Qualche sera fa il grandissimo William T. Vollmann ha letto un suo testo a Letterature - Festival internazionale di Roma al Palatino. Si intitola "la memoria del mondo", un testo personale e bello aveva una sua cupezza malinconica adatta a un luogo di memorie e rovine. Mi ha ricordato nell’incedere della scrittura, qualcosa della “voce” dell’ultimo McCarthy. Magari è solo una suggestione comparativa tra due grandi scrittori americani.
Prendevo appunti per scrivere un post su questo intervento di Vollmann ed è arrivata la notizia della morte di Milan Kundera, lo scrittore di cui si è detto moltissimo sui giornali e in rete, il praghese, in fuga dal regime sovietico-cecoslovacco, che si era fatto parigino, anche nella scrittura, con un suo personale francese, e poi s’era fatto da parte, si era eclissato.
Da 40 anni non concedeva interviste, non faceva vita sociale, è sparito, ma facendo meno notizia di più celebri e americani scrittori, come Singer e Pynchon.
I pensieri su Kundera – di cui la mia generazione sentì parlare più grazie a D’Agostino che a Adelphi Edizioni che certo ha il grande merito di pubblicarlo – si si sono intrecciati così con gli appunti su Vollmann e il suo testo su "la memoria del mondo”.
I ricordi rincorsi dallo scrittore americano come monete dei suoi tanti viaggi che cadono dalle tasche, monete fuori corso – ma dal valore affettivo - piccoli ricordi umani dentro tutte le guerre che ha attraversato come cronista.
Anche Kundera era, nella sua scrittura, diversamente testimone, ma originale, di un tempo del totalitarismo novecentesco. Si è ritrovato nei primi anni ’80 (quando decide di sparire) nella post storia in un’epoca della trasparenza, non meno invadente nella vita intima e privata delle persone dei regimi che aveva conosciuto – e da qui la decisione di sparire, rifiutando interviste e ritirandosi nella usa casa di Parigi. E scrivendo appunto in francese.
Poi cade il muro e tutto diventa trasparenza globale (oggi al massimo grado dopo 35 anni).
L'altra sera, nel testo letto a Letterature ha evocato quel momento così:
“ Ricordo il popolo gioioso e impavido che spazzò via il muro di Berlino. Impresse nella mia memoria ci sono immagini agghiaccianti della Guerra che doveva mettere fine a tutte le guerre, e di tutte quelle che sono venute dopo. Ricordo le voci intente a giurare che avremmo molto presto salvato tutte le immagini semplicemente perché uno di noi le aveva create, avremmo apprezzato tutti i ricordi semplicemente perché erano reali, avremmo celebrato proprio quelle caratteristiche dell’altro che ci risultano più aliene. Ora quelle voci sono soltanto strani mormorii, come grilli in autunno. Non smetterò di provare a ricordarle.”
Parole che ci arrivano da quella Europa centrale attraversata da Vollmann, da Kundera in esilio, dai profughi dell’Ucraina, l’Europa centrale che ancor ci interroga che non smette di farci un continuo “scherzo della storia”, tragico, tuttavia.
Vollmann è autore di “Europe Central” che ci ricorda con i risvolti psichici e torbidi di quelle radici del totalitarismo europeo di cui Kundera scrisse con ironia – ed è anche un giornalista, reporter di new journalism, scrittore del mondo, scrittore di conflitti, povertà, guerre, dittature e altri regimi. Ogni tanto sparisce, ma solo per viaggiare e farsi inghiottire dal reale.
L’ultimo libro pubblicato in Italia da minimum fax è “l’Atlante “ è una composizione che mostra questa sua inquietudine erratica nel mondo.
Kundera è stato invece appartato e nell’ombra . Qualcosa della sua vita da invisibile è nel libro di indagine di Ariane Chemin, “Nome in codice: Elitar I “ (NR editore) In realtà questa sparizione potrebbe essere la quintessenza di una eterna migrazione, un dissolversi nell’assenza, nel pulviscolare della sua scrittura, in cui l’esilio vero è fratello della nostalgia, nel suo caso nostalgia dell’Europa, che oggi – con la sua morte – noi proviamo ancora di più.
Una sparizione che evidenzia (in absentia, ovvio) che uno scrittore – e con lui, forse nessuno – non ha una vera casa. Nel 1981, disse al New York Times che “la casa, in fondo, è un mito”.
Come con la casa, lo scrittore ci ricorda che nessuno possiede veramente un corpo. Il
Corpo nei suoi racconti è sempre in un circolo ridicolo e poetico di amori e desideri.
Al tempo stesso (e forse per questo Suo essere libero e libertino) , proprio sul corpo pagò la sofferenza della persecuzione.
Del resto sul corpo agiscono e scrivono i regimi (il suo fratello praghese Kafka di “Nella Colonia Penale” lo aveva avvertito ). Il regime totalitario ti ricorda ad ogni passo che non possiedi te stesso ( e forse è un bene, se serve per difendersi dal dolore della perdita, dal dolore della nostalgia).
Kundera s’è ritrovato però nella società occidentale al suo declino, un “occidente prigioniero” non quella che mitizzava da giovane imprigionato nei confini cecoslovacchi. E’ l’Europa della “cultura del narcisismo” (1978, Lasch) che è diventata poi esposizione totale “dello sciame” ( Byung-Chul Han ).
Kundera si è tirato fuori dalla nube di puntini che sono i singoli me-stesso (un paradosso per lo scrittore che diceva di volersi proteggere “dall’overdose di me stesso” disse in un ‘intervista) vivendo invisibile nella Francia di Carrere e nell’occidente di Facebook, Instagram e del selfismo: ecco che l’esposizione del privato diventa l’ annullamento del privato, il racconto di sé una presunzione di essere esemplari. Così prevale il bisogno di esperienza di verità , di essere veri, quella del proprio io e del proprio corpo per primi.
In un’intervista con Philip Roth (ah quanto ci mancherà il 900) Kundera riassunse così il suo sentimento verso la democrazia della comunicazione: “La stupidità della gente deriva dall’avere una risposta per tutto. La saggezza del romanzo deriva dall’avere una domanda per tutto”. Dire che sapeva cosa fosse Facebook con decenni di anticipo.
Il pulviscolo dei milioni di occhi in cui ognuno è osservatore e osservato è facile associarlo a un totalitarismo gassoso di tanti piccoli grandi-fratellini. Aveva scritto: ''Di fronte a quell'ineluttabile sconfitta che chiamiamo vita, non ci resta che cerare di comprenderla. In questo risiede la ragion d'essere dell'arte del romanzo. L'Europa nella quale viviamo non cerca più la sua identità' nello specchio della filosofia e delle arti. Ma allora, dove è lo specchio? Dove trovare il nostro volto?''
Che cosa fa il romanzo di fronte a tutto lo sfacelo dei milioni di occhi che si specchiano reciprocamente in loro stessi da uno schermo luminoso? Un romanzo nato nell’epoca del Soggetto e dell’Individuo, come nel 900 cosa può fare?
In un bel post su Kundera, Matteo Marchesini in un passaggio evidenzia come l oscrittore praghese ci ricordi – che “anche il dominio più spietato, e l’io lirico più chiuso in sé, non possono abolire la realtà, cioè l’incontro quotidiano con il caso, con l’imponderabile, con la varietà dell’esistenza. E l’arte del romanzo si riassume appunto nella rappresentazione di questo incontro. La sua forma mobile e aperta nasce dall’“assenza del Giudice supremo”, dalla moderna “saggezza dell’incertezza”.
L’arte del romanzo, deduco io, allora ci mette in questa condizione di ironica incertezza, , anche se la persona "Milan K" si è sottratta all’arte dell’incontro.
Ecco il romanzo come forma di incertezza si pone di fronte a un mondo di miliardi di assertivi.
Ancora su Kundera, un altro tassello viene da Massimo Rizzante, uno scrittore e critico che conosce bene il franco-praghese e che in un articolo su Repubblica ha descritto quella sensazione di fascino spiazzante dei suoi libri che sfuggono da tutte le parti: l’ideale romanzesco di Kundera – scrive Rizzante – è "romanzo come poesia antilirica, roccaforte contro l’oblio e in cui non c’è una parola seria.” E aggiunge ancora Rizzante:
“le story? Che cosa si racconta in questo romanzo? Sembra che l’autore si sia ripromesso di rendere impossibile qualsiasi riassunto. Non è forse questo a cui dovrebbe tendere un vero romanzo della nostra epoca dominata dai mass media?”
Io risponderei: si. Perdersi nel romanzo. Se esso al suo meglio, nei sui esempi massimo come scriveva Moretti, è “opera-mondo”, allora penso che il lettore lo debba abitare come un nomade, un esiliato, un senza casa. Insomma, è così: un romanzo è quel che non puoi riassumere nella trama (come fa il 90% delle recensioni sui giornali). L'arte di Kundera era questo.
William T. Vollmann è un grande romanziere, ha una sua personale forma d'arte del romanzo, secondo me tra i viventi uno dei massimi, ma pratica molto anche la scrittura testimonianza – certo di sé nel mondo, ma sempre con un Sé molto presente nei suoi testi. Non so come sarà questo "Atlante" dia Minimumfax , mi affascina molto la sua struttura, così come la presenta la scheda editoriale, letta così penso possa avere qualcosa da dire anche sull’ "Arte del romanzo" del XXI secolo.
La incollo qui:
“I frammenti e i racconti sono organizzati in una struttura palindroma: il primo testo viene ripreso dall’ultimo, il secondo dal penultimo, e il racconto centrale contiene tutti gli altri, come una silloge ideale. Alcuni testi rappresentano una versione compressa dei libri che Vollmann al momento della pubblicazione aveva già scritto.”
La via più chiara è il labirinto. Se il romanziere crea una “ mappa per capire il mondo” questa mappa deve far perdere il lettore.
Insomma, fargli uno "scherzo", direbbe Kundera, come la vita fa con tutti noi.
Nessun commento:
Posta un commento