apparato informativo, la proposta di una bibliografia – anch’essa esposta fisicamente con 500 volumi cartacei consultabili – col fine di proporre una ricerca che esplori i rapporti tra tempo meteorologico e arte visiva. “tutti parlano del tempo”, delle condizioni atmosferiche: da chiacchiera disimpegnativa, si è trasformata in incubo che nell’immediato del prossimo 30 anni potrebbe essere il contrappasso della caduta delle Utopie del 900, in un azzeramento di futuro che collassa nel buco nero dell’irreversibile catastrofe ambientale globale. Tra “tempo meteorologico” e “clima” c’è una differenza, ma in qualche modo la mostra propone di considerarli appaiati, perché per entrambi c’è una qualche forma di pensiero del futuro. Tutti parlano del tempo, anche un pensiero democratico – o intrattenimento.
Proprio il titolo richiama questa polarità tra il pensiero messianico dell’utopia marxista e l’appiattimento sulla chiacchiera del tempo in ascensore – Nel 1968, in Germania la Lega degli studenti socialisti tedeschi diffuse un manifesto con le facce di Marx, Engels e Lenin, con uno slogan: “Tutti parlano del tempo. Noi no”. Il messaggio era : mentre altri partiti politici erano impegnati in futili chiacchiere “sul tempo” – ovvero quisquilie – la pensava al lavoro, al salario, al futuro della città socialista. Tutto giusto, ma pure una cecità ( Amitav Ghosh La grande cecità , 2016) che non ha visto come la difesa del lavoro diventava anche la difesa di un sistema industriale inquinante- Da questo punto di vista la mostra ha un impianto che – con alcune ottime opere e altre più deboli o scontate – di sicuro offre un’immersione nella questione più radicale che la nostra epoca ci sta ponendo e a cui assistiamo con un misto di abitudine intorpidita e paralisi, con molti materiali e approfondimenti scientifici sviluppati in collaborazione con il New Institute Centre For Environmental Humanities (NICHE) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Un po’ come quando guadiamo le “previsioni del tempo”, ultimo
scampolo di un’umanità che non sa pensare al futuro se non nell’arco delle 24
ore. Certo fino a pochi anni fa era ancora la quisquilia vezzosa del cittadino
felice consumista. Oggi non più (non sappiamo però quanto le produzioni Prada
siano sostenibili e se questa mostra sia un green washing, nel caso certamente
offre materiale di riflessione proprio per mettere in discussione anche il
lavaggio verde di istituzioni e società del capitale globale come Prada).
Siamo accolti all’inizio
da uno schermo che proietta tutte insieme i vari weather channel
mondiali, tipologia usata da vari artisti anche in questa mostra, vera presenza
di un brusio di fondo, il mantra di un’ansia religiosa per sapere che tempo che
fa, in un mondo che – con la metà della popolazione residente in area urbana – ormai
ha sempre meno a che fare con il clima per sapere destini della sua giornata. Le
opere in mostra sono diverse le più belle sono:
a) Un video del gruppo indiano Raqs Media Collective con “Deep Breath” un film di 25 minuti in cui alcuni sub si immergono nel Mar Egeo alla ricerca di un’iscrizione sui pericoli dell’Oblio. Si tratta di una finzione iscritta su un naufragio reale (da cui furono estratti molti manufatti e opere d’arte ,tra cui “la macchina di Anticitera” ovvero un calcolatore analogico, il più antico mai ritrovato. Nel film il collettivo indiano invece immagina si vada alla cerca di un’iscrizione sull’ “oblio dell’aria”, che in realtà è un titolo di un libro di Luce Irigaray dedicato a Heidegger (The Forgetting of Air) ma l’idea è davvero suggestiva. Forse perché avevo appena finito di leggere “il passeggero” di McCarthy, col suo immergersi in una vastità onirica dell’anima così come del pianeta, forse perché siamo usciti non da molto dal pericolo dell’aria con il fiato del covid, forse perché la corsa fino all’ultimo respiro per fare in tempo a d evitare la catastrofe forse perché l’autorità toglie il respiro (I can’t Breathe, diceva George Floyd steso a terra prima di morire) ma mi è sembrata un’idea semplice e bella, specie per degli artisti indiano che vivono a New Delhi, dove la qualità dell’aria è pessima. Cos’ ci dimentichiamo dell’aria, mentre respiriamo, il respiro come il cuore è una delle poche attività neuro-muscolari che va in automatico, ma ce ne ricordiamo, come adesso quando stiamo per rimanere senza.
b) Una serie di foto e citazioni di Beate Geisler e Oliver Sann che da 25 anni lavorano proprio a promuovere la riflessione sull’Antropocene. L’opera consiste in un contrappunto tra 37 citazioni tratte da libri di Science Fiction del passato 900 in cui incredibilmente si profetizzava con precisione (anno compreso) lo scenario attuale: basti il solo esempio del romanzo di Richard Fleischer, I sopravvissuti del 1973 in cui si legge “Nel 2022 la sovrappopolazione, l’inquinamento e un’evidente catastrofe climatica hanno causato una penuria di cibo acqua e alloggi in tutto il mondo”. A questa carrellata di testi si uniscono foto di piante con strane propaggini tecnologiche, quasi una cyborg-nature, dissimulata tra la bellezza degli arbusti, mescolati a i fiori e foglie
c) I “Rain Studies” di Jitish Kallat, che con un’idea semplice crea opere suggestive, stendendo un pigmento su fogli bianchi e poi lasciandoli esposti alle piogge monsoniche della sua città, Mumbai, capaci poi di ricreare una sorta di volta celeste con vaghe stelle
d) il video di Hitali Singh Soin, indiana figlia di esploratori e
naturalisti, ha ideato la mostra approdando la prima volta alle isole Svalbard,
unica persona di pelle scura, ha realizzato come si potesse connettere il dato
coloniale e di genere alla cultura della natura e dell’esplorazione. Da qui
nasce “we are opposite like that” in cui riflette con una serie di disegni d’epoca
e citazione come la cultura maschile bianca occidentale, protagonista delle
prime esplorazioni diffuse nell’800 e collegate all’espansione coloniale
avessero però creato un clima di terrore della natura, connesso certo al clima
di mistero dell’epoca vittoria, le minacce della vita moderna, la prima
letteratura fantastica o “gialla”, lo spiritismo, la passione per i fantasmi,
da cui l’idea che la natura stessa fosse
foriera di catastrofe avesse un natura di minaccia fantasmatica e di ignoto (in
fondo qualcosa che si ritrova anche in Leopardi con la Natura Matrigna, non a caso
donna -tra l’altro a margine sulla connessione tra esplorazione evoluzionismo e
idea della natura c’è il bellissimo libro di Antonella Anedda, ) più o meno
come la presenza di una persona “coloured” crea un senso di allarme in un
contesto bianco.
Tra altre opere la forse ingenua, ma suggestiva nella sua forza vitale e tutto sommato allegra di “tsunami” del Kenyota Richard Onyango o Thomas Ruff un fotografo-senza-camera, che lavora sull’ingrandimento di immagini da internet ma stampate e ingrandite ad alta risoluzione – ma che ovvio si disgregano in quadrati pixel perché sono riprese da immagini Jpeg di bassa qualità – cercando fotografie di catastrofi o eventi estremi del clima, con un effetto straniante di questo “googolism” in cui la presenza massiccia di immagini a disposizione finisce per renderci “ciechi” di fronte alla natura – e Ruff in qualche modo ce le sbatte in faccia in formato gigante, come una tempesta che spira non dal paradiso, ma dal futuro, indietro al baratro in cui non possiamo più dominare né il tempo storico, né il tempo naturale.
E proprio dal passato invece soffia il vento che porta le nuvole ritratte in “Plume” foto di Inigo Manglano-Ovalle , uno degli artisti concettuali che con video, foto e scultura dai primi anni 90 lavora sulle intersezioni di sistemi culturali, come il modernismo, con la politica, la scienza e la natura.Da molti anni si interessa alle nuvole che qui però hanno la forma di funghi atomici (anche il climatologo di “Tasmania” di Paolo Giordano, si interessava alle nuvole - altro libro che dialogherebbe benissimo con questa mostra). Questa serie è stata fotografata in questa forma, in un luogo chiamato “Trinity” nel deserto della Jornada del Muerto a 50 km da Socorro, nel New Mexico. E’ il posto in cui fu fatta la prima esplosione nucleare, 16 luglio 1945, tre settimane prima di quella fatale a Hiroshima e poi Nagasaki. E come il libro di Giordano si conclude proprio in Giappone, riconnettendo il senso di un destino in pericolo dei cambiamenti climatici con il pericolo della bomba atomica, anche Manglano-Ovalle lo fa. Basti pensare che Il nome in codice "Trinity" era stato assegnato da J. Robert Oppenheimer , il direttore del Los Alamos Laboratory , ispirato alla poesia di John Donne,. E Oppenheimer era lo scienziato che lavorava con il padre immaginario di Bobby Western, il protagonista – di nuovo - de “il passeggero” di McCarthy. Se Manglano-Ovalle vorrebbe richiamare il passato nucleare come storia di una catastrofe possibile – certo ancora possibile – dal futuro altre Plume si riconnettono alla loro esattezza semiotica, sono forme estreme di fenomeni climatici che ci avvertono di un’altra “bomba” naturale, pronta ad esplodere sebben lentamente, ma da qui a 30 anni, che rispetto a tutta la storia dell’Antropocene, potrebbe essere una sorta di Apocalpise now, dell’adesso, del oggi o al massimo, domani.
Direi che come argomenti impliciti di una banale conversazione in ascensore sul tempo ce ne sono abbastanza.
Nessun commento:
Posta un commento