Mi è capitato per caso di andare a vedere una mostra all’Hangar Bicocca, mostra del tutto trascurabile (Gian Maria Tosatti, con lastre di ruggine e oro troppo aderenti a topos pittorici già visti e lontani dal risultato notevole del Padiglione Italia alla Biennale Venezia).
Per compensare la delusione, sono passato per la centomillesima volta a vedere le Torri di Anselm Kiefer nell'ala permanente dell'Hangar.
L’opera di Kiefer ti riconcilia con il mondo dell’arte, sottoposto al predominio del mercato. Kiefer, sicuramente uno dei più grandi – per me il più grande - di questo scorcio di epoca a cavallo di secolo XX e XXI, oppone una sua personale resistenza da dentro quel sistema. Kiefer è certamente uno degli artisti più pagati e ricchi, al momento, ma le sue opere non vanno alle fiere d’arte.
Durante una lezione agli studenti dell’Academia di Brera a Milano (racconta in un volumetto “Kiefer” edito da Rosenberg & Sellier) l’artista tedesco invita gli studenti a “imparare a attendere” e coltivare ricordi e indagare la stratificazione. L’esempio è lo stesso Kiefer, se pur – al contrario di un ventenne di oggi – carico fino allo sfinimento di memoria.
Wenders nato come Kiefer nel 1945, aveva da molti anni incontrato l’arte del suo fratello di rovine, Kiefer e i due si erano detti di fare un progetto assieme già forse più di vent’anni fa.
L’occasione è arrivata solo adesso, il risultato è un’immersione non solo storica, ma anche empatica e tecnica (l’uso del 3D come per l’altro film biopic, “Pina”) nell’opera di un artista che a sua volta fa della matericità, dello sfondamento del piatto della tela – che è più un ammasso di materiali e colori che non un “dipinto” - uno dei suoi tratti caratteristici.
Wenders lo segue, lo riprende, lo ascolta, ne rievoca con materiali d’archivio e con sprazzi di invenzione, la vita. Ma lo fa con un tocco di densità biografica, di fratellanza che dà ancora più valore a un film molto bello, di un maestro del cinema che ritrae un grande artista dell’epoca contemporanea: nelle parti di ricostruzione, infatti i Kiefer bambino è Anton Wenders, nipote del regista e nei panni del giovane Kiefer c’è il corpo del figlio di Anselm.
"Anselm" è una biografia di come la storia incida sulla biografica. E’ un viaggio sospeso tra passato e presente, Storia e Mito, Kiefer recuperato negli archivi e che scava nei suoi stessi archivi degli immensi atelier che contengono la sua opera tra Francia ( l’atelier-museo di Barjac nel sud della Francia è davvero grandioso e solo il cinema poteva restituirne la documentazione adeguata) e la nativa Germania.
Come depositi dove si accumulano le macerie stesse della storia, gli atelier di Kiefer ripresi da Wenders diventano caverne vulcaniche di creazione, dei veri e propri set, e qui la grandezza delle opere di Kiefer trova nell’occhio cinematografico un valido sostegno allo sguardo semplicemente umano di noi che possiamo aggirarci magari nel Palazzo Ducale o al Grand Palais di Parigi per la sua bellissima mostra su Paul Celan.
Wenders placca l’artista da vicino, ci porta dietro il suo braccio, dietro i suoi occhiali, di fianco a lui quando legge Celan.
Wenders ha la capacità di far sentire la "voce di dentro" di Kiefer.
Il regista si ricollega al suo proprio racconto storio, quello del passaggio della Germania con il “cielo diviso” verso la fine della Storia, e sopra la Berlino del 1987 che aboliva il Muro grazie al volo trasparente dei suoi intellettuali-angeli, eterei ma con i cappottoni pesanti, che empatizzavano con l’umanità ferità della metropoli della fine storia, preannunciava quel che sarebbe successo da lì a due anni attorno a quel cielo e attorno a quel muro.
Wenders va indietro, con Kiefer, al 1945, quando i muri erano tutti crollati sotto le bombe alleate, e attorno a loro due, Wim e Anselm bambini, in quegli anni la “distruzione” di cui parlerà Sebald in un celebre libro.
C’era solo macerie e tanto silenzio colpevole. Entrambi si portano nel cuore quella “stanza vuota “ dell’infanzia (Wim filma Anselm nella sua cameretta, insieme a al nipote di Wenders che gli legge poesie).
Cresceranno, giovani ventenni e utopisti, con Kiefer già talentoso artista al liceo, attorno ai primi anni ’60 con la Germania in ripresa, ma ancora chiusa nel silenzio.
E sono negli anni in cui Paul Celan andrà a chiedere a Martin Heidegger nel suo rifugio nella Selva Nera una parola sul perché abbia aderito al nazismo. Heidegger, così fondamentale come filosofo per Celan, quella parola non la dirà mai, lasciando nello sconforto Celan.
Kiefer non fa che indagare questo peso di cenere, distruzione, colpe e silenzi, ferite e illuminazioni, guardando al percorso di Paul Celan come uno spirito guida. Continuamene riannesso a quel passato nero, Kiefer ne interpreta il carico di violenza e metamorfosi necessaria, così da poter liberarsi di quel passato, rinunciando anche al futuro che è stato.
“Noi siamo futuro, quando possiamo rinunciare ad esso” ha detto Kiefer citando il giovane Hegel, perché il suo futuro come quello di Wenders è stato quello di essere figli del nazismo, per Kiefer lo fu alla lettera (il padre di Anselm fu un soldato nazista, e da giovane l'artista alle prima opere performative, scandalizzò la Germania – fino a passare per filo nazista – perché citava proprio quel passato su cui era calato il silenzio.
Di quel passato che è divenuto futuro, Kiefer continua a fare arte, connettendo il nostro presente a quel passato, consapevole che porta sempre su di sé ferita di memoria o dolore dell’oblio, papavero e memoria, per citare la più nota poesia di Celan. E come il poeta ebreo e tedesco di lingua, ma non tedesco come il tedesco, Kiefer usa la vita per comporre la sua arte consapevole che la luce della vita non illumina se non quando brucia.
Il territorio bruciato di una memoria viva e preziosa frammista all’oro, ci dice come fa l’arte a sopravvivere alla sue rovine e mantenersi arte. E’ un arte a rilascio lento, ancora pone domande a quel 1945 e in questo Kiefer non poteva trovare migliore fratello alleato di Wenders. Come se l’interrogazione di Kiefer non approdasse mai alla pace, sempre attendendola, da quei gironi di pace mortale del ’45.
Kiefer attende, alza torri, sono muri che allungano le ombre sul terreno marcito e fangoso a conservare la fiamma gelata che ci ammala da bambini. In questo Kiefer parla moltissimo a noi boomer, a chi come noi è impastato di 900 fino al midollo.
Noi che siamo stati cresciuti nella speranza di quel nascere negli anni ’60, tra oblio e visione della Luna come orizzonte, la speranza di non vedere più “quel “ passato, magari dimenticandolo nell’euforia del consumo capitalista, oggi che vediamo più vicina la morte, ci troviamo nell’Europa del risorgere dei fascismi 2.0.
E di fronte a questo, proprio Noi per primi -di dice Kiefer - saremo futuro solo quando potremo rinunciare ad esserlo, da figli di un passato che non passa.
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