Personalmente credo che sempre sia una poesia dell’io, per quanto certo anche un Io che decide di abolirsi oppure, meno radicalmente, di farsi mezzo d’eco che viene attraversato da un ça parle collettivo, resta nei dettagli come Dio.
Lo penso anche per questa nuova raccolta di Gilda Policastro, dove “ il più lurido di tutti i pronomi” (Gadda) ci aspetta addirittura sulla soglia, ovviamente per negarsi in copertina a dire che “io, forse, non sono nemmeno qui ad ascoltare”.
“La distinzione” pubblicato da Giulio Perrone Editore, è il quarto libro di poesie di Gilda Policastro, che viene dopo un suo importante saggio (“Ultima poesia”. Scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo novecento ad oggi”, Mimesis, 2021) e mi pare di poter dire che c’è una mutazione anche nello stile di Policastro, in cui forse il soggetto si rende invisibile facendosi ascolto, accentuando l’accoglienza di una pluralità di voci, del reale, in cui non c’è più distinzione tra la voce del poeta e le altre voci.
Il titolo della raccolta
cita esplicitamente quello del famoso libro del 1963 del sociologo Pierre Bordieu,
che analizzava le distinzioni di gusto tra le vare classi sociali. Policastro
in qualche modo ne ribalta il senso: non c’è più una specificità, un patrimonio
culturale che distingua innanzitutto il poeta dal resto della società
(opposizione romantica sopravvissuta anche nelle avanguardie) né, più in
generale, tra chi legge libri e chi no, essendo il gusto medio ormai dilagante,
pervasivo, ma essendoci anche contaminazioni e trasversalità sociali, tanto che
nessuna classe è più definibile con una sua cultura e valori.
Il poeta, che non è persona distinta dalle altre, come tutte è immersa in una
nuvola gassosa del linguaggio, LaLangue la chiamava Lacan. Policastro
rende concreto, con un modo diverso di fare poesia narrativa, questo stare immerso, collocando l’io-che-ascolta in alcuni
ambienti (strada, bolle sociali, dispositivi e soprattutto l’universo
medico-farmacologico-ospedaliero).
Con “La distinzione” Policastro porta il testo dentro questa nube o pulviscolo
di segni che è il mondo circostante, reale e storico, di oggi ma nella sua
inattuabilità, con riferimenti in presa diretta, di comunicazioni, frasi, locuzioni,
slogan, luoghi comuni, il ça parle del parlato, il disincanto fonico (parafraso
qui perché siamo agli antipodi, il titolo dell’ultimo libro di Mariangela Gualtieri)
del nostro tempo che abita il mostruoso linguaggio collettivo che
dall’inconscio palustre si è trasferito nei social network. Tutto ciò ha modificato
l’appercezione di una soggettività che non può che riconoscersi nella
disseminazione che mette su carta Policastro, in cui non-è-più-niente. Per
dirlo in una battuta, Policastro porta la tradizione millenaria del trobar
clus lirico, dentro una sorta di trobar cloud.
L’apertura forse proprio per questo è collocata in un testo agli albori
dell’era social, del 2011, nella sezione “Antefatto”, in cui Policastro rimette
in scena con “Precari” un trauma, un dolore, la ferita di una perdita – la
morte della madre – con una forma dialogica e invocativa della poesia in cui
alla madre (è ancora Mater linguae ?) il poeta che-sebbene-dica-io, racconta una condizione di instabilità
economica generale, di volatilità lavorativa (se va bene mi rinnovano il contratto/ ma
devo sorridere carina e ben vestita”, anche se il contratto è da “ricercatrice”; di statuto del poeta (che
può essere anche “un idiota qualunque”
dice ancora in un verso lapidario) che è anche un resoconto amaro dell'essere-stati-gettati(la poeta, noi tutti) nel mondo dalle madri.
La poesia apre il volume e ricollega a toni e forme di libri precedenti, mostrando anche lo
stacco dalla forma della voce di questo libro in cui mi pare di
rintracciare un più marcato pluri-linguismo, se possibile, rispetto agli altri facendosi qui a suo modo forma teatrale.
Sicuramente c'è la continuità - che Policastro adopera anche nei romanzi, Il Farmaco su tutti - del conglomerato allegorico dell’Ospedale e più in generale
dell’universo medico, sintomatico e curativo ( topos che pure attraversa il 900 dalla tisi di Mann
e Kafka alle poesie ospedaliere di Rosselli e Anedda). Anche la medicina ha una
sua letteratura come menzogna, come è noto se il suo testo collaterale è
chiamato “bugiardino”.
Policastro lo interpreta a suo modo, mescolando molta ironia, fino
a punte di amara comicità, racconto in presa diretta di una corsia ospedaliera
e i modi bruschi del trattamento dei corpi internati (si veda un testo come
“Disfagia”) citazioni, modi di dire, già
nella sezione “Sala d’attesa” come un personaggio multiplo che di volta in
volta prende l’open-mic dell’Io e dice dal centro del corpo: ”sono morta
cercando le malattie di cui potevo morire” e in cui anche questo limine che si
riempie di ansie ipocondriache, le uniche visioni del futuro in un tempo di
utopie raggelate e mondo a scadenza (il 2050 in cui tutti moriremo avvelenati).
Essere forse questa fenomenologia del sintomatico in cui Policastro smembra
ogni oggettivazione del soggetto, trasforma la precarietà fragile del corpo in
una tensione viva del tempo, seppur sospeso e incerto, che fa esistere un
noi/voi in questa terra di mezzo: “io sono già morta ma voi non siete più vivi”,
citazione ribaltata della biografia di Philip Dick scritta da Carrére che si
può forse leggere come un segnale di questa incessante Autobiologia
poetica che è “La distinzione”. Forse l’autrice non sarà d’accordo, ma in
questi testi io sento molto più Giudici (e certo Magrelli ipocondriaco nel condomionio del corpo) che Balestrini – sia chiaro: il paragone
serve più come chiave di senso che non come reale trasposizione stilistica.
Non c’è più distinzione tra verso e prosa (o prosa in prosa ) là dove
sopravvive l’andatura versificatoria ha il ritmo largo del narrativo, sebbene
interrotto da subordinate, parentesi, e con l’introduzione della costante del
parlato. Lacerti che immettono sangue vivo, affermazione di una vita generale,
fatta di molte vite che non sono la vita del poeta. Qua e là un
soggetto che parla c’è, anche se dice che “se d’amore si muore/ io vivo d’amore/ per la
morte”.
Il tempo della poesia di Policastro è l’intermedio, lo stare tra il non-più e il
non-ancora di morte-e-vita. Lo straniamento è agito continuamente, non c’è più
bisogno di creare dei dispositivi allegorici di linguaggio, opere d'arte, so called.
Un sotto-esistere che si manifesta continuamente nella vita-sopra. Non è un
caso che si colloca a metà libro nella sezione
dal titolo Intermezzo, una “Suite
depressiva” in nove movimenti, quasi un racconto a sé, in cui la condizione di
percezione distorta che il depresso ha del mondo quel suo dire “io no” poi
diventi una raffigurazione totalizzante che nella sua “preoccupazione totale”
di essere toccato da tuto e tutto non essere di suo interesse (il depresso non
distingue), nel vivere i giorni tra “crisi
di pianto al mattino” e “ansia la sera” compone un puzzle di rispecchiamento
inevitabile in cui il mondo del depresso legge il nostro mondo come ridicolo: “ti
fa difetto la volontà/ dove gli altri spingono” ma quel non-fare mette alla
berlina che tutto quello spingere è un vuoto ancor più depressivo, volendo.
il tempo intermedio dell’universo salute/malattia/cura che emerge da “La
distinzione” è fatto di attese o non-tempi ( Attesa della diagnosi, fatale).
L’attesa è però una forma di vigilanza, una non-speranza, dubbio sulla cura, che
diventa una forma diversa di quello che Heidegger chiamava “essere per la morte”,
che cui interessa più come un frattempo – sale d’attesa, ambienti del pronto soccorso – in cui gli
umani tutti stanno in una condizione di “promiscuità” vera livella di fratellanza
inevitabile.
Si veda il bel testo “Un nome che può essere Salim” in cui Policastro avvia
proprio quella versificazione polifonica, fino all’ingresso del romanesco – un
pasticcio dal sapore letterario-gaddiano, inevitabilmente che assume valenza
universale come lingua concentrazionaria (ma col “tu democratico” usato dal personale
sanitario con i pazienti)
Così l’ospedale è luogo separato, ortus
conclusus ma contenitore globale di umanità, allegoria per interpretare il
mondo e a sua volta mondo. Uno “spazio che ci contiene/ insieme al tempo che
non passa” e dove c’è sempre un simil-Io
della prima persona ( “scrollo le poesie del poeta operaio”) ma che ascolta,
trascrive, si fa interprete di una social catena di umani nel
“girotondo” del pretrattamento di ricovero “Siamo in quattro, guardiamo un po’
in aria/ un po’ ci sorridiamo”.
Singoli sparuti “fermi in questo spazio che ci contiene “ tra non comunicazione
e boatos della langue-social. Al somalo “che non ha capito /che deve togliersi
la giacca// glielo mimo pensando al cianciare brutto/ di ogni Facebook sui
cosiddetti #migranti”.
Come si vede l’immersività nella lingua della poesia di ciò che poesia non è
(ma come si fa a distinguere, appunto?) viene continuamente agita da Policastro,
introiettata e fatta introiettare dal testo, la langue è anche il cianciare, è la fabbrica
dei cosiddetti, è proliferazione di hashtag. Su tutto sta, come grande produttore di
significati pret-a-porter, l’Impero-Google che è la
vera macchina verbigerante di conoscenze.
Policastro lo usa, dichiarato, con un curioso impasto di meta-letterarietà: da un lato (vedi la poesia “Gerd”, acronimo inglese per il
disturbo del reflusso) ancora una volta l’io, attraversato (come se ingoiasse)
da molte voci, è alle prese con un sintomo e usa il motore di ricerca per sapere tutto dei
sintomi possibili di quel male, dalla cura alla diagnosi online.
Dall'altro c'è il richiamo al googolism è
una delle pratiche poetiche del contemporaneo, soprattuto in ambito anglosassone, analizzate da Gilda Policastro come critico (ma
citato più volte anche ne “La distinzione”) che si basa proprio su una sorta di
scrittura automatica ma non di tipo psicologico, bensì algoritmico, fornita dai vari tipi di software interrogati (e ora dal
Chat Gtp, dall’Intelligenza Artificiale, a cui Policastro, che già anticipava
con intelligenza un tema ora diventato quasi-chiacchiera, e a cui dedica diverse poesie nella sezione
“Dispositivi”).
Siamo sempre dentro il corto circuito del Pharmakon la parola greca che significa “veleno” ma anche “medicinale” e che Platone usò per definire
metaforicamente la Scrittura (il filosofo Derrida dedica uno dei suoi più importanti libri a questa non-origine della scrittura come farmaco). Tuttavia, nel tempo di esaurimento delle grandi narrazioni, della critica, delle poetiche, ci resta una possibilità sconfinata di fare poesie plurali senza più poter distinguere cosa è poesia. Policastro pratica
una sua poesia ultimativa che riprende – di tutte le ascendenze
dichiarate del 900 - la lezione di Sanguinetiche la incardinò in un verso-sentenza: “Oggi il
mio stile è non avere stile”.
Tuttavia Policastro non si ferma al negativo. Il territorio dove si colloca la poesia de "La distinzione" è al tempo stesso
radicalmente originale e radicalmente creative common.
E’ nuovo là dove pratica anche
tecniche e filosofie di composizione sperimentali, attingendo direi
meritoriamente anche ai linguaggi artistici extra letterari (la Stessa Gilda Policastro
guarda ad una delle artiste più importanti degli ultimi decenni, Jenny Holzer,
artista concettuale americana che iniziò alla fine degli ni 70 e poi divenne
celebre a metà degli anni ‘90 con un’opera “Truism” progetto iniziale ma
reso interattivo per il Web e che poi Holzer
ha trasformato, utilizzando frasi che oscillano dal verso poetico alla sentenziosità,
toccando il luogo comune o spesso alterandolo impercettibilmente, sempre
collocando parole e frasi in genere su supporti digitali luminosi, collocati in
uno spazio pubblico).
Allo stesso “La distinzione” si immerge
nel common sense con l’accumulazione
di sintagmi discorsivi con la tecnica che
la stessa Policastro ha illustrato nei suoi studi, diffusa in area
anglosassone, chiamata “eaves-dropping”
un lasciar cadere le frasi come foglie,
su un testo, aprendo continuamente degli slittamenti di senso, delle
variazioni, innesti, cortocircuiti. Foglie che cadono a creare un “cloud” o un
più novecentesco “collage”. L’accumulazione genera la assonanza/dissonanza di
cui sempre la poesia si nutre, la sua polisemanticità. Così la poesia è il rielaborazione
di un collettivo spoken word.
Gilda Policastro ascolta e non dice (ma poi ovviamente
scrive). Non vuole porre in dichtung, in funzione fàtica un Io, ma lascia accumulare su pagina ciò che il modo (si) dice, annotazioni che come sempre – ah l’Io che
ritorna – non saranno mai casuali e finiscono poi per avere un suo implicito (conscio/inconscio)
montaggio del discorso. A quel punto non c’è nessuna distinzione tra l’io del
poeta e il noi che leggiamo, sulla pagina col paradosso che si ribalta: l’io
passivamente ascolta proprio noi, il noi-collettivo che invece afferma, parla,
sproloquia. Frasi che come nella sezione Inattualissime galleggiano nello spazio bianco: “Sono molto
preso male, introspettivo” “sembra vecchio perché cià un sacco di peli
ovunque” - frasi captate e alienate, che
stanno in una loro risonanza, come le frasi della cassiera al microfono: “uno
storno alla cassa quattro” pronunciata nel tempio del consumo con un “riverbero
robotico” e il “lieve scazzo della divinità lontana” e che assumono forma di
ieratica comicità, come un ermetismo dell’assurdo quotidiano (“E’ morto Giulio
Giorello, lo incontravo ogni tanto al bancomat”). A me ricorda in qualche modo
Arbasino e immagino le poesie di Policastro lette da Franca Valeri.
Quella di Policastro “La distinzione” (ma anche in altri esempi dei libri
passati) resta però, scremata l’ironia, una poesia umanissima e dolorosa, se pur all’opposto
del confessional e dell’intimismo, attraversata da un sentimento ironico
e lieve della fragilità.
Disseminando le proliferazioni di voci specialmente attorno al tema del corpo,
del sintomo, della malattia (fantasmatica o reale) Policastro percorre strade
diverse e ultime per rifiutare ogni stile, qui forse anche quello della
tradizione dell’avanguardia, perché per quanto “novo” ogni stile è già maniera
nel momento della sua riconoscibilità. Utilizzando i topos del dolore, della
malattia, della morte, Policastro tenta di percorrere la necessità di
affrontare il sentimento del dolore sfuggendo alla sua falsificazione retorica.
L’antidoto alla falsità del sentire è sia denunciarla ironicamente (la
poesia “Blurb” è un concentrato di
sarcasmo verso l’editoria, ma tuttala sezione “Libri (anche poesie) l’ironia
spazia anche verso gli slam o la
Facebook poetry) sia sfuggirla. La via
di Policastro è un iperrealismo che dissezione il discorso pubblico, mettendo
in modo originale non l’io ma ciò che è corpo-dell’io come un test rivelatore
di quell’accumulo di parole, restituito con eguale accumulo di dettagli di
realtà, cruda, diretta, spesso dichiaratamente e ironicamente a-poetica (“nessuno
ha mai detto stipsi in una poesia”).
Policastro mette in mostra pezzi di vita sfuggendo al rischio di autofiction con l’opposto
dell’io: un noi collettivo, un affollamento delle voci cosicché la poesia
risulta “parlata” da una situazione. Sono dunque “le voci degli altri” che parlano in poesia e semmai Policastro sta
– e ci pone, ci ritrae tutti - nella
posizione dell’agente della DDR che ascoltava le vite degli altri
nell’omonimo film. Ma nessuno può dire: la mia, la nostra vita: ognuno se ne sta,
sospeso e in attesa, come detto da tutti, fatto di parole non nostre, spossessato
anche della sua propria solitudine.
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