martedì 6 agosto 2024

ELEGIA CAFONA. Perché sento affinità con "Hillybilly Elegy" di J.D. Vace e perché rileggere in modo diverso Pasolini e Iovine o Carlo Levi.(Appunti per il prossimo libro 1 )

 


Quando ero quindicenne nel  XX secolo, sentivo e risentivo il disco live di Crosby Stills Nash & Young “4 way street”  che conteneva una lunga ballad accattivante intitolata “Ohio” ma non ne sapevo il significato. Pensavo fosse all’epoca la solita canzone on the road e invece era una ballata politica: su scontri con morti durante manifestazioni contro il Vietnam alla  Kent State University.
Dell’ Ohio non  sapevo nulla, se no che fosse uno stato interno degli Usa, più o meno immaginario tra Western e on the road. E’ l’America profonda delle maggioranze silenziose che da qualche anno non stanno più zitte.
Quella dell’assalto a Capitol Hill.  Nel 2020 la sfida in Ohio tra Trump e Biden è finita 18 a 0 (zero) per Trump

All’università del Kent gli studenti di oggi protestano contro Israele. I risultati elettorali ci dicono l’orientamento e l’antropologia sociale della maggioranza. A votare Trump lo stesso identikit di tutte le destre occidentali: prevalentemente maschi adulti, over 40, poco istruiti. IN parte poveri,  in parte poveri, ma più consistente la percentuale di chi guadagna oltre  50 mila dollari. Insomma, operai e piccola impresa da lavoro. Un proletariato-imprenditore di sé stesso, del lavoro manuale o della piccola ditta. Ne sappiamo qualcosa anche noi.


Ho iniziato mentre volavo per New York (che non è “America” è una bolla a sé) due libri che hanno l’Ohio come scenario: “Elegia Americana” di J. D. Vance, In Italia pubblicato da Garzanti per settimane in testa alle classifiche nel 2016 e  “Demon Copperhead”,  romanzo di  Barbara Kingsolver (ha vinto il Pulitzer 2023) pubblicato da Neri Pozza. E mi stanno piacendo e in qualche modo raccontano una storia in cui mi identifico.

In entrambi i romanzi ci sono storie di gente “degli Appalachi” e storie di ragazzini con madri single, abbastanza incasinate, e radici in quel mondo del midwest .
Kingsolver racconta la storia di un ragazzino  Demon (che si chiama in realtà Damon ma finisce per essere chiamato Demon) che nasce da una ragazza appena diciottenne con problemi e che genera queto figlio destinato a non avere un padre e a seguire le peripezie di una famiglia allargata quanto disarmonica e soprattutto i cambiamenti di umore (e di partner) della madre. E’ una storia di non-padri ma contemporaneamente di radicamento al  clan familiare e in qualche modo è lo stesso filo conduttore di “Elegia americana” . Sono a metà dei due libri.

Avevo visto l’omonimo film di Ron Howard, nel 2020 quando  J.D. Vance non era ancora passato alla politica e non c’erano notizie particolari su di lui. L’ho rivisto pochi giorni fa.
Devo confessare che mi è piaciuto e l’ho in qualche modo sentito mio.
Certo, il fatto che oggi l’autore sia diventato nel frattempo il vice di Trump non depone a favore dell’autore, ma leggendo il libro capisco anche la sua parabola politica oltre che psicologica.


Oggi colpisce che l’autore di quel libro che almeno in Europa nessuno si era filato più di tanto – se non come autore del libro da cui il famoso regista trasse il film -  sia l’affilato ed energico vice del Tycoon, ma resta un libro significativo e in qualche modo per me condivisibile.
Il titolo italiano del libro e del film  sono clamorosamente fuorvianti, meglio sarebbe stato infatti  tradurre “Elegia burina” o – con una citazione “colta” riferita a Ignazio Silone – meglio ancora “Elegia cafona”. Infatti “Hillbilly” è un termine per indicare i bianchi poveri (di origine irlandese per lo più) contadini di arre depresse del Midwest, un’area oltre che povera , impoverita in modo pessimo negli ultimi decenni, in un’area che comprende  Virginia, il West Virginia, il Kentucky, la Pennsylvania e l’Ohio, appunto lo stato che cantavo senza saperne nulla.

La chiamano Rust Belt, cintura di ruggine: più che il foliage bellissimo d’autunno, sono gli scarti del ferro (l’acciaieria Armco  di Middletown, che ha subito un declino dopo gli anni d’oro) e i relitti e le rovine del “fu florido”  polo industriale che fino agli anni Cinquanta era il cuore dell’economia di quell’area. Oggi molte industrie hanno chiuso, depressione, disoccupazione, dipendenze da alcol e droga hanno stravolto il paesaggio umano e urbano.

C’era anche un altro romanzo intitolato proprio “Ohio” di Stephen Markley (Einaudi)  nel 2018 divenne un caso: anche qui,  romanzo sui millennial dell’America profonda. Ma sono molti i nomi di scrittori che hanno raccontato la provincia americana, però alla fine a New York come Milano e Roma non viene capita davvero.

Da noi poi, non abbiamo nemmeno capito (né visto arrivare) diverse ondate di Hillybilly nostrani. Nemmeno dopo aver letto Iovine, Silone e soprattutto Carlo Levi (se si rilegge oggi bene “Cristo si è fermato a Eboli” c’è già in nuce l’Italia profonda che voterà dopo decenni Berlusconi. (raccontati meglio da Pennacchi, Canale Mussolini). Dagli anni ’50 di Togliatti, del Pci di Di Vittorio, stare dalla parte dei “contadini” era più un imperativo categorico ideologico, che uno sguardo vero sulle caratteristiche i valori reali di quelle masse di persone alal vigilia del boom economico.
Quel mondo contadino era sì povero, sfruttato, umiliato e offeso, ma era pure individualista, egosita, arretrato e di destra, attaccato al guadagno e alla roba ( l’aveva già raccontato “Libertà” di Giovanni Verga , più ancora che i Malavoglia).

Veniamo a “Hillibilly elegy” di J.D. Vance. Devo di re che in qualche modo mi identifico molto in questa storia di evoluzione sociale, di famiglie che si sono inurbate in città, Vance ha l’età che potrebbe avere anche un mio figlio, se l’avessi fatto all’età in cui i mei hanno generato me. Capisco quella storia, che ha riguardato anche molti come me, comune a quella di tutto il dopoguerra occidentale: finita la seconda guerra mondiale, la pace si è prolungata come mai prima di allora, il benessere ha spinto masse di contadini a inurbarsi, la società industriale degli anni ’60 prometteva felicità, benessere istruzione per i figli. Una vita migliore.

Spesso si dice “la destra sollecita la pancia”, va detto che quelle masse di ex contadini, pur votando in Italia PCI e in Usa (come il nonno di Vance) sempre Democratici ragionava egualmente con la pancia, prima di tutto. Poi ci fu l’arricchimento e lì si è rivelata un’identità sociale che non è stata capita. Basta leggere Operai di Gad Lerner, per capire come i metalmeccanici del sud italia specialmente somiglino ai contadini divenuti operai della Armco, come siano molto più simili ai Veneti della piccola impresa che alla “classe operaia” più idealizzata che capita (anche “Vogliamo tutto” di Balestrini in fondo anticippava nel 1971 qualcosa di simile)


Quel che racconta Vnce è però qualcosa che è accaduto anche in Francia e in Italia. Una società di lavoro indebolita e fiaccata da crisi ripetute – dal 2001 in poi - e dal mutamento globale dell’economia.

Da quella storia di speranza esce una generazione che quella speranza vissuta come una certezza, l’aveva vista dissolversi.

Una generazione arrivata a 60 anni e spezzata, frustrata, e poi nel tempo – e complici anche i social che innescano isolazionismo-relazione distorcente -  incattivita, arrabbiata. Perché in fondo (si può dire che si sbagliano ma non si può far finta che non provino quel sentimento) si è sentita tradita, con una sinistra che – tra letteratura e politica – si dedicava più alle minoranze e alle eccezioni che non alla normalità.

un vizio in Italia ben raffigurato da Pasolini: ha in fondo fatto l’epopea di una banda di ladruncoli, ha eletto a eroi delinquentelli, ma in quelle stesse condizioni di povertà c’erano milioni di persone – come mio padre e mia madre  – che veniva da quel contesto di migrazione interna italiana e che hanno lavorato duramente e onestamente. Erano come il personaggio Antonio Ricci di “Ladri di Biciclette” di De Sica, che ne fece un ‘epopea poi accusato di essere melodrammatico. Poi arrivò Pasolini e fece diventare eroi quelli che fregavano le bicilette agli Antonio Ricci.

(Sto estremizzando ma la mia chiave di lettura al fine è questa, l’ho capito solo ora, con il tempo e l’età e ho cambiato idea su PPP. E nel mio libro, quello che scrivo da anni, c’è una scena che è una riscrittura da un altro punto di vista di una famosa scena di Ragazzi di vita, dalla parte di chi era silenzioso e nei film di Pasolini solo comparsa.

Quella massa di persone, i contadini inurbati gli Hillybilly d’Italia, ha cresciuto la mia generazione di baby boomer sulla promessa di sogni e promesse che negli ultimi anni sono venuti meno, hanno rallentato economia e sviluppo. La delusione si è trasformata per molti in rabbia e paura, che la sinistra intellettuale bolla come paranoie, come “percezione sbagliata” mentre è reale, perché reale il vissuto quotidiano, quello  rasoterra di chi vive nei contesti che altri interpretano da lontano. Contesti con caratteristiche che non entrano nelle rilevazioni statistiche analizzate in contesti protetti (i giornali, prima, il coté intellettuale e artistico le bolle social, di cui pure oggi faccio parte sociologicamente e professionalmente)
Lì non si capisce il mondo della provincia, della suburra, della campagna “wanna be” metropoli o delle periferi.

L’unico che in Italia aveva capito megli certi contesti era  Tommaso Labranca. La sorpesa dei milioni di voti per Berlusconi prima, dei voti per la Lega a Mirafiori negli anni ’90, il ripetersi del fenomeno ora con Meloni e FdI non ha sradicato quel difetto di sguardo, ideologico e valoriale di una certa parte della sinistra intellettuale soprattutto (sono gli eredi di chi sbeffeggiava Berlinguer )

C’è sempre questa idea cattocomunista che i poveri siano buoni e di sinistra “per natura” mentre invece sono esattamente come tutti, variegati e in certi casi, come adesso in America o in Europa, esplicitamente e volontariamente di destra, individualisti, conservatori, che puntano all’arricchimento in qualche caso anche avidi di ricchezza.
L’aveva capito già Dostoevskij quando ne “l’adolescente” fa dire al suo giovane protagonista di quel romanzo dickensiano ““la mia idea è diventare un Rothschild, diventare ricco come Rothschild; non semplicemente un ricco, ma proprio come Rothschild”. Sembra un proclama da trapper di periferia di oggi. Che sia bisnipote di questa stirpe di contadini caponi inurbati o che sia figlio 2G di mitranti recenti, la sostanza è simile.

L’unico ad aver  raccontata con aderenza il sosstrato psico-antropologico italiano è stato Vitaliano Trevisan e prima di lui Vincenzo Cerami in “Un borghese piccolo piccolo”.
Una  classe media ex popolana, proletaria e contadina. Altri esempi non romani: “Cartongesso” di Francesco Maino o “La buona e brava gente della nazione” di Romolo Bugaro e “Gli sguardi cattivi della gente “ d iClaudio Piersanti.
Vado a memoria ce ne sono di libri che ci avrebbero consentito una lettura di quel fermento esploso poi con Berlusconi, la Lega e oggi Fratelli d’Italia ma anche il M5S populista di Grillo.

 Ci siamo abbandonati a “Suburra” e “Romanzo Criminale” di De Cataldo, un po’ pasolinianamente, traviati da film-serie, come fossero storie di  “crime” senza riflettere sull’aspetto sociale che esprimeva. Come anche con Gomorra di Saviano (pessimo servizio la serie tv).
Forse già il “Branco” di Andrea Carraro negli anni ’90 rivelava una suburra non idealizzabile, ma anche  Niccolò Ammaniti di “Come dio comanda” – e prima ancora “ Grande Raccordo Marco Lodoli con i suoi personaggi invisibili e non certo inquadrabili in ideologie e “classi” (si ragiona ancora come se esistesse una “classe” in certi ambienti)

L’ideologia cattocomunista si sposa con il sapore cinematografaro post-pasoliniano,  Troppo romano poi. Forse sempre per restare a Roma, meglio di tutti allora sono rappresentativi i personaggi che animano il bar de “Lo stradone” di Pecoraro.  

Oggi alora il proposito è  leggere con attenzione Davide Coppo “Dalla parte sbagliata”  - magari trovo spunti come già in  Andrea Tarabbia “il continente bianco”  (o il Parise de “l’odore del sangue” a cui è ispirato).
Anche ritornando indietro ad altre letterature, come quella britannica, anceh Ken Loach ormai come in Old Oak fa un ritratto spietato de “fu proletariato”. LA coscienza di classe era un miraggio.
Ora poi si inseriscono anche altre complicazioni, ovvero culture e religioni, valori diversi. )l’aveva anche qui anticipato Kurehishi ai tempi di Mio figlio è un fanatico.
Non è sempre “colpa dell’esclusione sociale” . Sta nascendo un processo identitario di ritorno alle radici che accomuna in modo singolare parte di chi vuole respingere i migranti ma Anche parte dei migranti stessi.
 Quell’ideologia che oggi si divide tra una estesa adesione al nazionalismo vagamente o  radicato anche nell’adesione religiosa (come pure fanno molti di seconda e terza generazione in Francia vedi le analisi di molti sociologi dop ogli scontri di due anni fa) oppure sposano la Ideologia totale del consumo, del Cash che puoi fare in modi ritenuti facili, che non contemplano sacrifici, lavoro, emancipazione.   
Ma questa è una parte complessa, tuttavia ciò che mi sembra il tratto comune è proprio la spinta identitaria. Lo è per i tanti francesi che votano a destra o che sono scesi in piazza con i Gilet Gialli. Lo è anche per quelli osteggiati, ma non è solo una “reazione” è un tratto convinto e radicato.  Basti leggere i libri di Eribon o Louis in Francia (anche li una vasta provincia depressa, ex operaia, delusa, arrabbiata, una classe media senza carta né territorio, ormai, già raccontata da Houellebecq che pure con Sttomissione ci  aveva visto lungo )

 

C’è un vasto continente della rabbia, un “eurasia” trans globale che mette assieme rabbie in apparenza diverse, ma tutte con una matrice che sta nel libro di Vance: il tradimento dei sogni di felicità, la promessa di una “promise land” . Bianchi con radici locali e “migranti-discendenti” di 2G che rigettano le promesse, che non credono a regole, percorsi, che hanno solo voglia di “riprendersi il dovuto” magari con espropri proletari come hanno fatto in questi giorni i bianchi razzisti e negli anni passati i nordafricani a Parigi : assaltando negozi di cellulari o di sneaker.

LA rivoluzione è fatta per quello, non per diritti, come del resto le lotte della generazione dei miei genitori : per la pancia, per stare bene, per avere più roba. I diritti, certo ma non sono il primo pensiero e infatti sinistre europee e democratici usa che le hanno cavalcate non hanno ricevuto consensi dall’elettorato tradizionale, ma non tanto per “delusione” quanto perché quel vasto strato popolare ex contadino poi inurbato, come dimostra il libro di Vance si è ripreso un’identità – come stanno facendo per altri aspetti parte delle giovani generazioni di 2G in Francia che spesso protestano con bandiere algerine e marocchine e vagheggiano un “ritorno” messianico alla terra dei nonni).

Non era una “resa” alla destra per delusione, ma la rabbia è stato il motore di una riscoperta di radici mai estinte con un’identità conservatrice che oggi riemerge. Vasti strati popolari che sono sempre stati “di destra” per dirla con una formula veloce.

Che vuole riavere quello che le è stato sottratto. E a quei maschi allevati nella promessa di essere l’asse portante di una tradizione familiare è riemerda la voglia di riprendersi quel sogno “ di tradizione” come mostra bene il libro di Vsnce. Nonostante sia una famiglia di persone che sarebbe meglio evitare, è lo spirto del clan della tribù che prevale è l’identità. Il nazionalismo della propria “nation” (fine del sogno Lennon-BAmbataa-Marley di “una sola nazione”. Oggi prevalgono le mille nazioni-clan. Bianchi, africani, islamici che siano.

Li classifichiamo – quelli bianchi visto che sono partito dall’Ohio – come tossici, privilegiati, violenti, o vittimisti, incel perché in prevalenza maschi. Ce ne sono certo, ma la massa erano figli di chi si è fatto il culo e non ha avuto ciò che meritava – magari proprio a causa di crisi globali dell’economia (e alla fine i veri no global sono i trumpiani oggi) e negli Usa erano anche bianchi orfani, poveri, con fratelli morti nelle guerre, o morti per farmaci oppiacei, proletari intrusi, mal mesi, cafoni, appunto. Figli di cafoni che hanno affollato anche molti romanzi nostrani, ma che abbiamo sempre letto male, interpretato male. Ideologicamente.
Erano vittime, erano i “penultimi” e quando hanno visto le sinistre dedicarsi solo agli “ultimi” hanno ripreso la loro identità, non quella che gli avevano appioppato gli intellettuali di sinistra facendone un ‘ “elegia positiva” ma sempre però esaltando i marginali. Nessuno faceva più “l’elegia dei cafoni” normali, dei burini, dei semplici.
 Ora con una certa dose di rabbia, la rivendicano. E’ tempo in effetti di riscrivere elegie diverse.

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