Il libro di Bruno Galluccio “Camera sul vuoto” riprende il percorso dal debutto sorprendente di “Verticali” del 2009 e proseguito nel secondo “La misura dello zero” sempre per Einaudi, libri in cui, in modo assolutamente originale, Galluccio crea un impianto poetico considera nell’orizzonte del suo sguardo anche ciò che come matematico e fiso egli vede della realtà, un reale che in qualche modo potrebbe anche negare, mette in scacco la nostra tradizionale fenomenologia umanistica su cui è costruita la tradizone della poesia occidentale, avanguardie comprese.
Galluccio scrive al confine tra questa tradizione e il sapere scientifico, in particolare l’esattezza sconcertante dell’indeterminato a cui matematica e fisica ci costringono, un paradosso tuttavia reale e non astratto, che è la materia di cui è fatta la materia, la materia che siamo.
Galluccio ha esordito con i suoi libri prima dei successi editoriali di Carlo Rovelli, in qualche modo lo ha anticipato, è un fisico e matematico di formazione come tale ha a lungo lavorato in questo campo, sa bene che solo la formula matematica dà conto compiuto ed esatto della materia, della sua meccanica molecolare, ma le cui conseguenze – frutto di complesse equazioni matematiche – sono impossibili da “tradurre” linguisticamente. Galluccio nei primi due libri è riuscito a trovare una sua sintesi, una sua possibile traduzione.
IN questi ultimi due anni ho letto diversi saggi scientifici: qualche libro sulla quantistica, i libri sui linguaggi delle piante, alcuni saggi di neuroscienziati, alcuni di evoluzionisti, studi su come possa essersi formata la facoltà del linguaggio e dell’astrazione nell’unica specie vivente capace di farlo. Oggi la nuova frontiera etica ed estetica, di rispecchiamento vortiginoso sarebbe l’Intelligenza Artificiale.
Tutto questo sapere ha rimesso in discussione in me l’impianto ontologico su cui, nel bene o nel male, mi ero formato, nella tradizione lirica come nella ricerca, Montale come Zanzotto, si è basata la poesia, e l’impianto era proprio quella soggettività, su cui ci si affanna nelle polemiche letterarie pro e contro “l’Io lirico”. La soggettività ( o una sorta di ontologia per quanto vuota) a me sembra sia sempre in atto nel linguaggio, il poeta anche solo raccogliendolo lo chiude in un testo, il testo è una materia che – letta – alla fine ritorna a un Io, a una soggettività.
Ecco il sapere della poesia è dentro questa materialità del testo, ma anche dentro uno psichismo di ricezione che gli attribuisce un senso. Per quanto leggendo De Saussure, Freud e Lacan o Wittgenstein, Deleuze o chi volete, siano stati i giganti che ci hanno costretto a vedere nel linguaggio una realtà oggettiva e fuori dalla nostra portata, una convenzione che articola e poi modifica il senso della nostra vita, mi è bastato affacciarmi da neofita sul mondo come lo sta studiando la scienza, su come lo possiamo riconsiderare attraverso ola meccanica quantistica, la biologia evolutiva, la paleontropologia, che si sono scardinate in me le convinzioni acquisiti, per quanto io abbia cercato di aggiornarle, di arricchirle – è proprio un altro campionato e un altro sport. Ha messo da parte, in me, come mera convenzione ogni impianto filosofico di tipo psicologico-fenomenologico-ontologico, aprendo però vastità di sapere, conseguenze di riformulazione del senso stesso di scrivere poesia. Fino al punto che mi fa immaginare dei radicalismi necessari che tendono – come già successo non a caso a inizio 900 con le arti, a mettere proprio da parte la parola come nell’arte fu messa da parte la figura, la rappresentazione. Tuttavia, come umani, il linguaggio ci è necessario, ma bisogna prendere atto delle conseguenze immaginative che il sapere scientifico apre dentro di noi.
Questa lunga digressione mi è sembrata necessaria per aprire
il discorso su “Camera sul vuoto” di Galluccio, perché mi sembra che questo
libro, rispetto alla tenuta metaforica dei precedenti, sembra accumulare poesia
dopo poesia, la consapevolezza che neppure quella fuzione tra poetico e
scientifico serve, può essere una inesattezza.
Galluccio in queto nuovo libro segue i passaggi di una riflessione precisa, lo
fa mutando la sua scrittura precedente verso – mi si perdoni il paragone – la forma
di un poema naturalista settecentesco, quasi sottraendosi agli stilemi della
lirica, non confondendosi con nessun illusione ottica di poesia, lirica,
sperimentale o di ricerca, riducendo la concessione al tasso figurativo, facendosi
più asciutto e seguendo più un filo di ragionamento sugli orizzonti di
coscienza che apre il sapere della fisica e della matematica.
La portata di rivoluzione di parametri del reale che queste scienze consegnano
all’umanità è così profonda che incide nel paradigma conscio/inconscio nella
metaforizzazione, così come ce lo consegna la consuetudine; lo stesso per l’idea di tempo e di spazio, l’idea di noi
stessi, nella definizione di che-cosa-è- questo mondo che si dispiega
attorno a noi. Fa vedere in una ottica diversa – e forse li cancella - gli
strumenti tradizionali di ciò che si è data - nella stratificazione anche novecentesca –
come una sintesi di ciò che è la percezione per un poeta, che è basata sul solo
linguaggio. Qui la scienza potrebbe far sebrare tutto obsoleto.
Per questo credo che Galluccio con “Camera sul vuoto” abbia scelto d sottrarsi più possibile al “poetico”
per portare al massimo livello in poesia ciò che si apre come nuovo orizzonte
di conoscenza.
Naturalmente, il linguaggio essendo la convenzione con cui
si giocano le esistenze degli umani, fa
si che la poesia continui a giocare questo gioco di nessun valore, con
cui cerchiamo sempre un fodamento invisibile un non-fondamento, un vuoto che si
tiene su di sé, senza più alcuna dialettica ontologica. Carlo Rovelli nel suo “Helgoland”
affronta questo tema e trova un sostegno alla vertigine di vuoto che apre la
quantistica, nel filosofo indiano del secondo secolo Nagarjuna che elabora i l
concetto del sunyata.
Galluccio, con i presupposti che ho spiegato sopra, riparte
dal concetto del vuoto, sempre nel tentativo di portare il linguaggio
poetico a poter, se non altro, far concepire quel vuoto che non è il niente,
ma il campo di tenzione della materia di espansione di trasformazione e dove non c’è assoluto e nucleo, fondamento del
reale. E lì forse non ci possono essere più nemmeno metafore.
L’importanza di questo libro sta nel fatto che Galluccio mostra le possibilità
del “pensiero” anche nel ritirarsi del “poetante” a cui tendiamo a
riferirci, da Leopardi a Celan, lavorando sulla materia retorica della poesia,
facendo prevalere la concettualità delle scienze, che esse stesse sono
vertiginose, un-heimlich, perturbanti,
sono esse lo scarto dalla norma
che si è sempre cercato nell’infra-ordinario del Linguaggio.
E’ come se Galluccio alludesse, facendo ancora versi certo, al fatto che il
nucleo della questione oggi non sta più nel linguaggio, che sono utili per un’archeologia
del nostro sapere ma non è più lo strumento con cui – tra poesia e filosofica –
possiamo basare le nostre conoscenze. Per questo Galluccio porta all’estremo il
suo esperimento poetico, proprio disidratando di figuralità metaforiche.
Entriamo nelle varie sezioni del libro.
1.
“un punto che non ha una posizione
un inizio che non è un inizio
perché non esisteva un prima”
Questo è l’incipit di “Camera sul vuoto” – senza il maiuscolo, come in tutto il
libro e senza punteggiatura, scelta compensata da un versificare metrico libero
ma con molti residui di misura, ma soprattutto da una sintassi chiara, seppur
con concetti vertiginosi, una sorta di assertività , l’ "adserere" verbo latino, ma
senza la particella “ad” solo il darsi del “sérere” (altro verbo latino per “intrecciare” e
figurativamente “discorrere” “asserire”).
Non si afferma, è la materia che è data noi siamo parte della materia che
cerchiamo di conoscere impossibile ogni discorso soggettività/oggettività –
Galluccio prova un estremo tentativo di trascrizione
linguistica per mostrare come la treccia – per riprendere il latino serere
- sia da considerare già “trecciata” dal nostro stesso osservarla
essendo noi stessi la treccia, l’intrecciamento accade per i nostri sguardi,
diremmo poeticamente.
non ci sono certamente – in questo galluccio è l’erede ultimo di Lucrezio - entità
(né la divina, né l’umana dell’osservatore o del soggetto dicente) che possano
creare o porsi fuori dall’intrecciamento.
I fenomeni, ci dice la fisica quantistica, sono azioni di una parte del mondo
naturale su un’altra parte, non c’è punto di vista, né gerarchia e non ha più
senso negare un “io” come si affanna a
fare l’antilirica, tanto quanto non ne ha affermarlo, perché partire, in teoria
(ma il linguaggio è una memoria evolutiva e poi storica difficile da
scardinare), da un vocabolario in cui è inesistente o tolta la stessa parola, “soggetto”.
Dovremmo, come suggerisce Wittgenstein, evitare “le domande mal poste”. Tuttavia,
noi continuiamo nell’ “azzardo di creare spazio e tempo” nel flusso di un
testo, là dove la fisica li ha rivoluzionati, abolendo di fatto il secondo, nel
concetto di espansione della materia.
La mente non c’entra, tutto è interazione di questa materia.
Si parte da una parete verticale senza
appigli. Qui mi pare – nel punto di incontro di un grande poeta e di un fisico –
sia la preziosa occasione che ci consente l’opera di Bruno Galluccio, di ribaltare
il tavolo di tutte le nostre chiacchiere 900 e postmoderne.
Il libro è composto da nove “sezioni” (mi chiedo se per un matematico come
Galluccio abbia senso la numerologia, per i poeti sì, e nove è numero
dantesco). Nella prima Galluccio dismette ogni premessa, la riduce , di fronte
all’ “universo” che “potrebbe essere nato dal nulla” o da un “disequilibrio
fluttuante di u instante”. Ogni presupposto è in realtà misero esercizio balbettante
: “siamo ancora qui a formulare congetture”.
Tuttavia la poesia si attesta su queste congetture, a volte
cerca un0imamgine per simbolizzarla oppure costruisce una forma di linguaggio
come se possa darsi in esso una fenomenologia alternativa, ma alal fine non può
più permettersi fraintendimenti letterari se ambisce al sapere.
penso ad alcune scritture, la mia stessa, a tutto l’universo diversamente “lirico-assertivo”
per usare la formula di classificazione dell’opera di Laura Pugno, oppure diverse, quella di autori che apprezzo,
come Mazzoni, Policastro o Bortolotti per citare quelle più si collocano fuori
dai canoni ricorrenti della letteratura poetica – ebbene, Galluccio ci porta
in dote la scienza e ci affaccia sull’abisso. Non è il linguaggio il piano del
gioco del sapere.
Siamo tuttavia umani che usano il linguaggio. per
chi prende la parola – nonostante i suoi
limiti di capacità di conoscenza, rispetto ad algoritmi equazioni ecc. – proprio
questo dire in parole è l'unico modo che si dà per una misura scambievole (tra chi ha le competenze e chi no) di ciò che siamo, piccolissimi e speciali,
unici, nel formulare un linguaggio di astrazione (qui entrerebbero in campo anche
le ipotesi della paleontologia e delle neuroscienze, vedi ad esempio Tattersall
e Damasio) e se
abbiamo potuto concepire “la misura
dello zero” per riprendere un titolo precedente di Galluccio.
Si innesta qui il ruolo del linguaggio, Galluccio è – mentre scrive – poeta,
non sta traducendo formule matematiche, anche se ce ne dà il concetto e anche
suo è l’azzardo, nella necessità di utilizzare la materia di tropi esistenti,
per cui in una poesia scrivendo di
questo “ammasso di particelle” che fu il non-inizio dell’universo, le cui
“tracce” “noi possiamo cogliere “ lo definisce con una metafora tutto sommato
semplice, come “bambino”.
Ecco, l’azzardo è qui per me: da una dimensione di sapere vertiginoso, approdare a una
metafora semplice e umana, inevitabile,
perché alla fine il ruolo che ha la poesia è permettere un’interazione di
significati. Ma non c’è bisogno di sperimentare con il linguaggio, l’approdo alla
conoscenza è sulle rote scientifiche. Il resto – il linguaggio – lo usiamo per una
traduzione e tutto sommato possiamo anche essere convenzionali. Così, in un altro
passaggio, Galluccio scrive che nell’universo ci sono “semi” delle “future
galassie”, anche qui metafora semplice.
A fronte di questo ricorrere a tropismi di comunità, sta il
sapere invece vertiginoso e inafferrabile, a cui le asserzioni di Galluccio di
questa prima sezione rimandano che partendo da matematica strumento base della meccanica
quantistica e i principi della relatività portano alla “sfida ulteriore” che
“insidia le certezze/ pone alee nel corpo della conoscenza”. È una poesia che
oscilla sempre tra la composizione di un “essere-al-mondo” umano e
l’indicazione di una verità ulteriore che non risiede affatto nella storia
della cultura così come l’abbiamo conosciuta fino ad ora.
2.
Se la poesia è sta sempre uno scarto linguistico dalla norma, Galluccio porta
la poesia a interrogarsi come il sapere
della scienza del 900 di cui forse solo ora comprendiamo meglio la radicalità,
sia esso stesso il nuovo scarto che dà scacco a quello che filosofi e poeti
hanno cercato dentro il linguaggio anche il più rivoluzionario e poetico.
La scienza ci conferma che si fluttua in un ‘alea, ci restituisce incertezze
impensate. La poesia di Galluccio prova una sua meccanica di probabilità:
nella combinazione di linguaggio comune e conclusioni che scardinato i
fondamentali, si attiva un rinnovamento di combinazioni che formino nei
meccanismi della mente un altro scenario.
In fondo, proprio alla vigilia del Novecento, nel 1897 Mallarmé scriveva “Un
coup de dés jamais n’abolira le hasard” che sembra essere l’avvertimento che ci
danno gli scienziati (e Galluccio tra i poeti): poggiamo sul vuoto, sulla
vacuità, il numero che esce a dadi fermi è una condensazione di probabilità
impreviste che accadono senza legge fissa, né certezze che accada, benché
accadano.
La stessa grammatica, col suo procedere logico e per come è
formata rivela un percorso evolutivo che incide poi sulla prefigurazione di un
principio che in realtà non c’è, ma “la
mente umana tende a uniformare il molteplice/ forse per un bisogno estetico”
scrive Galluccio col suo andamento di poesia in un certo senso leopardiano. Là
dove il conte Giacomo alla fine dei suoi giorni, nella Napoli in cui è nato e
vive Galluccio, vedeva la implacabile
dissoluzione evolutiva della storia, che rende cenere ciò che era gloria,
Galluccio è come se sostituisse il pulviscolo dei quanti a destabilizzare anche
quel patto linguistico che abbiamo fatto come “social catena” di resistere ( oggi la
scienza lo ha ribattezzato oltretutto come il distruttivo Antropocene).
La pluralità indeterminabile deve
diventare il nostro scenario concettuale. È il riflesso di “grandi mutamenti di
scenario” – scrive Galluccio sempre in questa prima sezione introducendo “il
formarsi di particelle elementari” e di “ammassi di galassie”.
in questa innegabile immensità, alla conoscenza tuttavia la duplice condizione
di alea e al tempo stesso di una certa implicita forza di questa specie vivente
singolare che è il Sapiens: “noi siamo
riusciti a ricostruire questa storia/nell’arco di pochi millenni” rispetto ai
miliardi di anni della materia e le centinaia di milioni di anni della
formazione della vita sul pianeta terra. Vivente tra i viventi, la singolarità
di questa evoluzione è pari alla magnificenza di quella dell’universo. [1]
3.
L’azzardo, il salto, lo strappo del velo: le teorie cercando di “eludere”
l’ostacolo che impedisce di vedere l’inizio-che-non- c’è, è “un limite prima
del quale non ci è consentito spiare” , ma la conoscenza sviluppata anche con
quella espansione dei sensi molto criticata che è la Techné (pensiamo a tutte
le obiezioni umanistiche di Heidegger) noi cogliamo
“la radiazione cosmica di
fondo quel mare di fotoni
originati quando l’universo era giovane e rovente”
scrive Galluccio, utilizzando sempre le sue comparazioni naturali e semplici
per teorie niente affatto semplici.
Si può far fatica a sopravvivere a pensare
in questo capogiro di numeri e galassie
Così Galluccio che sembra comprendere come lo choc di
conoscenze che oggi la scienza dà genera in noi una paralisi:
potremmo aver voglia di regredire in uno stato fetale
in cui non sapere più nulla né cercare
ma l’evoluzione ha intrapreso la via
di incoraggiare questa continua ansia di scoprire.
Quel che c’è da dire, lo dico così come è. Il poeta arriva
alla rastremazione assoluta del suo linguaggio che procede tuttavia pensante.
Solo che è il pensiero della vertigine del vuoto.
Lo stesso “vuoto” che compare come lemma sulla copertina bianca del libro di
galluccio, innesca in noi rimandi a sintagmi culturali, ma quel vuoto in realtà (ed è la realtà reale oserei dire oltre la realtà che vediamo) è materia in espansione che “crea spazio e tempo aggiuntivo”. La materia crea
il suo spaziotempo. Galluccio, a fronte di un sapere che si presta ad essere
una rivoluzione concettuale epocale per l’umano
di cui non abbiamo ancora idea, dopo un secolo di scoperte.
Erede di Lucrezio con suo De Rerum Natura, Galluccio affida
ai versi la possibilità di invitare a disimparare ciò che sappiamo, per
lasciare spazio vuoto alla conoscenza del nuovo.
La “Sezione 2” riconnette la storia alla struttura percettiva: “le colonne di
Atene vanno/ ad allinearsi nella nostra
mente”. Sono “ostie della carne” “profondamente calate nella storia” a fronte
di queste coordinate fenomenologiche sta un sapere che sembra mettere in scacco
tutto.
L’aleatorietà in cui ci getta il precipizio delle particelle
che collassano “alla nostra osservazione” e misurazione – una delle teorie più
affascianti e sfuggenti della quantistica, l’entanglement - “non è decadimento o perdita/ ma il
passaggio da una nuvola di possibili”. Ci dovrebbe essere quasi consolazione,
come una beatitudine di apertura verso “infiniti futuri” che possono nascere da
questa condizione che Galluccio riporta continuamente a misura di un quotidiano.
I “segnali” sorprendenti che arrivano dall’universo “come le
voci umane che giungono da una camera adiacente” sono un ascolto che “richiede
tutto l’impossibile” di chi deve assumere la relativa posizione con immediati
risvolti di disinnesco ontologico : “ciascuno va avanti ancora per poco/ e sa
che non potrà conoscere risposte/ ai quesiti che lascerà in sospeso”.
Sempre in quello smottamento, nel bradisismo della grammatica che rivela il suo esser cava di fronte all’insensatezza di “soggetto-oggetto” a cui ci ha abituato la filosofia millenaria (“le regole grammaticali distrutte nell’incendio/ lo sforzo mentale e il disordine ridotto in polvere”) fanno delle poesie di Galluccio una sorta di sconvolgimento allucinatorio reso con il rigore del ragionare da scienziato, sebbene il risultato possa ovviamente farci sentire in una dimensione che – per fare un paragone – ci può dare la terza serie di Twin Peaks in cui l’eterno ci guarda dormire sognando di osservare la tv in cui una storia sfida ogni possibile soluzione.
“lascio il mio giardino verso l’origine del mio giardino
niente fiori ma solo
nome dei fiori
nessuna passeggiata ma solo l’intenzione”
Sapere è stare e non stare, in una “pre-forza che sovrasta il progetto” e
dunque ci rivela che non c’è nessun progetto e nessun architetto. Come possiamo
vivere così? Se è dentro un esperimento (quello della “doppia fenditura” che fa
apparire la luce sia come corpuscolo se osservata tramite la rilevazione sullo
schermo , sia ondulatoria se registrato il suo movimento di passaggio delle
fenditure dello stesso schermo) ci spiazza e dilania nell’indeterminato tra più opzioni. Concepito questo, venuti a conoscenza di questo, Galluccio avverte: poi “bisognerà ricominciare/
con i gesti rallentati della sera”.
E’ verso questo quotidiano che vira poi “Camera
sul vuoto”, come vedremo.
Nella poesia di Galluccio, insomma - provo a dirlo forzando naturalmente, trattandosi di temi cruciali in questo passaggio d'epoca - non è più il piano del linguaggio a
rappresentare in qualche modo una mimesi di una forma di sguardo, di esistenza
in vita e psichica, ma è proprio in una poesia che tenga presente le teorie scientifiche, il contenuto stesso di quel sapere che esercita la sorpresa, lo scarto. Resta però il valore della torsione del linguaggio che
opera Galluccio per contenere in esso quel sapere, a generare una grammatica
di scarto in una diversa forma di
sperimentazione con la materia delle parole (con la sua astrazione neuronale, il linguaggio e il suo "salto " speciale nel corso dell'evoluzione merita un capitolo a parte, qui lo lasciamo sullo sfondo).
Venendo all'accenno al quotidiano della vita di tutti, come si diceva, il libro via via che procede verso le sezioni finali sembra tornare più il primo livello di realtà, “l’ambiente” col suo “stato di abbandono” coi suoi “messaggi terrestri”
graffiato sui muri. E’ l’ordinario il ciò che appare allo sguardo. Al suo
opposto, la vertigine dello “sviluppo del vuoto/ visto dalla camera chiara” perché
l’ottica fisica delle nostre esistenze cerca “la dimensione dell’universo che
manca” ma ancora una volta il vuoto è ciò che viene creato dalla nostra espansione
di conoscenza che ci permette di superare la nostra “dimensione insondata del
non sentire”.
E’ come se improvvisamente verso la
fine, l’esistenza assediasse questa camera
sul vuoto, riportasse a paure, cattiverie, schiacciasse il soggetto fino
alla cancellazione (“non resta niente di
me”) una “traccia oscura”, un passaggio di spettro confinante tra ombra e
invisibile, che “ha negato il giusto
posto alla parola”, chiuso in una corazza, “l’angustia delle cose” del mondo, il
“freddo disperatamente vero” della realtà, fatta di insufficienze, mancati
arrivi, mancata luce delle parole, lo stesso cielo è “il lato oscuro di un soffitto” su cui pesa il carico dei “secoli”.
Spira improvvisamente
un vento di pesanteur senza
grazia dei giorni: “resta sempre meno da dire” scrive Galluccio, in una delle
tanti notazioni in apparenza tra malinconia e pessimismo, ma a questo punto non siamo più nell'ordine della psicologia o della fenomenologia esistenziale, nella filosofia.
Chi sta, che lo si chiami "io" o una particella, il cosmo, sta nella materia e nel tempo che non esiste come spiega da un secolo la quantistica, il suo stare è la metamorfosi, in una espansione infinita.
Sia presa come reliquia filosofica, questo termine, pesanteur: pesa
il “paesaggio angusto” di quella che resta la vita umana nella storia, su cui
incombono i “morti” che “sanno molte cose di noi che non ammettiamo” e
improvvisamente la visione del libro sembra una sentenza di condanna allo
scacco, nella dimensione di camere come piantate nella terra, nel profondo di un
Ade del quotidiano: “Si ignora gran parte dell’universo da questa prospettiva/gli
occhi non usano andare in cielo/ inutili adesso le stesse le galassie”: come se
tutto quel che è stato fato crollasse in questo qui ed ora dove “è imbrogliata
la nostra sopravvivenza”.
La scena del testo si affolla di parole
come “carenza” e “demoni” come se il poeta parlasse da una posizione
sprofondata per una “sconosciuta forza gravitazionale”.
Come
se qui sapere scientifico e dettato (sottratta ogni possibile metafora) coincidessero
a rendere la poesia uno spettro, la possibilità stessa della poesia una delle
tante minime entità, nessuna speciale di fronte al cosmo :
“ e d’altra parte
sappiamo
che è la massa oscura a tenere assieme l’universo
e l’energia oscura
che lo porta a disperdersi”.
Lo scacco certo è tra l’immensità del campo da esplorare e la forza del singolo
che conosce. Ma pure l’esistenza ci fa
vivere lutti, dolori, scomparse: “io sono testimone della mia mancanza” e della
“mancanza del mondo” e mentre “il morente/ ha lasciato le sue note minuziose”
queste minime pratiche sulla soglia tra la vita e la morte - sebbene i sapere a cui si attinge non ragioni più in termine di vita e morte, tutto è materia in trasformazione.
Anche per questo il peso: si spalanca un vuoto
denso, cupo, in cui “la materia ritorna materia” in una sorta di lotta che si
svolge tra il corpo, l'omeostasi dei viventi con le nostre emozioni, chi è sul “letto
della morte” e dall'altro il corpo di chi è “accanto” e che sente la precarietà e il
desiderio di uscire da quella gabbia di esistenza che è il nostro granello di polvere evolutivo.
Alla fine, quel tempo “solenne” dell’evoluzione del cosmo studiata in teorie
precipita nella semplicità del “momento” , l'estremo a cui nonostante la scienza
non si sfugge: la morte. E' proprio questo il punto drammatico: la morte noi la ereditiamo dai nostri morti, ci siamo nati, siamo stati formati in quella dialettica di confine.
Se la coscienza il sapere, la scienza ci prono a nuovi parametri, quell'eredità rimane. Parafrasando un titolo del libro di Anselm Kiefer che pure ha dialogato con questi temi, tra evoluzionismo e Celan, la morte sopravviverà alle sue rovine e così fa la poesia che cerca da sempre di affrontarne il limite.
Accade questo, almeno in questa fase d'era antropocenica, poi chissà: la conoscenza ci sta aiutando a pensare diversamente, ad abbandonare i vecchi saperi anche quelli più nobili, ci aiuta a capire come si possa dire che non
muore mai la nostra materia (quel famigerato "nulla si distrugge se nulla si è creato,") ma la
morte resta nelle nostre mani come ci è stata consegnata da chi non c'è più, come un mistero.
Resta ciò che era, resta il senso del sacro, e un senso del tragico:
così la morte appare a Galluccio “un agguato fin dal primo respiro”.
È dunque leopardianamente, in questo scacco da
sempre che è l’esser nati, nella morte e nella solitudine del morte, che si consuma la sfida tra scienza e senso
del destino dentro la nostra psiche, la cameretta del poeta, la camera sul vuoto, la cella da dove noi tutti siamo e nasciamo, affacciati sull’abisso.
NOTE DI ANALISI ULTERIORE
Aggiungo qui materiali di analisi, più dettagliata di alcuni testi, per chi voglia approfondire
In un testo come “hospice” passano come fantasmi i degenti “emergono dalle pareti uomini senza dolore” anche essi in una dimensione senza tempo e spazio di “geometrie disinfettate”. Ecco che come osservando l’ignoto dell’universo, quelle presenze ci affidano “notizie sul proprio freddo” i “i proprio frammenti della memoria/ affinché non vadano perduti” e questo contatto cerca proprio nell’indefinibile della conoscenza della fisica un proprio correlativo concettuale più che oggettivo o linguistico : così di fronte a questi segnali dall’ ospizio “rimaniamo in uno stato imprecisato/ come nella nuvola quantistica/ dove un evento può essere vero e non vero/ nel medesimo istante presente/ o nel medesimo futuro”.
La
psicologia cerca alternative a sé stessa, chiamando in causa proprio l’alea di
tempi e spazi inesistenti, le “nuvole dei possibili “ che si aprono dentro la
psiche in cui abitano le “storie impossibili”- ora, rispetto all’immaginazione,
ma non negandola anzi utilizzandola, sono gli stessi esperimenti di fisica che
rivelano l’impensato: “i campi di forze
di cui è disseminato il mondo/
influenzano il tuo cammino” dice Galluccio fisico a Galluccio poeta.
Le
“scomposizioni spettrali” sono in lotta con la ricerca di “teoria unificante”. Questo però non è solo un problema
filosofico-scientifico, apre un capovolgimento, un sovvertimento, un’afasia:
“quelli che neutri nel giorno separato parlavano/ e piegavano soffermandosi sui
dettagli del mondo/ ora non hanno più fiato per la molteplicità dei quark”.
Tutto ciò ci getta in una condizione di nuovo Geworfenheit, un essere-gettati “nudi/ come ritornati all’inizio del mondo”. Ricorda la scena di fuga mentale nelle galassie che chiude 2001 odissea nello spazio, un impero della mente inesplorato ma che non è “nella” mente, la mente è parte di questo universo, che ci guarda quanto noi lo guardiamo, che “è” tale perché lo guardiamo, semmai abbia senso dire osservazione, forse è più giusto dire interazione, relazione, la sostanza che la materia tutta è.
La luce e suoi corpuscoli avanzano ma sono “oltre la nostra limitata comprensione” nonostante la “fatica dei calcoli”. Tutto è cieco, forse la luce stessa oltre che noi, “la cecità avanza sull’asse/perpendicolare al vuoto”. Questa è la condizione esistenziale con cui dobbiamo misurarci, a fronte non di assenza di fondamenti, ma a fronte di una rivoluzione (scientifica) degli stessi (e forse neppure la metafora fondamento ha senso).
Qui
Galluccio pare connettere quei frammenti ai “residui dei nostri frammenti
desideranti” e in un doppio movimento quasi mistico, se volessimo ragionare con
categorie antiquate, quei frammenti “si
arrendono al proprio desiderio/ sono perduti”. Si tratta, chiudendo la “Sezione
3” di fare i conti con la portata di questo vuoto in cui si cade.
Non bastano
più le pur ampie possibilità dell’immaginazione (“una borgesiana promessa/ di
archivi e di specchi”): l’avventura della conoscenza sperimentale “a via
Mezzocannone sedici” (Napoli, l’indirizzo del Università Federico II, dove è
iniziata la formazione di fisico del poeta)
aprono forme di conoscenza dalla concettualità vertiginosa. Così “il
gabinetto di Faraday” porta insieme “esperimenti di elettrostatica e destino”
che non lasciano illesi o cambiano la risoluzione mentale delle immagini dello
sperimentatore.
Siamo sulla frontiera di “pensieri
collimati” di un poeta come Paul Celan a cui Galluccio dedica una poesia.
L’autore tedesco forzava ogni elemento della lingua nella sua sperimentazione
con il tedesco della vittima che si generasse autonomo dalla lingua
apparentemente identica dei carnefici e i in cui potessi sopravvivere
l’impossibile di chi è stato fatto polvere, dissolto nel nulla dei campi di
sterminio, così come “il laser”
scandaglia la materia “per ricomporre l’integrità sulla retina/ i possibili
prima che diventino reali”. In questa apertura di irrealtà manifesta, Galluccio
conduce il suo percorso in cui poesia e fisica cercano un’alleanza .
Stanno su una frontiera dove combaciano punti, come scrive Galluccio nella
poesia successiva (“frontiere”) e sono ”due punti uguali ma irrimediabilmente
incompatibili” eppure sono la frontiera.
E’ la scienza che disinnesca il rischio
orfico della lirica, senza però cancellare la sfida dell’inconosciuto perché la
scienza nel 900 ha soprattutto imparato rendere parte del proprio processo e
delle proprie conclusioni anche l’indeterminato, la probabilità, il non
(ancora) conosciuto che va inteso come sondabile.
L’immagine
della “sonda” chiude la Sezione 4, come “amo ai limiti dell’universo”, il
“satellite” nella sua doppia funzione di trasmettitore dal cosmo e osservatore
della nostra condizione terrena. Lo stesso fa lo sguardo di Galluccio che vira
verso l’orizzontale di alberi stazioni,
riprende forza la coscienza emozionale (“cerchi di assuefarti al timore dei
giorni a venire”) gli ambienti domestici ma il senso delle parole cercato “da
un’altezza nuova” si “inceppa” e le regole grammaticali “distrutte
nell’incendio” e così il microcosmo personale delle “ore nei letti/
regrediscono alle svolte millenarie” come se il paesaggio onirico mentale del
singolo potesse connettersi con la svolta della rivoluzione cognitiva
testimoniata da “incisioni rupestri” (che sono molto più di elementari disegni
di un’umanità bambina e testimoniano di attività profonde e complesse,
testimonianza di un fenomeno enorme che è l’insorgere di una capacità di
astrazione sempre maggiore).
Anche se si è stati “in disparte” ogni singolo
uomo ha attraversato la storia, il tempo in una solitudine connessa al
“passaggio verso universi paralleli” come quando un transito sul “ponte della
tangenziale” coglie nelle incrinature del cemento “salti di qualità verso
dimensioni che non sapevi” un “aprire porte all’infinito”. Ecco, possiamo
misurare il tempo dell’infinito, partendo dal topos leopardiano del nostro
canone, misurando ora la vertigine potremmo dire anche solo al di qua della
siepe.
E’ un
infra-infinito dell’ordinario, quello che si apre nel microcosmo della materia
studiato ad esempio dalla fisica quantistica. Stavolta è la scienza, è
“l’esperimento” che svolge la funzione
di innesco dell’immaginazione, la siepe è nel laboratorio. Sono gli stesi
scienziati a chiedere alla poesia quasi un esercizio di pensiero laterale che
spesso è utile per le scoperte che necessitano di immaginare il non conosciuto,
l’aldilà oltre la siepe.
[1] Confesso che sia per le conseguenze
della teorie della fisica quantistica sull’aspetto evolutivo di tutta la matria
compreso la vivente, sia per le ridefinizioni del percorso evolutivo negli
studi ultimi della paleoantropologia (Ian Tattersall e il suo “primate
pensante” nonché quel che abbiamo di comune e diverso nella struttura
percettivo-neuronale tra specie (vedi Antonio Damasio “Sentire e conoscere”)
per cui ad un certo punto diventano “omeostasi” anche le costruzioni del
linguaggio immaginative, che pure provocano sentire e sono forma del conoscere
(e il conoscere è l’evoluzione di quelle soluzioni alla necessità di
sopravvivenza per cui tutte le forme viventi hanno un “ethos” comportamento e
il comportamento è già un linguaggio)
tutto questo fa pensare alla specificità di questo vivente tra i viventi che si
è certo arrogato la pretesa di dominare il mondo, come Prospero nella Tempesta
di Shakespeare, ma che lo ha fatto anche grazie a questa che non c’è dubbio sia
una capacità eccezionale di cui parla Galluccio: saper ricostruire e narrare
una storia di milioni di anni, possedere il linguaggio e il pensiero astratto.
Il precipizio e il volo infinito del primate-sapiens stanno in questo “salto”
come lo ricostruisce Silvia Ferrara ne
“Il salto. Segni, figure, parole: viaggio all'origine dell'immaginazione” . In
fondo l’antropocene inizia in quel salto, in quel vuoto superato.
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