"C'è molta sofferenza nel mondo e c'è, in quantità uguale, molta infanzia. Queste due materie si fondono in una sola. Lo spirito dell'infanzia è insopportabile per il mondo. L'infanzia è quello che il mondo abbandona per continuare a essere mondo. Quello che abbandoniamo non muore e vaga, errante, senza più conoscere riposo. Il dolore lo accompagna." (da "Mozart e la pioggia “ di Christian Bobin)
Quando ho
letto questa frase di Bobin, avevo appena finito di leggere, appena uscito, il
nuovo romanzo di Rosella Postorino, “Mi limitavo ad amare te” e ho trovato che
contenesse un chiave di lettura per il romanzo.
Parto subito dalla mia reazione di
lettore: il libro mi è piaciuto molto, l’ho trovato un grande romanzo europeo,
in sintonia con una nuova ricezione sociale di narrazioni, non solo letterarie.
Da un lato il richiamo ad una grande tradizione, dall’altro capace di cogliere un
sentire che – partendo da me – mi sembrava legato ad una condizione
esistenziale di chi è cresciuto, adolescente e giovane, poi maturando, a cavallo
dei due secoli con una storia che segnava proprio la decadenza dell’Europa.
Poi ho letto sulla rivisat online "Snaporaz" una recensione negativa di un critico che stimo molto, Gianluigi Simonetti, di cui ho letto i libri e leggo le recensioni quasi sempre trovandomi d’accordo, ma stavolta no.
Simonetti è non solo un critico militante di stampa e web è studioso, accademico. Io non sono né l’uno né l’altro, nella mia condizione imperfetta ho provato a chiedermi non tanto cosa non aveva capito Simonetti, che pure disseziona strutturalmente il testo in modo corretto, ma forse cosa avevo capito io e che mi differenziava, pur avendo una formazione letteraria che guarda allo stesso Olimpo critico di Simonetti.
Quello che segue è dunque un lungo post in cui io stesso metto in discussione la mia formazione letteraria e universitaria, nella quale sono cresciuto e che in qualche modo ho in comune con Simonetti (lui poi ne è diventato il continuatore e il suo “la letteratura circostante” è per me un testo di riferimento) Quindi di fatto più che una critica a Simonetti è una sorta di autocritica, di fronte a un romanzo che ho letto con piacere e con commozione.
LA commozione è proprio una questione determinate, il pathos – o il patetismo –
nei testi. Cito subito la chiusa finale di un altro libro che io lego al romano
di Postorino, ed è “Tasmania” di Paolo Giordano che finisce così: “Scrivo di
ogni cosa che mi ha fatto piangere”. Che ruolo ha la commozione come affioramento
emotivo di un’empatia? Forse nella differenza di reazione tra Simonetti e me c’è
un divario tra empatia e ideologia? O tra empatia e narratologia?
E dunque, per chi avrà pazienza, provo a spiegarmi.
“Mi limitavo ad amare te” pubblicato da Feltrinelli viene dopo “Le
assaggiatrici” e tutti e due segnalano un’attenzione di Postorino per la grande
storia, dentro cui l’autrice colloca proprio nel focus della scrittura che descrive
con attenzione delle emozioni vissute dai protagonisti (lì giovani donne, qui bambini
e teenager) dentro dinamiche più grandi di
loro e questo focus parla di cose che ci sono più vicine. Postorino entra nella
Storia per continuare a dirci qualcosa del presente.
Qui, in “Mi limitavo ad amare te” mi sembra di poter dire: la salvaguardia di
una condizione, l’infanzia, come ultimo baluardo da cui far ripartire un senso
dell’etica.
Certo Il pensiero va Elsa Morante: “il
mondo salvato dai ragazzini” è diventato una formula. Qui non si nasconde di
guardare a “La Storia” (Postorino è un’importate editor e persona intelligente,
quindi ritengo he il modello sia anche voluto e abbia un senso).
C’è un comune atteggiamento etico con Morante, da cui consegue una postura
della narrativa, non a casa da cui ripartire, come fece Morante nel 1974 non
senza gran trambusto e reazioni negative.
Cosa facevo io mentre
la storia accadeva?
Mi limitavo ad amare te
Potremmo iniziare qui, dai due versi di una poesia di Izet Sarajlic, poeta bosniaco da cui è tratto il titolo (Postorino li cita, in nota, Simonetti dice che utilizzare solo il secondo è “limitativo” appunto alla sola sfera emozionale, sentimentale, ma io non concordo, perché in tutto il romanzo – anche con attenzione documentale filtrata poi in narrazioni e descrizioni – è pienamente presenta la storia e le sue ragioni o sragioni). I versi sono citati da uno dei ragazzi protagonisti del romanzo cita in una scena chiave del libro.
E’ un distico che contiene i due
elementi che si fondono, l’infanzia e la storia. Riprendendo il brano di Bobin,
“l’infanzia è quello che il abbandona per continuare ad essere mondo. Per
continuare ad essere “la Storia, per continuare ad essere “lo scandalo che dura
da diecimila anni” per dirlo con Elsa Morante e – come ha scritto proprio
Postorino in un intervento sulla Stampa dedicato ai bambini vittime
dell’ennesima guerra europea quella in Ucraina- “Che cos’è la guerra se non la
manifestazione più pura della crudeltà esercitata sulla vulnerabilità dei
nostri corpi? Chi è più vulnerabile di un bambino in guerra?”.
Il segmento di Storia che Postorino ha scelto è quello di una guerra in Europa che in qualche modo è stata rimossa trenta anni dopo (e forse nemmeno ben percepita mentre si svolgeva a poche decine di chilometri da casa nostra): la guerra dei Balcani. Era sommersa in fondo alle memorie, fino a quando una nuova guerra che si sta svolgendo nel continente ci ha fatto ripensare a questa pace occidentale che non è propriamente tale.
Il romanzo ha per protagonisti alcuni bambini e adolescenti di Sarajevo investiti nel 1992 dal conflitto dei Balcani che ebbe come epicentro la capitale della Bosnia. Sono Omar e Nada, principalmente, ma anche i lori rispettivi fratelli, Sen e Ivo più grandi, quest’ultimo poi arruolato, e infine Danilo, anche egli più grande dei primi due. Le storie di Nada e Ivo e Omar, si intrecciano con quelle di Danilo, figlio di una copia di giornalisti, perché tutti i bambini orfani veri, ragazzini lasciati o abbandonato o semplicemente come Danilo, affidati, si ritroveranno tutti esuli, strappati alla loro città, alla madri soprattutto, verso una vita salva, ma infelice. Il romanzo seguirà poi questi protagonisti nel loro destino italiano, attraverso i decenni, fino al 2011. Per tutti sarà, anche se in modo diverso, un destino di separazione, di strappo dalle radici dagli affetti e anche dai fantasmi dei loro genitori. Per tutti poi un tentativo di identità ricostruita, di pacificazione e riconnessione dello strappo, sutura per quanto fragile e sempre dolorosa.
C’era la storia, il massacro che incombeva, la paura delle bombe, ma per i figli la paura “si limitava” a quella primaria di non vedere più i padri e soprattutto le madri (è in qualche modo un romanzo sulla linea materna dell’esistenza).
Chiuso quel
confine, a questi adolescenti non resta che crescere e salvarsi da soli,
intrecciando affetti di fratellanza e sorellanza, ma anche intrecciando – sarà
principalmente Nada unica femmina di questo gruppetto – il sentimento di un
amore, di una relazione che Postorino è bravissima a far percepire come uno
sbocciare anche prima che puberale, un amore erotico che viene descritto nella
sua lucente e innocente naturalezza come un ‘evoluzione e un passaggio tra
infanzia e adolescenza, pur nascendo dagli stessi gesti, una carezza un
abbraccio, uno stare insieme nel buio, un sentire il fiato, i respiro
dell’altro, il calore – il tatto, primo linguaggio materno, continua, nei
personaggi di Postorino a parlare una sua seconda lingua segreta, a costruire
alleanze, polarità, fusioni patti. Ad esempio quando, ancora Sarajevo Danilo
dice a Nada, che ha una malformazione alla mano e pensa che sarà sempre
un’esclusa per queste e altre mancanze, le dice “Se non ti sposa nessuno ti
sposerò io”. Certo, qui c’è una sorta di rilevo quasi da romance ma
questo non vuol dire che specie negli adolescenti questo atteggiamento che
crescendo reputiamo ingenuo sia vero.
Ci sarà poi un momento in cui Nada e Danilo legheranno il loro amore, ma quando
prende la forma della vita adulta, l’amore quel patto segreto di fantasmi, deve
poi vedersela con tutto ciò che non apparitene a quella purezza: gli equivoci,
i linguaggi, le ferite interiori, gli interessi, le mentalità, le inquietudini
oltre che vedersela anche con una vita che non è stata certo facile, quella di
orfani di guerra. In qualche modo Postorino ci restituisce in una prosa che
passa come fluidità e coerenza dalla precisione realista, al paesaggio storico,
per poi riconcentrarsi da romanziera in una densità anche poetica, nel definire
la precisione di come un essere umano evolva tra conoscenze e emozione
per citare un titolo del neurobiologo Antonio Damasio. Su Damasio vorrei
tornare.
in Postorino colgo e vengo portato a pensare una sorta di opposizione tra
infanzia e storia. La storia fa spesso vittime i bambini incuranti di loro.
L’infanzia porta con sé le radici antropologiche e l’archetipo narrativo del
Vangelo in cui l’infanzia era un al di qua del peccato, era innocenza. Nessuno
tochi i bambini. Purezza, innocenza, condizione inerme, vittima.
Tuttavia questo tema, presente nel romanzo di Postorino, con i suoi protagonisti
orfani ed esuli, vittime della guerra, non si può solo riferire ad una corrente
ideologica della borghesia colta e progressista dell’occidente (italiano in
particolare con le sue eredità della sinistra e del cattolicesimo) e che
Simonetti – con accento negativo – afferisce a quell’ideologia della vittima
che Danile Giglioli ha analizzato in un libro che anche io considero fondamentale per il nostro tempo (“Critica
della vittima”)
Tuttavia io credo che Postorino, proprio nel procedere stilisticamente toccando
le corde dell’emozione, guardi di fatto
fuori dalla letteratura, spia certamente di un’epoca – di cui la scrittrice è interprete,
anche in modo che posso definire “istintivamente artistica”.
Questa nostra epoca, che complessivamente – non è il caso di Postorino, né di
Simonetti - non crede più come prima alle intermediazioni dei linguaggi dell’arte,
così come si sono dati nelle rivoluzioni del linguaggio poetico da Baudelaire e
Rimbaud alle avanguardie, e non solo letterarie. Le usa come modelli, ci si
intrattiene, ma il rapporto tra “arte e linguaggio” con un’idea metafisica o
antimetafisica viene meno.
E’ il nucleo di un libro di Giorgio
Agamben a farmici pensare, intitolato proprio “infanzia e storia”. Là dove
Agamben si chiede se possa dirsi ed esistere “ciò che, nell’uomo, è prima del soggetto,
cioè prima del linguaggio […] una in-fanzia dell’uomo, di cui il
linguaggio, dovrebbe segnare il limite”.
Ecco Agamben ovviamente lo pone nel solco di un’indagine metafisica (o
antimetafisica) della filosofia sui fondamenti del l linguaggio. Lo stesso
grande dibattito della filosofia del 900 che ha costituito una crisi da cui
siamo usciti di fatto senza uscirne, ma “messi alla porta” da una società che –
come ha fatto con i poeti secondo la acuta analisi di Guido Mazzoni sulla
poesia lirica – ha “tolto ai poeti il mandato
sociale” di farsi interpreti di
un sentire e di fatto lo ha tolto a tutti gli intermediari. Non abbiamo bisogno
dei poeti per carpire il fanciullino che è in noi, la verità della mia
vita biopolitica sono io stesso, io-meme, io corpo esposto alla vita, guardato
e interagente in orizzontale. (sto facendo n giro largo, ma qui subito voglio
dire: Postorino coglie questo aspetto della nostra “era del singolo” (Rigotti):
ognuno di noi è “quel bambino”, ognuno di noi è l’inerme.
Si forse è
vero – a maggior ragione per alcune generazione – ognuno di noi è in fondo
rimasto figlio. La storia è una grande macchina, la mia condizione di Pollicino
è aggirarsi orfano di futuro e “orfano di figli che non avrò” dentro una selva
minacciosa.
C’è un tema
di sottofondo – ed è l’elemento comune con il romanzo di Giordano, “Tasmania” –
ed è la questione dei figli. Rosella Postorino lo ha scritto a chiare lettere,
parlando della su scelta di non avere figli: “Ho scelto di essere figlia o di rimanere
figlia perché volevo essere me stessa. E lasciando, come dire, implicita e non
detta se la parola alla parola madre si associ una rinuncia. E quale sia se ci
sia stata una sorta di peso della parola rinuncia. Da maschio, in sintonia con
la narrazione di Giordano, sento in qualche modo una dimensione profonda
psichica e biologica di questa mancanza. Non avere figli è sempre parte di una
nostra “formazione di fantasmi” durante le fasi delle scene primarie in cui diveniamo
ciò che siamo (faccio vago riferimento a tesi che in cui mi riconosco, di Melanie
Klein). Così passa, da questa condizione di Nada, Omar e gli altri, e attraverso
la narrazione profondamente connessa con un’emozione stratificata, di Postorino
il mio ragionamento su questa
condizione, maturata in me e in molti come me – la maggioranza di chi aveva
circa trenta anni intorno agli anni 1992-1996 – momento in cui in Italia sono
nati meno figli ed è più alta la percentuale di chi non ne ha più avuti, come
me.
Tocca questo tema lo fa però collocando tutto questo in una storia in una
storia recente anche in una storia in qualche modo rimossa.
Postorino ci
restituisce “movimento di specie”, nel
seguire i destini dei suoi ragazzi che diventano adulti, segnati sia dalla
storia che dalla post-storia, ma più come un clinamen della vita, che continua
a fare treccia, nonostante i Sapiens facciano di tutto per distruggere il modo
stesso che già come tale è ciò che nega l’infanzia. Le vite dei personaggi, che
come le cellule si uniscono in una loro danza biologica, così come i corpi e le
anime, si avvicinano e saldano per una comunanza nel dolore, una vicinanza
fisica, insomma nel caso, nell’inciampo che ci incastra nelle scelte della vita
che va anche oltre le nostre vite singole (sebbene altri inciampi dividano
amanti, fratelli, genitori e figli, altri inciampi ed equivoci)
Questa
pulsione storico-biologica è in tutti loro, il loro diventare orfani prima e
straniero poi coincide con il loro sviluppo e così sarà sempre l’eros proprio
inteso nel senso del dio della filosofia greca, a cercare nell’amore la
possibilità di ricostruire qualche modo
una patria.
Nada sarà in
qualche modo polo sia erotico (ma in questa parola vorrei dare un connotato
assai più ampio dì che il solo dato sessuale, una “filìa”. E infatti è proprio
nell’intreccio con Omar che questo sentire sarà visibile: Nada e Omar hanno
un’alleanza dei corpi, nel loro essere figli, figli senza madre, nel loro
essere in qualche mod attratti, nel loro ricreare una dimensione del materno in
questa loro tensione che è segretamente erotica per Omar. L’amore del resto
segue sempre queste geometrie che non si chiudono mai, frattaliche. O per dirla
in modo più semplice, ci innamora di chi ama qualcun altro.
Tuttavia mi sembra che per Nada, Danilo, Omar Ivo e Sen, il materno sia una sorta di energia e polarità di comunità, è un “capitale amoroso” che certo nasce da un’illusione o fantasma primario, per dirla con Melanie Klein e che si ritrova nelle bellissime pagine di corsivo, sorta di diario in presa diretta della vita di Sarajevo (che Postorino inserisce nella narrazione al passaggio di alcuni capitoli e che poi il lettore capirà a chi appartengono) e dove si scrive amaramente che le madri hanno illuso i figli “li hanno allattati al seno” facendoli credere “che la vita fosse un capezzolo caldo ogni volta che la fame disperava”.
Nel destino
dei maschi non c’è il doppio movimento dell’essere figli e del generare dal
corpo altri figli (certo il Dna ci rende pari, ma la Gestazione è la differenza
radicale) e questo romanzo si concentra proprio su questo nucleo profondo. Omar
e Sen saranno adottati da una coppia italiana, Nada, lascito anche il fratello
Ivo ormai soldato – e Danilo troveranno una loro strada crescendo in una casa
famiglia italiana, perché quello che doveva essere un salvataggio breve in
attesa che la guerra del 1992 finisse, è diventato poi definitivo, perché il
conflitto sarebbe durato fino ai primi anni Duemila, di fatto. Questo è anche un (grande) romanzo
storico e Postorino ha trai suoi meriti anche quello odi aver recuperato una
memoria collettiva, di ver ricostruito una vicenda che innescò anche una
querelle politica (si disse che l’Italia in qualche modo aveva trattenuto
illecitamente bambini di un salvataggio realmente avvenuto e che ispira il
romanzo)
Un’ammissione
apparentemente disimpegnata, ma non lo
è. Lo sappiamo con certezza che quello di Rosella Postorino è il modo migliore
di raccontare la Storia, oggi.
(visto che parliamo di Elsa Morante ricordiamo – lo fa un libro di Angela
Borghesi, “l’anno de La storia” 1974-175, Quodlibet – che l’accoglienza del
capolavoro di Elsa Morante fu accolto propri all’insegna della critica feroce
verso un ‘opera definita “patetica” o “un kolossal kitsch” (Asor Rosa) o che
usa la “tecnica della commozione” (Calvino) il quale aggiunge “un romanzo può
far ridere o far paura “ma piangere proprio no”.
Oggi Simonetti paragonando Postorino a Morante scrive:
“Mi limitavo
ad amare te è tipico anche del modo in cui una intera generazione di scrittori
e soprattutto di scrittrici riscopre oggi il sommo modello di Elsa Morante:
recuperando e quasi saccheggiando i suoi tratti più facili e più in vista –
l’arredamento melodrammatico, la passione aprioristica per i diseredati, il
sovversivismo anarchico, il dolore – e rinunciando a quelli più profondi e più
difficili (che però sono anche i più preziosi e importanti): la precisione
realistica, la capacità di sciogliersi nei personaggi, la sagacia psicologica,
l’ironia amara, la durezza verso sé e verso gli altri. Imparare quella lezione
per intero significherebbe del resto – come ha significato per Morante stessa –
rovesciare e sfigurare il melodramma, fare a pezzi l’ideologia, complicare di
molto i propri rapporti coi lettori; in una parola, isolarsi, oggi più di ieri,
in una coraggiosa «battaglia di sganciamento» dalla letteratura che scrivono
gli altri (così Fortini, parlando di Aracoeli). Significherebbe andare fino in
fondo, «fissare le rive estreme”
Credo
tuttavia che tra l’elogio di oggi a Morante e la stroncatura da parte di quasi
tutta la critica letteraria dell’epoca all’autrice de La Storia, passi proprio lungo la “linea delle lacrime” e quella frase chiave che scrive Simonetti : “complicare
di molto i propri rapporti con i lettori” . In realtà, qusto si può dire con certezza, come dimostra il libro
di Borghesi, Morante non si complicò affatto, anzi: il libro uscito in edizione
economica per scelta dell’autrice, vendette in un solo anno un milione di copie
(era il 1974, l’istruzione di massa era
ancora limitata) e continua a venderne anche oggi almeno 6-7000 all’anno.
Come ha
sottolineato Marino Sinibaldi di recente, quella concezione tragica della
storia, di non modificabilità del mondo che aveva Morante nel suo libro, “era utile alla
definizione dei limiti, dei confini della politica” che la sinistra non capì”. Sarebbe stata utile, ma non se ne fece tesoro. La perdita della sinistra che è seguita negli anni 80 passa proprio per questa linea dell'empatia verso l'umano e di quella "colata di sofferenza che chiamiamo Storia" come scrisse in un articolo Postorino. Arrivo a dire di più: nel non capire uesto sentimento di essere tutti vittime, di dedicarsi solo ad alcune di queste (discriminati nei diritti sessuali e migranti) passa la sconfitta politica epocale della sinistra. dovremmo fare oggi tesoro di questo sentimento di empatia verso le vittime, proprio criticando l'ideologia delle (ma solo di alcune) vittime.
Credo che anche oggi ci sia un confine, un linea Maginot attorno alle questioni
dell’emozione. Una desiderio di accesso diretto e non mediato intellettualmente
e ideologicamente (ciò che fece appunto la Morante e ciò che oggi a suo modo interpreta
come corrente di sottofondo del nostro tempo, Postorino)
Faccio un’ipotesi necessariamente tagliata all’ingrosso: credo che si abbia oggi un forte desiderio di esperienza in un mondo in cui è sempre più difficile dire cosa sia vero e cosa no. Esperienza è ciò che mi resta dentro come teoria di un senso della vita. Da qui il predominio della verità delle storie. Da qui il desiderio di un rapporto di empatia con esse, come accesso più diretto. Se si vuole pre-verbale (qualcosa che coglie anche una scrittrice come Antonella Lattanzi cambiando il suo registro stilistico sempre alto, per il suo romanzo-verità “Cose che non si raccontano”, ancora una volta uno stare fuori alla narrazione)
L’empatia –
e la conseguente radicata esperienza interiorizzata preverbale - è quella “in-fanzia” a cui pensavano i
filosofi del linguaggio come Agamben. Ma su un altro piano.
Sul piano
dell’emozione. Qui alla filosofia tocca sostituire non la rivendicazione del
sentimentalismo – che è un’obiezione all’antica – ma le neuroscienze.
L’identificazione con questa verità passa dal lato della “emozione” che è ben diverso dalla emotività seppure l’emozione produca tanta immediata emotività superficiale.
L’emozione è però nella radice di un apprendimento che punta sull’empatia, sull’identificazione e credo che un romanzo come quello di Postorino lavori in questo scavo profondo della formazione di un’esperienza attraverso l’empatia e l’emozione. Lo fa anche stilisticamente, utilizzando abilità di linguaggio che Simonetti però considera negativamente. Anche io credo che li usi, ma credo sia una scelta artistica coerente e radicata in un presente che è quello in cui siamo precipitati. Due parole sul concetto di emozione, perché è questo il discrimine credo tra un’interpretazione come quella di Simonetti e la mia, nata da una reazione di lettore.
Se seguiamo
gli studi autorevoli di Antonio Damasio “”Sentire ed essere” è un ottimo strumento di densa sintesi degli studi
dell’autore) scopriamo che le emozioni, lungi dall’essere una
banalizzazione del pensiero (emozione vs ragione) in realtà, sono un insieme di risposte
chimiche e neuronali che formano uno schema distintivo, un
“marcatore somatico” che si crea
in noi , dice Damasio. E l’impronta emotiva che ci fa reagire, che ci influenza
al momento di evidenziare certe condotte o di mettere in moto determinate
decisioni piuttosto che altre. Una radice dell’etica, dunque.
Secondo
questo neuroscienziato, le emozioni precedono i sentimenti, i quali hanno poi
una relazione più profonda con i pensieri. Con le costruzioni culturali che
disegnano poi la nostra identità personale e collettiva.
Non so se
sia una coincidenza, un Kairos o che, ma sembra curioso che nel momento in cui
le neuroscienze sembrano riabilitare nel mondo del sapere quel che era
considerato solo come strato secondario dell’essere (e non a caso, ma qui si
aprirebbe un altro capitolo, collegato all’elemento femminile) sempre più le
scelte, le decisioni e i pensieri delle grandi masse rispondono proprio in
maniera rilevante su questo piano emotivo. Certo lo vediamo nel marketing
politico come in quello commerciale e anche artistico o comunicativo. C’è una
risposta immediata che si arresta alla sola risposta emotiva (ma questo accade
pure con chi usa la ragione ma in modo elementare o rozzo: abbiamo avuto secoli
di logica teologica ottusa ).
MA elaborare
un pensiero – suggerisce Damasio – non esclude che il fuoco si appicchi con il
nucleo emotivo. Oggi assistiamo a una
valorizzazione della risposta emotiva, ma resiste l’altro modo di pensare che
la risposta emotiva è classificabile come più povera di complessità, più
semplificata, più immatura, poco razionale.
Io credo che
su questa linea, tra scienza e filosofia e sociologia, stia una necessità di revisione dell’Estetica
di base con cui fondiamo gli “strumenti critici” che utilizziamo per leggere un
testo letterario. Lo dico perché mi sento coinvolto e messo in discussione da
ciò che accade e perché mi colloco sulla soglia di una trasformazione che mi
getta nell’incertezza, ma pure mi spinge a capire come stiano cambiando le
cose.
Lo dico pensando anche al libro più noto
oggi di Simonetti “Caccia allo Strega” non a caso il premio letterario di cui
per il critico letterario “Mi limitavo ad amare te” è produzione emblematica.
io mi limito a sperare che vinca, pur dentro una cinquina molto valida con
dentro altri due libri che ho amato (uso la parola chiave) come “Dove non mi
hai portata” di Maria Grazia Calandrone e “Come d’aria” di Ada D’Adamo (che
pure, come il libro di Lattanzi, interroga proprio una modalità di concepire e
praticare una scrittura fuori da ogni tradizione, modello, e qualità – supposta
tale dalla critica di stampo 900 che è anche la mia – stilistica. Tutto questo
anche frutto di un’evoluzione della società, post-politica ,figlia di un’istruzione
di massa in qualche modo fatta propria rifiutando però i maestri e i “mediatori”, figlia di un’evoluzione
dell’industria culturale che risale ai primi anni ‘800 e di cui i casi LA
storia e anche Porci con le ali furono una spia proprio dentro quei movimenti
politici di sinistra i cui esponenti intellettuali condannarono quei due libri.
Ma tutto questo è un secondo capitolo di
cui la nota sotto per chi voglia continuare è una sorta di sintesi.
Nota
Riprendo la divagazione: viviamo da anni nell’epoca della “Fine dei chierici”,
fine della mediazione intellettuale nella vita pubblica. Tutto è orizzontale e
cloudy, massa gassosa di un “general intellect” in cui l’opinione pubblica si
forma dentro l’opinione pubblica.
Fine è ovvio un termine di tendenza. Il processo è andato di pari passo con l’esplosione
della società di massa, con milioni di persone che pur ricevendo – anzi proprio
per ché hanno ricevuto – un’istruzione hanno pensato di fare via via a meno di
maestri, guide e “spiegatori” vari.
Con fenomeno analogo alla tendenza
politica euro-occidentale (altrove le democrature populiste sono la norma) , le
masse hanno deciso, con le nuove generazioni, che potevano farsi un’istruzione e un’opinione
da soli e non hanno più sentito il
bisogno di mediatori.
Poi è arrivato il modello Berlusconi e ha intercettato la massa passiva e poco soddisfatta di quei prodotti – all’interno della quale però si formava seppur minoritaria, una discreta fetta di persone che, specie la generazione dei boomer, all’epoca bambina, per la prima volta apprendeva che ci fosse un teatro, che esistessero l’Odissea, Ungaretti, Dario Fo, la musica rock e la classica, Chaplin, Rodari ecc. ecc.
Il modello Berlusconi ha portato la disintermediazione e ha costruito programmi col marketing e seguendo i gusti della maggioranza che invece non era interessata (e preferiva le Kessler al maestro Manzi).
Quei gusti venivano allo scoperto e segnavano l’indipendenza dalla tv pedagogica, l’autonomia dai politici e dalla classe dirigente, primo passo verso una rivoluzione delle narrazioni e dei linguaggi in corso oggi.
Domina una grande massa di intrattenimento alleggerito dalle complessità, che già di per sé sono prodotti a più basso tasso di complessità formale, più stereotipati, prima spia di un desiderio di recupero di storytelling semplici, o semplificati i cui gli schemi psicologici sono chiari e tradizionali, in cui non c’è difficoltà di linguaggio, scostamento dalla norma, ma riconoscibilità. Oppure in questo calderone, si salta ogni costruzione dell’invenzione formale di un opera, a fronte della sua “verità”: ecc. allora il Pov del porno amatoriale e ora Onlyfans, ecco i Social, mega contenitore di vita vera (supposta tale) selfismi vari a cui corrisponde un cedimento verso l’autofiction (l’invenzione del genere che possiamo far risalire a Sophie Calle a rivederla oggi è simile alle stories di tiktok o Instagram con un invito a spiare la mia vita allo spettatore – salvo che c’era ancora la doppia mediazione dell’artista e del fotografo investigatore incaricato, oggi sono milioni di spettatori che lo fanno pescando all’interno di un bacino di spettatori-produttori simili.)
Prima di ogni giudizio, che anche uno come me che si è istruito da famiglia di semianalfabeti e analfabeti può pensare di queste opere semplificate (le poesie di Arminio che emozionano centinaia di migliaia di persone a fronte di quelle di Milo De Angelis per citare il più grande poeta italiano vivente ma che non ha gli stessi numeri) va capito come e se questo armamentario culturale sia in grado di intercettare una novità antropologica, sociale, culturale che si sta sviluppando, sempre più spontaneamente nella misura in cui come si diceva non solo ci sono masse istruite mediamente, ma ormai con i social, milioni di produttori di contenuti, milioni di espressioni testuali.
Capire che certamente se ci si rifà a quella cultura del 900 e della mediazione intellettuale del 900 in cui mi sono formato, se si leggono le analisi ai poeti di D’Avalle, Agosti e Mengaldo, si può capire quando un testo è un buon testo, a partire dal tasso figurativo elevato come ha provato anche a classificarlo para-scientificamente Yuri Lotman e quindi capisco quando un testo non è buono, se non ha quella complessità.
Tuttavia io credo che tendenzialmente anche il più autonomo dei prodotti artistici, sia sempre eteronomo inevitabilmente, dunque deve dialogare o spiazzare, si diceva epater, la società a cui si rivolge e riferisce e che oltretutto lo delega col mandato di esprimere la visione del mondo, magari anche di sorprenderlo.
Ora negli ultimi 40 anni Quel processo di dialettica “Io-società” della modernità, iniziato nell’epoca industriale, si sta trasformando e cerca nuovi assetti. Cercare nella mediazione dei linguaggi, seppur destituiti di fondamento metafisico, privati di un’origine, è stato il prototipo di critica del mondo nel 900. Affidato a una classe dirigente e a una schiera di artisti
Oggi questa interpretazione del mondo attraverso l’analisi del Linguaggio non ha più senso, o meglio è valida dentro una bolla che lo riconosce, ma nel mondo sono attive e parlanti grandi masse di persone che scelgono altri parametri. Tra queste il non voler più affidarsi alla mediazione di saperi critici. O non ha avuto la formazione adeguata, ma credo sia più una scelta già maturata ai tempi della scuola.
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