martedì 11 marzo 2025

RITORNO E RADICI, RESTARE E SPATRIARE. Su "Malbianco", di MArio Desiati (Einaudi)

 


Ci sono interessanti fili che legano certi romanzi pubblicati da poco. Il filo "Sud" mito e verità, il ritorno, la Storia, la genealogia, le radici, il rientro dallo "spatriamento" fatto da giovane, nonni e bisnonni/e ecc. CI torno alla fine, ma intanto una cosiderazione su questo ultimo "Malbianco" di Mario Desiati





Quando nell'ultima parte del romanzo del 2021 (Spatriati) il protagonista torna a casa, dopo una vita in cui era riuscito in qualche modo a emanciparsi e andare via dalla Puglia, in cui era cresciuto, non potendo esprimere se stesso al meglio, e si era trasferito a Berlino, lo faceva in quella narrazione richiamato da qualcosa di ancestrale e reale.
A me quel ritorno però non era piaciuto, l'avevo trovato (anche rispetto a come si costruisce un romanzo tra rimozione, non detto e ambivalenze) una forma di cedimento a un esotismo del ritorno alle origini. Non mi aveva convinto del tutto quel libro.
Certamente c'erano delle radici (ovviamente biografiche) in Desiati però giudicavo “culturalmente” quel personaggio come afflitto da una specie di sconfitta e di fallimento e che però cede più ad un'idea mitica del suo stesso sud che reale.
In un certo senso, è un personaggio simile apre il nuovo romanzo “Malbianco” e riparte da una crisi, meno connotata dallo spirito “del cambio di paradigmi”.
Marco Petrovici, quasi cinquantenne, dopo anni a Berlino, dove lavorava come compilatore di contenuti online (come lo capisco) accusa malesseri e svenimenti. È qualcosa di psichico e di fisico, sintomo di una vita fallimentare: per il lavoro, le ambizioni letterarie frustrate, per la fine di una storia d'amore con Luisa scultrice e donna libera che con lui viveva una relazione che di libertà e di fluidità nell'esperienza amorosa erotica. Bilancio tipico “around 50” e decisione di ritornare per curarsi a casa. E qui si fermerà.
Tutto il resto del romanzo è questo “rimanere” (una “restanza” forse in certi ambiti un po’ troppo sbandierata da ideologia alternative : sempre alla fine di Spatriati, c'era tanto d'elogio alla terra agli ulivi e alle processioni, la bella terra di Puglia, ma per questo non mi aveva convinto c’è sempre il rischio che "l’autenticità" sia un'icona superficiale).
Più semplicemente e senza sbandieramenti, quindi meglio, nel nuovo romanzo Marco il protagonista che racconta, “resta” a casa , anche perché tra i sensi di colpa se c’era il fallimento della libertà ora c’è anche il rigurgito del fallimento di aver deluso i genitori, ormai anziani. Soprattutto il rapporto è pieno di silenzio col padre Giuseppe.
Nella casa nel bosco che fu della zia Ada dove il figliol (un pochino "prodigo") e i genitori si sono trasferiti, Marco tenta di capire le sue crisi le sue fragilità e pian piano emerge qualcosa che non quadra dentro la storia familiare.
La "cosa" (il trauma muto) si lega soprattutto a un nonno paterno, della linea Petrovici, Demetrio e al fratello di lui, Vladimiro, figli, insieme a un terzo fratello morto bambino (di nome Marco) di Addolorata Petrovici , contadina e venditrice di asini, donna sola con figli e un suo cognome (ah, il “cognome delle donne”) che lavora, alleva i figli e i ciuchi. E’ libera e anomala rispetto al suo tempo (il primo ventennio del Novecento).
Marco è imbevuto di poesia e antropologia e psicologia, risale come un salmone il flusso genealogico del XX secolo, scopre silenzi, omissioni, non detti, indaga quellostrano cognome slavo, cerca dentro di sé con la terapia e negli archivi un senso “transgenerazionale” alla sua sofferenza ma pure a quella della sua famiglia, interrogherà il suo nome, la zia Ada vedova del terzo “Marco” Petrovici della storia, fratello del padre Giuseppe.
“Malbianco” ha una tensione da giallo anche se il colore prevalente è il bianco della cancellazione, del “Malbianco” (è una malattia degli alberi una specie di coltre bianca che indica il guasto biologico): Marco indaga e il romanzo nelle sue 380 pagine abbonda di dettagli e di rami di una storia-albero – lo fa per sé, forse per i nipoti per lasciare un'eredità che colmi lacune e ferite. Se dico che è come un giallo, non devo dire come finisce, ma forse posso dire il senso di questa ricerca del segreto del nonno Demetrio e del nonno Vladimiro è connesso alla seconda guerra mondiale, alla campagna di Russia (con quel cognome del resto).
Però la cosa che vorrei dire è che ci si aspetta da alcuni segnali e indizi uno svelamento che sembra “annunciato” ma tutto sommato il finale sarà altro.
Il fascino di questo romanzo è come esplora la psicologia e la genealogia, secondo una lezione che ha avviato, si può dire, in Italia Matteo Trevisani (da consigliare “il libro del sangue” Atlantide) e che pure è un metodo di indagine su sé stessi ripreso dal romanzo uscito poco prima di questo di Nadia Terranova “Quello che so di te” e che pure comporta un, se pur temporaneo, ritorno al Sud.
E’ un romanzo che partecipa di molte cose presenti nella narrativa di questi ultimi anni: storie di famiglia, e storie della “grande Storia”, in più sotto categoria ampia delle storie del Meridione ( lo fa anche Claudia Durastanti con “Missitalia”, con la Basilicata dal brigantaggio, ma molto alternativo, fino alla Basilicata del futuro).
Sono tutti romanzi sospesi tra indulgenza, visione romantica, distopica, indagine alternativa di una contro-storia, scavo psicologico, connessioni simboliche profonde dentro un inconscio collettivo che sfocia nel mito e nel magico.
In un certo senso, il fenomeno generale di successo vitalistico del sud (tra cultura e turismo) è che è un'area storico-culturale e sociale, si pone, nonostante i suoi problemi strutturali di vita quotidiana – sanità, lavoro, trasporti, servizi ecc che lo collocano sotto lo standard europeo - come l’unica terra che possa rispondere alla “crisi della presenza” come la chiamava Ernesto De Martino, quella che però un tempo, nella civiltà contadina studiata dall'antropologo, provava l’uomo di fonte alla natura che rischiava di inglobarlo, di annullarlo.
Oggi a farci sentire la crisi è il sistema globale dell’interconnessione, del mercato e del lavoro, del digitale e delle amicizie ridotte spesso a quello, della “partecipazione” ma sempre a fenomeni di massa e in un’ottica di cultura metropolitana diffusa che ci annulla come soggetti, se soggettività è anche bisogno di “originalità” di essere-qualcosa-qualcuno. Contrariamente a chi tenta questa via proprio cavalcando la cultura di massa, mettiamo partecipando a un talent, diventando un influencer, ecc, c’è una via alternativa che è la letteratura, già di suo un territorio di carta, benché “senza ordine e struttura” come il sogno.
Attraverso questo ci resta – ed è la via di Desiati e del suo MArco Petrovici - solo affidarci a ciò che è sotto-traccia, quella di essere singoli, della singolarità autentica del mio vero-io che coincide (ed è un tema centrale simbolico di Malbianco) con il mio nome-e-cognome.
Tuttavia se per far questo bisogna tornare nei luoghi oggi diventati “cartolina” – o peggio degradati come la Taranto avvelenata che copre di nero la città - il rischio è che la nostra autenticità vada a sovrapporsi (specie per chi legge) a quella “autenticità” che l’industria globale del turismo ci vende (come ha scritto Adriano Favole sull’ultimo numero de La Lettura) e ci fa ritrovare ammassati in decine di migliaia in piccoli villaggi dove “ ci si va solo con l’asino” come accade a Santorini.
LA “Restanza” descritta da Vito Teti, la sfida a rimanere e non tornare più nelle città dove si era andati “per andare via” da “spatriati” come nel libro precedente di Desiati, è adesso una sfida per i non-più-giovani come Marco Petrovici e tanti altri che lo fanno, che ora tornano per restare.
La letteratura ha il compito di mostrare che non si tratta di un “orientalismo” di ritorno anche per i nativi, che si installano in questa “amara terra” (rimorso e ritorno che parole simili) come fa Marco Petrovici che in realtà parte dal bosco delle origini, per un lungo viaggio temporale. Marco Petrovici ha bisogno di sentire nel corpo l’appartenenza, essere nel sottobosco, prima di decostruirla, perché trovando altre radici, altri fili nomadi di altri migranti, come era stato lui e dell’ultimo tipo quando era partito per Berlino, trovando altri fili di migrazione dentro il sangue della sua famiglia, Marco Petrovici approda a un’autenticità che non è integra ma fluida e piena di fratture .
Anche quella terra, quel bosco che ha conservato le memorie può bruciare, ma non importa: “il passato va ricordato ma non va restaurato” si dice Ada verso la fine. (vero: ma su questo punto non capisco il penultimo capitolo "La canzone Yiddish" come un romanzo nel romanzo che un po' contraddice questa frase che Desiati scrive, perché è come se restaurasse un passato che a mio avviso andava lasciato nella aleatorietà degli indizi e - parere personale - si poteva del tutto tagliare )
Nel suo pianto “rituale” ma indotto da più moderne e scientifiche terapie psichiatriche, la zia Ada si scioglie in una fluttuazione di ali e di versi poetici che arieggiano le ultime pagine dove Desiati nasconde il segreto e fino all’ultimo dice e non dice (che è il metodo e la parte che preferisco).
Sta a noi, come si fa con le poesie, scovarlo secondo tentativi di risposte che resteranno interiori. Come i sogni restano dentro, non sono le spiegazioni in parole che ne diamo. Non si torna nei sogni, non si può tornare a casa, la casa è altrove sempre.
L’unico luogo dove si può tornare è nel tempo bastardo, dove il tentativo di dire “chi siamo” affonda nel “ciò che non siamo” e solo questo possiamo dire (e tantomeno possiamo dici integri figli di questo sud, come ribadisce da conservatore maschio pieno di identitarismo, il fratello militare di Marco ). Il vero Sud che sta sotto la cartolina splende crudo alla luce del sole con tutti i suoi problemi. L’altro sud in cui torna Desiati e il suo Marco non è né quello dei turisti, né quello di chi ci abita e lo consegna a una cattiva politica, alle mafie, all’affarismo predatorio di tanti. È un sud che ha le radici in un remotissimo nord di neve e sembra un sogno. Lo è.

Nessun commento:

Posta un commento

CARAVAGGIO 2025, UN BEL REMAKE, MA L'ORIGINALE RESTA INARRIVABILE

  Caravaggio ritorna a Roma come una star del cinema, con la mostra “Caravaggio 2025” inaugurata il 7 marzo e che fino al 6 Luglio è ospita...