sabato 3 giugno 2023

"Non Tre Sorelle" : da Checov all'impossibile umano di recitare Checov

 


Quello portato in scena, al Fabbrichino di Prato, prodotto dal Teatro Metastasio non è uno spettacolo, E come recita il titolo è “Non Tre sorelle” dunque non la messa in scena del testo di Cechov, anche se una messa in scena dell’autore russo dà lo spunto – ancora una volta fuori dal teatro e insieme meta-teatrale – a quel che abbiamo visto al Fabbrichino.

 “Non Tre sorelle” parte da una impossibilità reale, che ci ha riguardato tutti (ma ha colpito drammaticamente chi il teatro lo fa)  ovvero quella dovuta alla pandemia. Enrico Baraldi, il regista di “Non tre sorelle” ( non ché fondatore insieme a Nicola Borghesi e Paola Aiello, di uno dei gruppi di teatro più interessanti,  Kepler 452)   aveva vinto un bando del Teatro Metastasio  per portare in scena il capolavoro cechoviano. Tutto sospeso, non si lavora, difficoltà economiche per tutto il mondo dello spettacolo.


Quando un anno fa la pandemia si è attenuata e ha permesso  la riapertura parziale poi totale, solo due attrici erano rimaste disposte a riprendere il percorso, Susanna Acchiardi e Alice Conti. Mentre si cercava di riorganizzare un cast, il 24 febbraio la Russia invadeva l’Ucraina. Tra i milioni di sfollati, assistiti dalle Ong, c’era anche un gruppo di  giovani attrici ucraine, appena diplomate all’accademia di Kiev e all’inizio della loro carriera, che lasciano il loro paese e arrivano in Italia con il progetto “Stage4Ukraine” creato dal regista Matteo Spiazzi – volto a offrire ospitalità e occasioni di studio e lavoro in Italia ad artiste e artisti ucraini.  Baraldi e le due interpreti italiane del vecchio progetto si incontrano con le attrici rifugiate. 

Ovviamente per loro Cechov è la quintessenza di una storia teatrale che comunque riguarda tutte le scuole nazionali di  tradizione non solo post-sovietica  ma post-impero russo. Ma quando viene proposto loro di lavorare in scena “Tre sorelle”, ne nasce una dilaniante contraddizione e una discussione che se da un lato segna il fallimento definitivo del progetto su Cechov, genera invece una creazione diversa e che porta alla “cosa bellissima” che abbiamo visto al Fabbrichino. 


Nella “cosa” che poi diventa questo “Non tre sorelle/ He tpи cectpи” che vede anche Francesco Alberici per la scrittura drammaturgica, e Ermelinda Nasuto  dramaturg , ma ruolo paritario hanno le tre attrici, ventunenni, bravissime:  Anfisa Lazebna, Yuliia Mykhalchuk, Nataliia Mykhalchuk

La cosa che abbiamo visto  porta nel luogo di partecipazione collettiva, di riflessione sul mondo che è il teatro (e che in questo allestimento ha avuto una riprova, vivissima, bruciante, di altissimo livello) porta una realtà irriducibile e ne fa un possibile lavoro che riprende la pratica più recente del post-teatro e lo supera.  

Come già accade nel teatro di Milo Rau (e questo non è da meno di quelli del regista svizzero per profondità e complessità e bellezza) sono gli attori a guidare l’entrata e l’uscita attraverso la quarta parete. Così Alice Conti e Susanna Acchiardi partono dal loro desiderio di poter lavorare a questo Cechov e della sofferenza e della malinconia (cechoviana) raccontano la sofferenza di chi non lo ha potuto fare, né questo né altro. Così se è vero che “la battuta più ambita di tutte le attrici è ‘ A Mosca! A Mosca!’ “ – come dicono in scena -  la frustrazione della chiusura pandemica è come se facesse pronunciare loro, ma a tutti anche gli attori, registi, maestranze un  “A teatro! A teatro” con lo stesso senso di impossibilità di Masa Olga e Irina. E così nel momento in cui il teatro sembra farsi va in scena – prima fuori dal teatro, poi dentro  – lo scontro con le attrici ucraine, che ora oppongono un muro/parete in forma di domanda: “perché proprio Čechov?”. 

Al Fabbrichino di Prato vediamo scandito per quadri tutto ciò: troviamo le attrici che camminano lungo la scena vestite con abiti ottocenteschi “alla Cechov”, ma è solo il quadro di ciò che non vedremo, nonostante il tavolo ingombro di tazze e teiere, non faremo finta di trasferirci nel soggiorno di casa Prozorov, ma dopo il racconto di Conti e Acchiardi, ci troveremo di fonte a un sottile “dissing” tra posizioni diverse espresse in una forsennata alternanza al microfono modello assemblea o riunione di “posse”,  rispetto all’opportunità di mettere in scena con la guerra in corso proprio un autore russo. 

Davanti a noi la realtà di un blocco da parte delle attrici ucraine, della loro impossibilità emotiva soprattutto, oltre che razionale, di poter mettere in scena un autore che conoscono benissimo e hanno amato e il cui ritratto capeggia enorme sulla parete dell’Accademia di Kiev (nato e cresciuto sul Mar Nero dunque di fatto geograficamente ucraino, a stare alla geografia instabile del XXI secolo anche se dopo il 2014 la casa natale di Cechov è nel territorio sotto i russi). 

Lo spettacolo porta dentro la comunità, riunita in platea, tutta quella che è stata la discussione anche attorno a queste possibilità, con le molteplici ragioni. Anche la battuta “ a Mosca, a Mosca “ cambia il senso, perché a Mosca è Putin e perché i compagni attori delle ragazze in scena, al momento sono al fronte e le tre giovani attrici non vedo le famiglie da mesi.

Si fronteggiano le attrici italiane e ucraine: Čechov sì perché è il più grande autore russo, Čechov no perché è russo, Čechov sì perché è commovente, Čechov no perché metterlo in scena, per un’attrice ucraina, significherebbe non poter più rientrare a casa. Checov no,  perché la Russia sta usando la cultura russa, boicottata in Occidente perché legata a istituzioni di Stato, , come arma di propaganda. E tuttavia c'è anche l'obiezione che Cechov non solo è paradossalmente ucraino, nato a 56 km dal confine dell’Ucraina di oggi,  estraneo a tutto perché vissuto quando la Russia era l'Impero dello Zar di tutte le Russie.

La discussione o dialettica viene superata in qualche modo, perché sono le attrici stesse che nel raccontare la loro passione per il teatro e il fatto che abbiano studiato così tanto e in maniera così rigorosa dai 17 anni ai 21 all'Accademia teatrale di Kiev, lo hanno fatto secondo la tradizione di una scuola di recitazione che tutti noi abbiamo ascritto sempre per convenzione a “una scuola russa” che nasce da prima dell’URSS e di Putin. 

Ma proprio questo metodo, questa capacità di introiezione profonda della recitazione come un elemento aderente alla vita e di grande forza interiore, di grande attraversamento dell'interiorità, fa capire che il rifiuto di mettere in scena Cechov affonda in un’idea vitale del teatro, a una sua profondità esistenziale.

Così la scelta delle attrici ucraine non è una scelta, ma è una necessità. Un bisogno esistenziale  psichico e politico insieme, di NON (poter) mettere in scena Cechov. Si possono comprendere le molteplici risonanze emotive in un'attrice che dice “Io sono qui a recitare un autore russo e non vedo i miei genitori da un anno”. 

Così il teatro si trasforma da luogo della rappresentazione ad aggregazione di persone, nella pratica dell'ascolto delle ragioni profondi di qualcun’altro. Ragioni che sono fuori anche dalla dialettica razionale e sono i gesti più delle parole a dirlo: la distruzione dei servizi da thè a colpi di mazza, l’iconoclastia del ritratto  di Cechov accecato (lui che si chiedeva come sarà il mondo tra cento anni)

Insomma il teatro che permette da millenni di giocare con la quarta parete (lo faceva già Plauto) proprio perché ha attraverso il 900 e oggi ragiona a partire da un superamento del teatro NEL teatro, può e deve trovare un limite ( e del resto pandemia e guerra o dittature ci dicono che non sempre il teatro è un gioco all’infinito e non sempre puoi fare tutto quello che vuoi).

Per tutto il Novecento l'arte ha sempre creato opere che tematizzano anche l'impossibilità dell'opera stessa. Così il teatro, da Pirandello alle avanguardie di fini 900, tutte mostravano i meccanismi del teatro dentro il teatro. A ribadire anche il rifiuto di un naturalismo, dell'illusione di credere alla illusione stessa del teatro. 
 Forse Baraldi e le tre attrici ucraine indicano una scelta che segna l’esaurimento di questa poetica dell’impossibilità e di un ritorno di narrazione ed etica insieme. L’impossibile del teatro è sublime, ma forse rende necessario tenere conto di limiti più umani. Qui è più semplicemente: “non ci è possibile mettere in scena, adesso, il più grande autore teatrale di lingua russa”.

Qui il limite è in una ragione che non ci appartiene, perché non viviamo quella situazione  e che è fuori dalla scena e fuori dalla recitazione, sebbene dentro un quadrato di ri-significazione (o se si vuole ri-sacralizzazione) di uno spazio con il pubblico attorno. Personalmente l’ho colto in un dettaglio, che arriva al termine non solo dei racconti dolorosi di cosa sia significato quel 24 febbraio per le attrici impegnate in scena quel giorno, ma della scena finale proprio di quello spettacolo in cui le tre attrici, il caso vuole, interpretavano la parte di tre sorelle (non di Cechov). E’ una scena che nessuno ha visto in patria, che vediamo noi, stavolta senza sottotitoli. 

Le loro battute in ucraino sono le ultime dello spettacolo. Buio, luce, applausi

Quando si accendono le luci, le tre ragazze avevano una visibile commozione. C’è posto per queste lacrime, forse però come verità che sta fuori dal teatro. 

È una verità irriducibile a ogni argomentazione,  che arriva dal corpo, è una verità profonda che impone di superare ogni dialettica filosofica di ragionamento sul teatro, lasciando spazio alla risposta delle emozioni, intese non come sentimentalismo superficiale, ma come ciò che è alla base della costruzione linguistica del senso, che arriva dopo il passaggio di uno stato fondamentale per ogni attore, la capacità di empatia

 Quel pianto, quella lacrima vista dopo gli applausi, non era richiesta dalla “ recitazione”, nemmeno da quella vera dal racconto vero che Baraldi ha proposto alla fine alle attrici, ma era la loro parte di verità era “la parte” di loro, in sé stesse, una “parte” che porta nell’ambivalenza semantica di questa parola, tutto il suo carico multiforme.  

Mi interessa quella lacrima che spunta dagli occhi dell'attrice che ha terminato lo spettacolo con il finale di un'opera che non è andata in scena per la guerra. In cui io ho sentito propriamente mettere in scena l'incertezza per un futuro di queste ragazze di ventun anni. Che cosa faranno? Dove potranno fare il loro lavoro e anche realizzare il loro sogno di attrici, quando torneranno e se torneranno? Ecco che la verità di Cechov, l'aspirazione delle tre sorelle ad andare a Mosca, diventa questa tensione malinconica e desiderante delle tre attrici di tornare a Kiev. 

Tornare a casa e un giorno poter dire la battuta “A Mosca A Mosca” come una liberazione.

Foto di @Luca Del Pia


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