lunedì 12 agosto 2024

IL SOLE SPLENDE SUL NIENTE DI NUOVO. CASCANDO CON BECKETT. Appunti per il prossimo libro 2

 


“Oggi potrei camminare solo sulla Striscia di Gaza”.
E’ una frase che diceva spesso, durante il 1988, il penultimo anno della sua vita, Samuel Beckett, quando si era trasferito al Tiers Temps, una casa di riposo parigina, dopo le numerose cadute dei mesi precedenti e sulla spinta della moglie Suzanne, anche lei malata che non poteva accudirlo.


La cosa più grave però , era il fatto che era cambiata negli ultimi tempi, stava maturando un risentimento, una rabbia senile inaspettati verso Samuel (cosa che addolorava molto lo scrittore, il quale da un lato ne capiva forse la natura di sentimento estenuato, estremo, quasi di chi ha ceduto psicologicamente, un carattere che forse era solo “scoppiato”, caricato di pesi e cure dopo una vicinanza simbiotica col marito).
In questa struttura Beckett viveva in una stanza spartana, come suo costume: un letto, un comodino, uno scaffale con libri che stava leggendo (le biografie di Oscar Wilde, di Nora Joyce e libri di Kafka) e un tavolino. Una bottiglia di Whisky.
Ogni tanto prendeva in prestito un piccolo televisore per vedere le partite di Rugby. Nella foto è lui che guarda la tv, nel suo ultimo anno di vita.
Nel giardino all’aperto, quasi come la scenografia di “Aspettando Godot” c’era un solo albero.
Beckett ci passeggiava sotto, sempre malfermo sulle gambe, ma non si rassegnava a non camminare. Quando la debolezza lo metteva a rischio cadute camminava avanti e indietro lungo un tappeto antiscivolo, stretto e lungo posizionato lungo il muro della clinica.
Quella era la sua “Striscia di Gaza”.
Sono notizie contenute in “Condannato alla fama: la biografia di SB” di James Knowlson, pubblicata da Cuepress e con la solita ottima cura da Gabriele Frasca (avevo letto un’altra biografia, edita da Garzanti, ma questa è più bella) .
In questi giorni di caldo e scrittura, cercando sempre qualche parola (qual è la parola?) casco su Beckett, altrettanto estremo come il sole che splende feroce.
Del resto di Beckett è quell’incipit folgorante che mi ha inchiodato sui vent’anni al primo libro dell’irlandese letto in vita mia: Murphy
“Splendeva il sole, non avendo alternative, sul niente di nuovo”.
Leggo le pagine della biografia sulgi ultimi anni.
Un po’ fa sorridere, è un Beckett che inciampa come un clown, come un vagabondo male in arnese, come un suo personaggio insomma, però è fino all’ultimo attivo e anche deciso: è malato ai polmoni ma sa che ormai smettere di fumare non lo guarirà, così come continua con l’abitudine di farsi un paio di bicchieri di whisky ogni giorno verso il tardo pomeriggio, magari con chi lo veniva a trovare o davanti la tv.
E’ anche ovviamente un corpo fragile, con le sue numerose cadute, come tanti nostri nonni, lui che aveva scritto quella poesia memorabile, “Cascando” (ma dentro il pozzo dell’amore, il falling in love). La poesia “Cascando” (in italiano il titolo anche nella versione originale, quasi fosse un movimento musicale) è un precipizio estremo dell’amore che sa la sua impossibilità costitutiva e al tempo stesso il suo ripetersi dell’errore (fall in love, caderci dentro) – alcuni frammenti nella traduzione di G. Frasca):
nuovamente dicendo ecco vi è un’ultima
volta persino per le ultime volte
ultime volte per mendicare
ultime volte per amare
per sapere di non saper fingere
un’ultima volta anche per le ultime volte
E’ un’idea estrema e sempre ultimativa, della vita come dell’amore, nel suo essere, nel suo viversi, ma anche e soprattutto nel suo dirsi implodendo nel linguaggio che non arriverà mai che sarà sempre “mal detto” eppure instancabilmente detto
E poi la chiusa, tremenda, che fa esplodere insieme un sentimento quasi stilnovista di amore come trascinamento inoppugnabile di un dio dello spirito che ci domina, ma insieme a una coscienza ironica, quasi crudele, novecentesca, di chi sa che tutto quel sentire è un “sentire” è linguaggio che in realtà non sa /non è (il) dire (l’amore e tutto il resto) e così il poeta :
nuovamente atterrito
di non amare
di amare e non te
di essere amato e non da te
di sapere di non saper fingere
fingere
io e tutti quegli altri che ti ameranno
se ti amano
Sempre che ti amino.

A mio avviso la più grande poesia d’amore del vero 900, quello implacabile e scavato dentro, indisponibile alle illusioni (del resto lo sapeva già Leopardi, non a caso poeta amato da Beckett, come anche Kafka, l’altro grade cantore del non-amore i cui libri lo hanno accompagnato sempre)
E però questo uomo così solido sul suo corpo affusolato, quasi come l’alberello del “godot” secco e fragile e insieme eterno, questo uomo comincia cadere negli ultimi anni della vita, inciampa.
Pochi anni prima, nel 1984, aveva scritto all’interno di “Worstward Ho” (che frasca traduce con “Peggio tutta”) una delle sue più famose (e travisate dal web che le rilancia, spesso sbagliate) frasi di uno scrittore:
“Tutto solito. Nient’altro mai. Tentato mai. Fallito mai. Fa niente. Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio”.
Fallire. Cadere.
Molto dell’universo poetico di Beckett oscilla tra questi due negativi (o "nulla positivi" per dirla con Adorno)
Il positivo-positivo, quello non si può dire, non del tutto. Non è detto nel dire. (ciò che segue questa frase famosa, nel libro, evidenzia di sicuro un significato post-tragico di orizzonte fosco, che il soggetto arrivato a questo lembo finale della coscienza matura. Certo non corrispondente all’ottimismo superficiale degli sturtupper che la frasetta se la sono rilanciata per anni)
Sottile, secco come foglia o pergamena, questo Beckett ultimo è al suo lembo finale di una scia che era stata, sempre più da quando è passato dai primi romanzi al teatro, verso il 1960, un tentativo superamento della scrittura.
Nel 1988 scrive quello che è il suo ultimo testo, giudicata da alcuni interpreti come poesia, da altri come prosa, da altri ancora “no-genere”.
Un testo in cui ci sono frammentazioni, trattini (dash, in inglese, che intendono una sospensione di ciò che procede). Si chiama “Qual è la parola” e ha due versioni, inglese e francese, “Comment dire” e “What is the word”. Qui Beckett coglie non lo scrivere, ma quell’attimo sospeso in cui si cerca la parola, sospeso in un equilibrio che potrebbe perdere e cadere, fallire – se non la trova. Sospeso sul precipizio tra “il farsi e il disfarsi del linguaggio” . (leggo dalle note di Gabriele Frasca)
E Beckett scrive questo testo sul non-ancora-scrivere, lo scrive con una grafia “ a ragnatela” scrive Knowlson nella biografia. E’ una reticolo-poematico che forse è l’estremo resistere dello “scritto” e insieme, tessitura tutta giocata sulla fonetica, sulla rete di rime e assonanze, l’emblema di un dire-orale che viene prima – se viene (foneticamente o mentalmente la parola è tutta interna al corpo ancora, prima che esca sta in bilico “sulla punta della lingua” e casca sul foglio.
Un poesia– come il suo vecchio corpo, affaticato, ma sempre bello e forse ancora più bello – in cui tutto oscilla, quasi sempre sul punto di cadere, di ricadere su sé corpo che si ritrae in bocca, in lallazione.
La letteratura di Beckett è qualcosa che corrisponde sul piano testuale e del linguaggio, alla pittura di Francis Bacon con la figurazione, la figura sembra sempre sul punto di sciogliersi, colare, fondersi, mettere in evidenza che è ancora soggetto e corpo e figura, ma al tempo stesso la sua impossibilità, la sua castrazione.
James Joyce e Virginia Woolf lavorarono sull’epifania per dare a questa diversa percezione – con i diversi saperi che si erano affacciati sulla scena del 900 – una forma.

Per Beckett e Bacon c'era una via ancora più radicale: quel corpo formale deve essere invece scorticato dall’interno (perché la realtà è l’impossibile, tuti e due sono du questo versante del XX secolo, anche se il 900 è un prisma) e lavorano a tenere i brandelli di qualcosa che sta per prendere forma, che non arriva a prenderla, che è lì li, che non sai se quella colata di carne si coagulerà oppure si sciglierà, se quel fluire di sillabe diverrà frase o si scioglierà in afasia.
Stanno in quel prima, che sembra esaltare una creazione, ma pure nel dopo, la castastrofe dell’increato.



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