sabato 15 luglio 2023

GILDA POLICASTRO, "LA DISTINZIONE" (Forse è il male di vivere? Chiedi a Google)

 


Personalmente credo che sempre sia una poesia dell’io, per quanto certo anche un Io che decide di abolirsi oppure, meno radicalmente, di farsi mezzo d’eco che viene attraversato da un ça parle collettivo, resta nei dettagli come Dio.
Lo penso anche per questa nuova raccolta di Gilda Policastro, dove “ il più lurido di tutti i pronomi” (Gadda) ci aspetta addirittura sulla soglia, ovviamente per negarsi in copertina a dire che “io, forse, non sono nemmeno qui ad ascoltare”.  

“La distinzione” pubblicato da Giulio Perrone Editore, è il quarto libro di poesie di Gilda Policastro, che viene dopo un suo importante saggio (“Ultima poesia”. Scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo novecento ad oggi”, Mimesis, 2021) e mi pare di poter dire che c’è una mutazione anche nello stile di Policastro, in cui forse il soggetto si rende invisibile facendosi ascolto, accentuando l’accoglienza di una pluralità di voci, del reale, in cui non c’è più distinzione tra la voce del poeta e le altre voci.


Il titolo della raccolta  cita esplicitamente quello del famoso  libro del 1963 del sociologo Pierre Bordieu, che analizzava le distinzioni di gusto tra le vare classi sociali. Policastro in qualche modo ne ribalta il senso: non c’è più una specificità, un patrimonio culturale che distingua innanzitutto il poeta dal resto della società (opposizione romantica sopravvissuta anche nelle avanguardie) né, più in generale, tra chi legge libri e chi no, essendo il gusto medio ormai dilagante, pervasivo, ma essendoci anche contaminazioni e trasversalità sociali, tanto che nessuna classe è più definibile con una sua cultura e valori.

Il poeta, che non è persona distinta dalle altre, come tutte è immersa in una nuvola gassosa del linguaggio, LaLangue la chiamava Lacan. Policastro rende concreto, con un modo diverso di fare poesia narrativa, questo stare  immerso, collocando l’io-che-ascolta in alcuni ambienti (strada, bolle sociali, dispositivi e soprattutto l’universo medico-farmacologico-ospedaliero).
Con “La distinzione” Policastro porta il testo dentro questa nube o pulviscolo di segni che è il mondo circostante, reale e storico, di oggi ma nella sua inattuabilità, con riferimenti in presa diretta, di comunicazioni, frasi, locuzioni, slogan, luoghi comuni, il ça parle del parlato, il disincanto fonico (parafraso qui perché siamo agli antipodi, il titolo dell’ultimo libro di Mariangela Gualtieri) del nostro tempo che abita il mostruoso linguaggio collettivo che dall’inconscio palustre si è trasferito nei social network. Tutto ciò ha modificato l’appercezione di una soggettività che non può che riconoscersi nella disseminazione che mette su carta Policastro, in cui non-è-più-niente. Per dirlo in una battuta, Policastro porta la tradizione millenaria del trobar clus lirico, dentro una sorta di  trobar cloud.

L’apertura forse proprio per questo è collocata in un testo agli albori dell’era social, del 2011, nella sezione “Antefatto”, in cui Policastro rimette in scena con “Precari” un trauma, un dolore, la ferita di una perdita – la morte della madre – con una forma dialogica e invocativa della poesia in cui alla madre (è ancora Mater linguae ?) il poeta che-sebbene-dica-io,    racconta una condizione di instabilità economica generale, di volatilità lavorativa (se va bene mi rinnovano il contratto/ ma devo sorridere carina e ben vestita”, anche se il contratto è  da “ricercatrice”; di statuto del poeta (che può essere anche “un  idiota qualunque” dice ancora in un verso lapidario) che è anche un resoconto amaro dell'essere-stati-gettati(la poeta, noi tutti) nel mondo dalle madri.
La poesia apre il volume e  ricollega a toni e forme di libri precedenti, mostrando anche lo stacco dalla forma della voce di questo libro in cui mi pare di rintracciare un più marcato pluri-linguismo, se possibile, rispetto agli altri facendosi qui a suo modo forma teatrale.

Sicuramente c'è la continuità - che Policastro adopera anche nei romanzi, Il Farmaco su tutti - del conglomerato allegorico dell’Ospedale e più in generale dell’universo medico, sintomatico e curativo ( topos  che pure attraversa il 900 dalla tisi di Mann e Kafka alle poesie ospedaliere di Rosselli e Anedda). Anche la medicina ha una sua letteratura come menzogna, come è noto se il suo testo collaterale è chiamato “bugiardino”.
Policastro lo interpreta a suo modo,  mescolando molta ironia, fino a punte di amara comicità, racconto in presa diretta di una corsia ospedaliera e i modi bruschi del trattamento dei corpi internati (si veda un testo come “Disfagia”) citazioni, modi di dire,  già nella sezione “Sala d’attesa” come un personaggio multiplo che di volta in volta prende l’open-mic dell’Io e dice dal centro del corpo: ”sono morta cercando le malattie di cui potevo morire” e in cui anche questo limine che si riempie di ansie ipocondriache, le uniche visioni del futuro in un tempo di utopie raggelate e mondo a scadenza (il 2050 in cui tutti moriremo avvelenati).

Essere forse questa fenomenologia del sintomatico in cui Policastro smembra ogni oggettivazione del soggetto,  trasforma la precarietà fragile del corpo in una tensione viva del tempo, seppur sospeso e incerto, che fa esistere un noi/voi in questa terra di mezzo: “io sono già morta ma voi non siete più vivi”, citazione ribaltata della biografia di Philip Dick scritta da Carrére che si può forse leggere come un segnale di questa incessante Autobiologia poetica che è “La distinzione”. Forse l’autrice non sarà d’accordo, ma in questi testi io sento molto più Giudici (e certo Magrelli ipocondriaco nel condomionio del corpo) che Balestrini – sia chiaro: il paragone serve più come chiave di senso che non come reale trasposizione stilistica.

Non c’è più distinzione tra verso e prosa (o prosa in prosa ) là dove sopravvive l’andatura versificatoria ha il ritmo largo del narrativo, sebbene interrotto da subordinate, parentesi, e con l’introduzione della costante del parlato. Lacerti che immettono sangue vivo, affermazione di una vita generale, fatta di molte vite che non sono la vita del poeta. Qua e là un soggetto che parla c’è, anche se dice che  “se d’amore si muore/ io vivo d’amore/ per la morte”. 
Il tempo della poesia di Policastro è l’intermedio, lo stare tra il non-più e il non-ancora di morte-e-vita. Lo straniamento è agito continuamente, non c’è più bisogno di creare dei dispositivi allegorici di linguaggio, opere d'arte, so called.

Un sotto-esistere che si manifesta continuamente nella vita-sopra. Non è un caso che si colloca a metà libro nella  sezione dal titolo Intermezzo,  una “Suite depressiva” in nove movimenti, quasi un racconto a sé, in cui la condizione di percezione distorta che il depresso ha del mondo quel suo dire “io no” poi diventi una raffigurazione totalizzante che nella sua “preoccupazione totale” di essere toccato da tuto e tutto non essere di suo interesse (il depresso non distingue), nel  vivere i giorni tra “crisi di pianto al mattino” e “ansia la sera” compone un puzzle di rispecchiamento inevitabile in cui il mondo del depresso legge il nostro mondo come ridicolo: “ti fa difetto la volontà/ dove gli altri spingono” ma quel non-fare mette alla berlina che tutto quello spingere è un vuoto ancor più depressivo, volendo.
il tempo intermedio dell’universo salute/malattia/cura che emerge da “La distinzione” è fatto di attese o non-tempi ( Attesa della diagnosi, fatale).
L’attesa è però una forma di vigilanza, una non-speranza, dubbio sulla cura, che diventa una forma diversa di quello che Heidegger chiamava “essere per la morte”, che cui interessa più come un frattempo – sale d’attesa,  ambienti del pronto soccorso – in cui gli umani tutti stanno in una condizione di “promiscuità” vera livella di fratellanza inevitabile.
Si veda il bel testo “Un nome che può essere Salim” in cui Policastro avvia proprio quella versificazione polifonica, fino all’ingresso del romanesco – un pasticcio dal sapore letterario-gaddiano, inevitabilmente che assume valenza universale come lingua concentrazionaria (ma col “tu democratico” usato dal personale sanitario con i pazienti)
Così  l’ospedale è luogo separato, ortus conclusus ma contenitore globale di umanità, allegoria per interpretare il mondo e a sua volta mondo. Uno “spazio che ci contiene/ insieme al tempo che non passa”  e dove c’è sempre un simil-Io della prima persona ( “scrollo le poesie del poeta operaio”) ma che ascolta, trascrive, si fa interprete di una social catena di umani nel “girotondo” del pretrattamento di ricovero “Siamo in quattro, guardiamo un po’ in aria/ un po’ ci sorridiamo”.
Singoli sparuti “fermi in questo spazio che ci contiene “ tra non comunicazione e boatos della langue-social. Al somalo “che non ha capito /che deve togliersi la giacca// glielo mimo pensando al cianciare brutto/ di ogni Facebook sui cosiddetti #migranti”.

Come si vede l’immersività nella lingua della poesia di ciò che poesia non è (ma come si fa a distinguere, appunto?) viene continuamente agita da Policastro, introiettata e fatta introiettare dal testo,  la langue è anche il cianciare, è la fabbrica dei cosiddetti, è proliferazione di hashtag.  Su tutto sta, come grande produttore di significati pret-a-porter,  l’Impero-Google che è la vera macchina verbigerante di conoscenze. 
Policastro lo usa, dichiarato,  con un curioso impasto di meta-letterarietà: da un lato (vedi la poesia “Gerd”, acronimo inglese per il disturbo del reflusso) ancora una volta l’io, attraversato (come se ingoiasse) da molte voci, è alle prese con un sintomo e usa il motore di ricerca per sapere tutto dei sintomi possibili di quel male, dalla cura alla diagnosi online.
Dall'altro c'è  il richiamo al  googolism è una delle pratiche poetiche del contemporaneo, soprattuto in ambito anglosassone,  analizzate da Gilda Policastro come critico (ma citato più volte anche ne “La distinzione”) che si basa proprio su una sorta di scrittura automatica ma non di tipo psicologico, bensì algoritmico,  fornita dai vari tipi di software interrogati (e ora dal Chat Gtp, dall’Intelligenza Artificiale, a cui Policastro, che già anticipava con intelligenza un tema ora diventato quasi-chiacchiera,  e a cui dedica diverse poesie nella sezione “Dispositivi”).

Siamo sempre dentro il corto circuito del  Pharmakon la parola greca che significa  “veleno” ma anche  “medicinale” e che Platone usò per definire metaforicamente la Scrittura (il filosofo Derrida dedica uno dei suoi più importanti libri a questa non-origine della scrittura come farmaco). Tuttavia, nel tempo di esaurimento delle grandi narrazioni, della critica, delle poetiche, ci resta una possibilità sconfinata di fare poesie plurali senza più poter distinguere cosa è poesia. Policastro pratica una sua poesia ultimativa che riprende – di tutte le ascendenze dichiarate del 900 - la lezione di Sanguinetiche la incardinò in un verso-sentenza: “Oggi il mio stile è non avere stile”.

Tuttavia Policastro non si ferma al negativo. Il territorio dove si colloca la poesia de "La distinzione è al tempo stesso radicalmente originale e radicalmente creative common.
E’ nuovo là dove pratica anche tecniche e filosofie di composizione sperimentali, attingendo direi meritoriamente anche ai linguaggi artistici extra letterari (la Stessa Gilda Policastro guarda ad una delle artiste più importanti degli ultimi decenni, Jenny Holzer, artista concettuale americana che iniziò alla fine degli ni 70 e poi divenne celebre a metà degli anni ‘90 con un’opera “Truism” progetto iniziale ma reso  interattivo per il Web e che poi Holzer ha trasformato, utilizzando frasi che oscillano dal verso poetico alla sentenziosità, toccando il luogo comune o spesso alterandolo impercettibilmente, sempre collocando parole e frasi in genere su supporti digitali luminosi, collocati in uno spazio pubblico).
 Allo stesso “La distinzione” si immerge nel common sense  con l’accumulazione di sintagmi discorsivi con la tecnica che  la stessa Policastro ha illustrato nei suoi studi, diffusa in area anglosassone, chiamata  “eaves-dropping” un lasciar cadere le frasi come foglie,  su un testo, aprendo continuamente degli slittamenti di senso, delle variazioni, innesti, cortocircuiti. Foglie che cadono a creare un “cloud” o un più novecentesco “collage”. L’accumulazione genera la assonanza/dissonanza di cui sempre la poesia si nutre, la sua polisemanticità. Così la poesia è il rielaborazione di un collettivo spoken word.

Gilda Policastro ascolta e non dice (ma poi ovviamente scrive). Non vuole porre in dichtung, in funzione fàtica un Io,  ma lascia accumulare  su pagina ciò che il modo (si) dice,  annotazioni che come sempre – ah l’Io che ritorna – non saranno mai casuali e finiscono poi per avere un suo implicito (conscio/inconscio) montaggio del discorso. A quel punto non c’è nessuna distinzione tra l’io del poeta e il noi che leggiamo, sulla pagina col paradosso che si ribalta: l’io passivamente ascolta proprio noi, il noi-collettivo che invece afferma, parla, sproloquia. Frasi che come nella sezione Inattualissime  galleggiano nello spazio bianco: “Sono molto preso male, introspettivo” “sembra vecchio perché cià un sacco di peli ovunque” -  frasi captate e alienate, che stanno in una loro risonanza, come le frasi della cassiera al microfono: “uno storno alla cassa quattro” pronunciata nel tempio del consumo con un “riverbero robotico” e il “lieve scazzo della divinità lontana” e che assumono forma di ieratica comicità, come un ermetismo dell’assurdo quotidiano (“E’ morto Giulio Giorello, lo incontravo ogni tanto al bancomat”). A me ricorda in qualche modo Arbasino e immagino le poesie di Policastro lette da Franca Valeri.

Quella di Policastro “La distinzione” (ma anche in altri esempi dei libri passati) resta però, scremata l’ironia,  una poesia umanissima e dolorosa, se pur all’opposto del confessional e dell’intimismo, attraversata da un sentimento ironico e lieve della fragilità.
Disseminando le proliferazioni di voci specialmente attorno al tema del corpo, del sintomo, della malattia (fantasmatica o reale) Policastro percorre strade diverse e ultime per rifiutare ogni stile, qui forse anche quello della tradizione dell’avanguardia, perché per quanto “novo” ogni stile è già maniera nel momento della sua riconoscibilità. Utilizzando i topos del dolore, della malattia, della morte, Policastro tenta di percorrere la necessità di affrontare il sentimento del dolore sfuggendo alla sua falsificazione retorica.

L’antidoto alla falsità del sentire è sia denunciarla ironicamente (la poesia  “Blurb” è un concentrato di sarcasmo verso l’editoria, ma tuttala sezione “Libri (anche poesie) l’ironia spazia anche verso gli slam  o la Facebook poetry)  sia sfuggirla. La via di Policastro è un iperrealismo che dissezione il discorso pubblico, mettendo in modo originale non l’io ma ciò che è corpo-dell’io come un test rivelatore di quell’accumulo di parole, restituito con eguale accumulo di dettagli di realtà, cruda, diretta, spesso dichiaratamente e ironicamente a-poetica (“nessuno ha mai detto stipsi in una poesia”).
Policastro mette in mostra pezzi di vita  sfuggendo al rischio di autofiction con l’opposto dell’io: un noi collettivo, un affollamento delle voci cosicché la poesia risulta “parlata” da una situazione. Sono dunque “le voci degli altri”  che parlano in poesia e semmai Policastro sta – e ci pone, ci ritrae tutti -  nella posizione dell’agente della DDR che ascoltava le vite degli altri nell’omonimo film. Ma nessuno può dire: la mia, la nostra vita: ognuno se ne sta, sospeso e in attesa, come detto da tutti, fatto di parole non nostre, spossessato anche della sua propria solitudine. 

 

 

 

 

 

 

 

 


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