L’Apocalisse nella tradizione biblica (ma ce ne sono in diverse culture e religioni di narrazione del giorno ultimo) è la rivelazione dopo il tempo, alla fine della storia, di tutto ciò che l’ "essere è"
Alla lettera ἀποκάλυψις significa “rendere noto”, svelamento di verità ultime sul tempo e sul mondo, che si danno nell’istante in cui il mondo e la storia finiscono.
La narrazione più nota per il mondo cristiano occidentale è quella dell’ Apocalisse di San Giovanni apostolo, che è normalmente interpretato come la profezia della fine del mondo, con numerosi dettagli visivi, fortissima simbologia mistica ed escatologia.
È a questo libro che si è
rifatta l’interpretazione teatrale di Lenz che approda con questo lavoro
maestoso, di grande impatto e coinvolgimento, alla sua terza tappa del cammino
nel sacro, dopo “La Creazione” e
“Numeri”, è appunto “Apocalisse” creazione di Francesco Pititto e Maria
Federica Maestri, un progetto quadriennale che approderà ad un lavoro basato
sull’Apocalisse Gnostica. Mai come adesso il particolare procedimento di Lenz,
che Pititto ha ribattezzato imagoturgia assume senso. Non solo perché l’Apocalisse è un libro
visionario, pieno di creature fantastiche, ma anche tutto il procedimento
drammaturgico di Lenz sembra poggiare sull’immagine elevata a icona, che supera
i limiti del dicibile stesso e non sembra neppure un prodotto
dell’immaginazione, ma sembra affondare in un sostrato simbolico profondo che
opera nell’antecedenza della germinazione del linguaggio.
Lenz Teatro ha qui trovato una ulteriore
felice sintesi non solo di equilibrio di scrittura e drammaturgia, coerente con
una materia così complessa, ma senza subirne il peso, anzi traducendola sia in
un essenzialità efficace sia arricchendola i un interpretazione che rende
davvero attuale l’inattualità del
libro dell’Apocalisse. Uno degli elementi chiave è proprio la scelta del luogo
, il complesso di archeologia industriale composto dal Padiglione Nervi e
l’area Wopa della periferia industriale di Parma (a due passi dalla sede
storica di Lenz, altro complesso di industrie storiche dismesse e recuperate).
Già il senso del dopo-storia che trasuda dalla Fabbrica dismessa, accresce
l’energia simbolica in un luogo “dove si sono compiuti dei sacrifici
meccanici”, come scrive Maria Federica Maestri nelle note, restituisce un
doppio livello ad un lavoro artistico sulla fine dei tempi, che sono
anche la testimonianza vivente della fine delle utopie, trasformandosi in
“Città-Sposa-Operaia” trasformata in un neo tempio di liturgie laiche e
poetica, sovrastato dalla volta Nervi riempita di immagini sovrapposte tra il
documentario sulla vita delle donne pastore di Anna Kauber e le immagini
proiettate che ricreano gli affreschi del Correggio nella chiesa di San
giovanni Evangelista nel centro di Parma. Qui si compie il percorso.
Lo spettacolo è si svolge passando in quattro sale del complesso. La prima, quella dell’Aquila, in cui i cinque bravissimi interpreti si presentano: 4 sono gli evangelisti (Fabrizio Croci, C.L. Grugher, Sandra Soncini e Teresa Cappella, ognuno con una sua peculiare intensità) con costumi ricalcati su divise tra il religioso, l’operaio e la agreste ottocentesco, che avvertono dell’imminenza apocalittica: “non c’è più tempo”.
Insieme a loro per tutto il tempo, e Valentina Barbarini, l’Agnella, di particolare bravura anche in considerazione di come abbia ribaltato la sfortuna di una malattia che le toglie l’uso delle gambe mutandola in creazione, in una risorsa poetica per esprimere il corpo ferito della vittima suprema del disegno di Dio.
Accompagnano le performance la musica di Andrea Azzali e i canti sacri di una soprano (Victoria Vasquez Jurado) un contrappunto tagliente e tremendo del percorso costellato di richiami a flagelli e invocazioni di giustizia, mentre l’eco naturale della volta di Nervi crea quell’espanso “silenzio del mondo” che è la dimensione in cui l’annuncio risuona..
Anche qui una prova di bravura degli interpreti che sanno tenere sia la tensione fisica, sia una dizione che non solo tolga ogni rischio di enfasi, ma che si deve accordarsi con la risonanza della volta, che emette un’eco ritardato di 8 secondi e che rende particolarmente complicato lo scandire del testo, una prova che però i cinque attori e la soprano superano benissimo.
Dalla prima sala, si passa poi nella sala della purificazione, con tre
rudimentali docce-sacche e corpi nudi – qui è la spoliazione dell’ homo
sacer, il segmento dell’estremo nel mod segnato dalle selvagge e cruente
sia delle nascite che dello sgozzamento di agnelli, sempre dal documentario di
Kauber. È la violenza del mondo a cui gli umani hanno opposto sacrifici
rituali. Questa è stata la storia del mondo che ora come piane appare al limite
estremo, l’Apocalisse è già nel rischiio estinzione, è già nella massa dei rifiuti
ed emissioni simbolizzata da quella sorta d’inferno in terra che è la grande discarica
di Korogocho a Nairobi in Kenya, nel documentario di Julius Muchai, con i
grandi pellicani che razzolano tra i rifiuti insieme agli umani, immagine
apocalittica nel presente. Questo come altri richiami della storia
circostante, è la cifra di arricchimento interpretativo che Lenz ha saputo
dare alla poesia tragica dell’Apocalisse.
Essa si compie mentre il mondo è ancora mondo, è anche nella lotta degli
abitanti di Babilonia, con i quattro attori che stavolta hanno divise da Businessman.
È la Babilonia globale, quella che fa scivolare il pianeta sul filo della catastrofe, sotto gli occhi
dell’agnello, circondati da busti di potenti.
È suonata l’ora, ormai e si entra nella sala del Carroponte il cuore del Tempio, con le colonne sospese. Qui i 4 sono evangelisti-operai, pronti, con le schiscette, al pasto “nudo” e crudele imposto col sacrificio dell’Agnella da colui che agisce nel nome di Dio, che proprio nella violenza della distruzione della vittima fa compiere l’avvento della rivelazione quella in cui l'Agnella che subisce violenza con crudeltà sacra è espiazione dell'uomo, sua salvezza data dal rivelarsi come Cristo che apre alla Gerusalemme Celeste, sospesa dal carroponte della fabbrica Manzini, sovrapponendo dunque alla simbologia celeste, la materialità di una storia morta e che tuttavia sopravvive nel dopo-storia del “lavoro artistico”. L’ultima sala della Gerusalemme “che non avrà porte che si chiudono” scrive Maestri nelle note, è quella che segna per gli spettatori l’uscita da questa liturgia sacra e laica insieme intorno ai temi dell’Apocalisse.
Le azioni, i quadri scenici sono scanditi dal testo che naturalmente è ricalcato sull’Apocalisse di Giovanni ma con molti innesti, nella consueta densità poetica. Il segno che sia una sorta di acme di un lavoro rigoroso durato anni è dato anche dall’osmosi che un testo così sacro e distante, che arriva da lontanissimo e guarda oltre l’avvenire, è stato reso da Lenz così capace di evocare per immagini e parole un fitto cortocircuito col presente storico introno a noi, a partire dal luogo stesso dove va in scena: la fabbrica abbandonata e recuperata, in un dopo-storia senza Utopia, la natura devastata dal industria, la natura lavorata dell’agricoltura devastata dal clima alterato, il grande fiume Po in secca. Tra molti di Maestri e Pititto, l’acqua è elemento centrale della composizione e imagoturgia di “Apocalisse” piena di simboli che hanno un punto di contatto tra il presente storico e l’oltre-tempo apocalittico. Il fiume, vicino a cui si trova Giovanni nella rivelazione, è quello reale asciugato dalla siccità apocalittica del 2022 e dentro cui si era svolta “Numeri”, la tappa precedente. Così come l’apocalisse dei rifiuti di Nairobi, Due elementi del presente che compongo le moderne narrazioni apocalittiche della catastrofe dell’Antropocene, imminente – è nel 2050, tra trent’anni, no ventotto, anzi no, è un giorno è domani no è “tra 45 minuti” per citare una battuta dell’idiota di Dostoevskij detta da uno dei quattro cavalieri. Tutto si contrae, si condensa in una massa densissima in cui la fine di tutto è il punto di principio del tutto, sorta di spaziotempo in cui la storia – come il gatto di Schoedingher – è al tempo stesso morta e viva.
I nostri racconti apocalittici sono gli ultimi di una lunga tradizione e di molte civiltà, ben oltre quella cristiana giudaica e islamica, tutti articolati nella medesima diegesi: per avere la rivelazione dell’Essere, alla fine del tempo storico, si compie una distruzione proprio di ciò-che-è, del mondo stesso. Del tempo, della storia. È “ultimo giorno” ma Kant, infatti, lo chiamava “jungsted Tag”, il giorno più giovane, l’ultimo nato. Dunque, questa rivoluzione/rivelazione si dà solo quando la realtà che deve rivelare (il tempo, la storia, la nostra esistenza nel mondo) è passata. Dà senso a ciò che è stato, distrutto proprio per permettere la rivelazione. Naturalmente per i credenti la distruzione è il preludio del passaggio ad una vita eterna rivelata in Dio.
Ma per chi non crede, che senso ha una narrazione apocalittica? Che ce ne facciamo di una rivelazione su ciò che la rivelazione distrugge?
Ecco che l’Apocalisse stando sospesa in questo paradosso non sarebbe esattamente da intendere come profezia, ed il suo principale interesse non è il futuro ( o la fine della storia). Invece è rivelare il suo fine, mentre si è qui. Il senso del mondo che si è dato già, che si sta dando, quello che oggi, ultimo giorno di tutti i giorni, sta finendo, ma è qui. È qui il segno positivo di un lavoro sull’Apocalisse che non si è appiattito sulla pur valida magnificenza visionaria e poetica di un testo che ha un preciso significato religioso. Quello di Lenz è un sacro vivo e immerso nella storia, pur non usando rappresentazioni realiste di essa tutt’al più sue spie simboliche.
Questi riferimenti, dalle cripto-citazioni anche cinematografiche, ai costumi, allo stesso luogo-cornice dell’ex-Fabbrica, ci riportano ad un’Apocalisse che accade come catastrofe quotidiana. Il presente non è solo una sequenza di punti non estesi, in attesa di un éskhatos , un punto ultimo, ma in ogni momento e dettaglio della vita può rivelare uno squarcio e uno choc, un varco di passaggio dal passato al futuro, da ciò che fu a ciò che sarà, considerato come il luogo della catastrofe nel qui e ora, per rifarci alle tesi di Walter Benjamin, che connette, questo momento storico ad una “volta metastorica”, così che ciò che è avvenuto e avviene interroga sempre il futuro perché lo stesso ripensare della manifestazione choc della memoria, ha il compito di rivelarci un volto diverso della storia e come tale anche del futuro a cui essa prelude (Benjamin lo chiama il Jetzt-zeit l’attualizzazione del passato nel presente).
“Apocalisse” di Lenz a mio avviso sta dentro una ricerca sul sacro, ma il tema della fine è fuori dall’ orizzonte religioso di salvezza, canonico, ma più vicino a questa presa di coscienza del mondano e della “finitezza”, consapevolezza politica, ma anche nuda e disperata, ma che non può che partecipare al continuo rivolgimento della storia stessa, come primo atto di una rivelazione incessante.
Come le opere dense di poesia, il linguaggio teatrale di Lenz, che prolifera dentro lo spazio dell’ imago collettiva e costruisce una liturgia-drammaturgia a costellazione di fuochi, in un lampeggiare della catastrofe del presente in atto nella storia, una discontinuità – ma proprio perché in relazione con la stratificazione simbolica e letteraria che manteniamo con il testo biblico e tutto i palinsesto semiotico che ne è derivato nei secoli - che riformula un ordine del discorso diverso, squarcia ciò che è dato sapere, raccordando in una sintesi simbolica, poetica, il presente ai segni del tempo, fatto di universalità ma anche di questo tempo che ci resta, della storia umana, specie dopo la prima rivelazione ( l venuta di Cristo a partire dalla quale per l’umanità occidentale nostra comunità, si è diviso il tempo storico, si sono accumulate immagini, parole, segni, indipendentemente dal fatto che si creda o meno, un palinsesto storico della nostra cultura). Cristo è un discorso centrale, una narrazione di redenzione e rivelazione, è già venuto chi per noi annuncia il “dopo”; quindi, viviamo la Storia già in quel dopo-rivelazione, l’esistenza è la catastrofe futura in cui si gioca la partita già condizionata. Tutto sembra già dato, Dio ha sacrificato suo figlio, poi siamo stati liberi di accettare o meno l’annuncio del dopo. Ma non ci sarà un giudizio finale, Dio ci lascia liberi e al tempo stesso sa già chi sarà condannato e chi no.
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