SOUL FOOD letture,saggi, recensioni,poesia,libri di Mario De Santis
lunedì 2 settembre 2024
SINNO (E LATTANZI O D'ADAMO): CORPI ESTRANEI ANTILETTERARI, QUINDI LETTERARI?
lunedì 12 agosto 2024
IL SOLE SPLENDE SUL NIENTE DI NUOVO. CASCANDO CON BECKETT. Appunti per il prossimo libro 2
martedì 6 agosto 2024
ELEGIA CAFONA. Perché sento affinità con "Hillybilly Elegy" di J.D. Vace e perché rileggere in modo diverso Pasolini e Iovine o Carlo Levi.(Appunti per il prossimo libro 1 )
Quando ero quindicenne nel XX secolo, sentivo e risentivo il disco live di Crosby Stills Nash & Young “4 way street” che conteneva una lunga ballad accattivante intitolata “Ohio” ma non ne sapevo il significato. Pensavo fosse all’epoca la solita canzone on the road e invece era una ballata politica: su scontri con morti durante manifestazioni contro il Vietnam alla Kent State University.
Dell’ Ohio non sapevo nulla, se no che fosse uno stato interno degli Usa, più o meno immaginario tra Western e on the road. E’ l’America profonda delle maggioranze silenziose che da qualche anno non stanno più zitte.
Quella dell’assalto a Capitol Hill. Nel 2020 la sfida in Ohio tra Trump e Biden è finita 18 a 0 (zero) per Trump
All’università del Kent gli studenti di oggi protestano contro Israele. I risultati elettorali ci dicono l’orientamento e l’antropologia sociale della maggioranza. A votare Trump lo stesso identikit di tutte le destre occidentali: prevalentemente maschi adulti, over 40, poco istruiti. IN parte poveri, in parte poveri, ma più consistente la percentuale di chi guadagna oltre 50 mila dollari. Insomma, operai e piccola impresa da lavoro. Un proletariato-imprenditore di sé stesso, del lavoro manuale o della piccola ditta. Ne sappiamo qualcosa anche noi.
Ho iniziato mentre volavo per New York (che non è “America” è una bolla a sé) due libri che hanno l’Ohio come scenario: “Elegia Americana” di J. D. Vance, In Italia pubblicato da Garzanti per settimane in testa alle classifiche nel 2016 e “Demon Copperhead”, romanzo di Barbara Kingsolver (ha vinto il Pulitzer 2023) pubblicato da Neri Pozza. E mi stanno piacendo e in qualche modo raccontano una storia in cui mi identifico.
In entrambi i romanzi ci sono storie di gente “degli Appalachi” e storie di ragazzini con madri single, abbastanza incasinate, e radici in quel mondo del midwest .
Kingsolver racconta la storia di un ragazzino Demon (che si chiama in realtà Damon ma finisce per essere chiamato Demon) che nasce da una ragazza appena diciottenne con problemi e che genera queto figlio destinato a non avere un padre e a seguire le peripezie di una famiglia allargata quanto disarmonica e soprattutto i cambiamenti di umore (e di partner) della madre. E’ una storia di non-padri ma contemporaneamente di radicamento al clan familiare e in qualche modo è lo stesso filo conduttore di “Elegia americana” . Sono a metà dei due libri.
Avevo visto l’omonimo film di Ron Howard, nel 2020 quando J.D. Vance non era ancora passato alla politica e non c’erano notizie particolari su di lui. L’ho rivisto pochi giorni fa.
Devo confessare che mi è piaciuto e l’ho in qualche modo sentito mio.
Certo, il fatto che oggi l’autore sia diventato nel frattempo il vice di Trump non depone a favore dell’autore, ma leggendo il libro capisco anche la sua parabola politica oltre che psicologica.
Oggi colpisce che l’autore di quel libro che almeno in Europa nessuno si era
filato più di tanto – se non come autore del libro da cui il famoso regista trasse
il film - sia l’affilato ed energico vice
del Tycoon, ma resta un libro significativo e in qualche modo per me condivisibile.
Il titolo italiano del libro e del film sono
clamorosamente fuorvianti, meglio sarebbe stato infatti tradurre “Elegia burina” o – con una citazione
“colta” riferita a Ignazio Silone – meglio ancora “Elegia cafona”. Infatti “Hillbilly”
è un termine per indicare i bianchi poveri (di origine irlandese per lo più) contadini
di arre depresse del Midwest, un’area oltre che povera , impoverita in modo
pessimo negli ultimi decenni, in un’area che comprende Virginia, il West Virginia, il Kentucky, la
Pennsylvania e l’Ohio, appunto lo stato che cantavo senza saperne nulla.
La chiamano Rust Belt, cintura di ruggine: più che il foliage bellissimo d’autunno,
sono gli scarti del ferro (l’acciaieria Armco di Middletown, che ha subito un declino dopo
gli anni d’oro) e i relitti e le rovine del “fu florido” polo industriale che fino agli anni Cinquanta era
il cuore dell’economia di quell’area. Oggi molte industrie hanno chiuso, depressione,
disoccupazione, dipendenze da alcol e droga hanno stravolto il paesaggio umano
e urbano.
C’era anche un altro romanzo intitolato proprio “Ohio” di
Stephen Markley (Einaudi) nel 2018
divenne un caso: anche qui, romanzo sui
millennial dell’America profonda. Ma sono molti i nomi di scrittori che hanno
raccontato la provincia americana, però alla fine a New York come Milano e Roma
non viene capita davvero.
Da noi poi, non abbiamo nemmeno capito (né visto arrivare) diverse ondate di
Hillybilly nostrani. Nemmeno dopo aver letto Iovine, Silone e soprattutto Carlo
Levi (se si rilegge oggi bene “Cristo si è fermato a Eboli” c’è già in nuce l’Italia
profonda che voterà dopo decenni Berlusconi. (raccontati meglio da Pennacchi,
Canale Mussolini). Dagli anni ’50 di Togliatti, del Pci di Di Vittorio, stare
dalla parte dei “contadini” era più un imperativo categorico ideologico, che
uno sguardo vero sulle caratteristiche i valori reali di quelle masse di persone
alal vigilia del boom economico.
Quel mondo contadino era sì povero, sfruttato, umiliato e offeso, ma era pure individualista,
egosita, arretrato e di destra, attaccato al guadagno e alla roba ( l’aveva già
raccontato “Libertà” di Giovanni Verga , più ancora che i Malavoglia).
Veniamo a “Hillibilly elegy” di J.D. Vance. Devo di re che
in qualche modo mi identifico molto in questa storia di evoluzione sociale, di
famiglie che si sono inurbate in città, Vance ha l’età che potrebbe avere anche
un mio figlio, se l’avessi fatto all’età in cui i mei hanno generato me.
Capisco quella storia, che ha riguardato anche molti come me, comune a quella
di tutto il dopoguerra occidentale: finita la seconda guerra mondiale, la pace
si è prolungata come mai prima di allora, il benessere ha spinto masse di
contadini a inurbarsi, la società industriale degli anni ’60 prometteva
felicità, benessere istruzione per i figli. Una vita migliore.
Spesso si dice “la destra sollecita la pancia”, va detto che quelle masse di ex
contadini, pur votando in Italia PCI e in Usa (come il nonno di Vance) sempre
Democratici ragionava egualmente con la pancia, prima di tutto. Poi ci fu l’arricchimento
e lì si è rivelata un’identità sociale che non è stata capita. Basta leggere
Operai di Gad Lerner, per capire come i metalmeccanici del sud italia
specialmente somiglino ai contadini divenuti operai della Armco, come siano
molto più simili ai Veneti della piccola impresa che alla “classe operaia” più
idealizzata che capita (anche “Vogliamo tutto” di Balestrini in fondo anticippava
nel 1971 qualcosa di simile)
Quel che racconta Vnce è però qualcosa che è accaduto anche in Francia e in
Italia. Una società di lavoro indebolita e fiaccata da crisi ripetute – dal 2001
in poi - e dal mutamento globale dell’economia.
Da quella storia di speranza esce una generazione che quella
speranza vissuta come una certezza, l’aveva vista dissolversi.
Una generazione arrivata a 60 anni e spezzata, frustrata, e
poi nel tempo – e complici anche i social che innescano isolazionismo-relazione
distorcente - incattivita, arrabbiata.
Perché in fondo (si può dire che si sbagliano ma non si può far finta che non
provino quel sentimento) si è sentita tradita, con una sinistra che – tra letteratura
e politica – si dedicava più alle minoranze e alle eccezioni che non alla
normalità.
un vizio in Italia ben raffigurato da Pasolini: ha in fondo fatto l’epopea di
una banda di ladruncoli, ha eletto a eroi delinquentelli, ma in quelle stesse
condizioni di povertà c’erano milioni di persone – come mio padre e mia madre – che veniva da quel contesto di migrazione
interna italiana e che hanno lavorato duramente e onestamente. Erano come il personaggio
Antonio Ricci di “Ladri di Biciclette” di De Sica, che ne fece un ‘epopea poi
accusato di essere melodrammatico. Poi arrivò Pasolini e fece diventare eroi
quelli che fregavano le bicilette agli Antonio Ricci.
(Sto estremizzando ma la mia chiave di lettura al fine è questa, l’ho capito
solo ora, con il tempo e l’età e ho cambiato idea su PPP. E nel mio libro,
quello che scrivo da anni, c’è una scena che è una riscrittura da un altro
punto di vista di una famosa scena di Ragazzi di vita, dalla parte di chi era
silenzioso e nei film di Pasolini solo comparsa.
Quella massa di persone, i contadini inurbati gli Hillybilly
d’Italia, ha cresciuto la mia generazione di baby boomer sulla promessa di sogni
e promesse che negli ultimi anni sono venuti meno, hanno rallentato economia e
sviluppo. La delusione si è trasformata per molti in rabbia e paura, che la
sinistra intellettuale bolla come paranoie, come “percezione sbagliata” mentre
è reale, perché reale il vissuto quotidiano, quello rasoterra di chi vive nei contesti che altri
interpretano da lontano. Contesti con caratteristiche che non entrano nelle rilevazioni
statistiche analizzate in contesti protetti (i giornali, prima, il coté
intellettuale e artistico le bolle social, di cui pure oggi faccio parte
sociologicamente e professionalmente)
Lì non si capisce il mondo della provincia, della suburra, della campagna “wanna
be” metropoli o delle periferi.
L’unico che in Italia aveva capito megli certi contesti era Tommaso Labranca. La sorpesa dei milioni di
voti per Berlusconi prima, dei voti per la Lega a Mirafiori negli anni ’90, il
ripetersi del fenomeno ora con Meloni e FdI non ha sradicato quel difetto di
sguardo, ideologico e valoriale di una certa parte della sinistra intellettuale
soprattutto (sono gli eredi di chi sbeffeggiava Berlinguer )
C’è sempre questa idea cattocomunista che i poveri siano buoni
e di sinistra “per natura” mentre invece sono esattamente come tutti, variegati
e in certi casi, come adesso in America o in Europa, esplicitamente e
volontariamente di destra, individualisti, conservatori, che puntano all’arricchimento
in qualche caso anche avidi di ricchezza.
L’aveva capito già Dostoevskij quando ne “l’adolescente” fa dire al suo giovane
protagonista di quel romanzo dickensiano ““la mia idea è diventare un
Rothschild, diventare ricco come Rothschild; non semplicemente un ricco, ma
proprio come Rothschild”. Sembra un proclama da trapper di periferia di oggi. Che
sia bisnipote di questa stirpe di contadini caponi inurbati o che sia figlio 2G
di mitranti recenti, la sostanza è simile.
L’unico ad aver raccontata con aderenza il sosstrato
psico-antropologico italiano è stato Vitaliano Trevisan e prima di lui Vincenzo
Cerami in “Un borghese piccolo piccolo”.
Una classe media ex popolana, proletaria
e contadina. Altri esempi non romani: “Cartongesso” di Francesco Maino o “La
buona e brava gente della nazione” di Romolo Bugaro e “Gli sguardi cattivi
della gente “ d iClaudio Piersanti.
Vado a memoria ce ne sono di libri che ci avrebbero consentito una lettura di
quel fermento esploso poi con Berlusconi, la Lega e oggi Fratelli d’Italia ma
anche il M5S populista di Grillo.
Ci siamo abbandonati a “Suburra” e “Romanzo
Criminale” di De Cataldo, un po’ pasolinianamente, traviati da film-serie, come
fossero storie di “crime” senza
riflettere sull’aspetto sociale che esprimeva. Come anche con Gomorra di
Saviano (pessimo servizio la serie tv).
Forse già il “Branco” di Andrea Carraro negli anni ’90 rivelava una suburra non
idealizzabile, ma anche Niccolò Ammaniti
di “Come dio comanda” – e prima ancora “ Grande Raccordo Marco Lodoli con i
suoi personaggi invisibili e non certo inquadrabili in ideologie e “classi” (si
ragiona ancora come se esistesse una “classe” in certi ambienti)
L’ideologia cattocomunista si sposa con il sapore
cinematografaro post-pasoliniano, Troppo
romano poi. Forse sempre per restare a Roma, meglio di tutti allora sono
rappresentativi i personaggi che animano il bar de “Lo stradone” di Pecoraro.
Oggi alora il proposito è leggere con attenzione Davide Coppo “Dalla
parte sbagliata” - magari trovo spunti
come già in Andrea Tarabbia “il
continente bianco” (o il Parise de “l’odore
del sangue” a cui è ispirato).
Anche ritornando indietro ad altre letterature, come quella britannica, anceh Ken
Loach ormai come in Old Oak fa un ritratto spietato de “fu proletariato”. LA
coscienza di classe era un miraggio.
Ora poi si inseriscono anche altre complicazioni, ovvero culture e religioni,
valori diversi. )l’aveva anche qui anticipato Kurehishi ai tempi di Mio figlio
è un fanatico.
Non è sempre “colpa dell’esclusione sociale” . Sta nascendo un processo
identitario di ritorno alle radici che accomuna in modo singolare parte di chi
vuole respingere i migranti ma Anche parte dei migranti stessi.
Quell’ideologia che oggi si divide tra
una estesa adesione al nazionalismo vagamente o radicato anche nell’adesione religiosa (come
pure fanno molti di seconda e terza generazione in Francia vedi le analisi di
molti sociologi dop ogli scontri di due anni fa) oppure sposano la Ideologia
totale del consumo, del Cash che puoi fare in modi ritenuti facili, che non
contemplano sacrifici, lavoro, emancipazione.
Ma questa è una parte complessa, tuttavia ciò che mi sembra il tratto comune è
proprio la spinta identitaria. Lo è per i tanti francesi che votano a destra o
che sono scesi in piazza con i Gilet Gialli. Lo è anche per quelli osteggiati,
ma non è solo una “reazione” è un tratto convinto e radicato. Basti leggere i libri di Eribon o Louis in
Francia (anche li una vasta provincia depressa, ex operaia, delusa, arrabbiata,
una classe media senza carta né territorio, ormai, già raccontata da Houellebecq
che pure con Sttomissione ci aveva visto
lungo )
C’è un vasto continente della rabbia, un “eurasia” trans
globale che mette assieme rabbie in apparenza diverse, ma tutte con una matrice
che sta nel libro di Vance: il tradimento dei sogni di felicità, la promessa di
una “promise land” . Bianchi con radici locali e “migranti-discendenti” di 2G
che rigettano le promesse, che non credono a regole, percorsi, che hanno solo
voglia di “riprendersi il dovuto” magari con espropri proletari come hanno
fatto in questi giorni i bianchi razzisti e negli anni passati i nordafricani a
Parigi : assaltando negozi di cellulari o di sneaker.
LA rivoluzione è fatta per quello, non per diritti, come del
resto le lotte della generazione dei miei genitori : per la pancia, per stare
bene, per avere più roba. I diritti, certo ma non sono il primo pensiero e
infatti sinistre europee e democratici usa che le hanno cavalcate non hanno ricevuto
consensi dall’elettorato tradizionale, ma non tanto per “delusione” quanto
perché quel vasto strato popolare ex contadino poi inurbato, come dimostra il
libro di Vance si è ripreso un’identità – come stanno facendo per altri aspetti
parte delle giovani generazioni di 2G in Francia che spesso protestano con bandiere
algerine e marocchine e vagheggiano un “ritorno” messianico alla terra dei
nonni).
Non era una “resa” alla destra per delusione, ma la rabbia è stato il motore di
una riscoperta di radici mai estinte con un’identità conservatrice che oggi
riemerge. Vasti strati popolari che sono sempre stati “di destra” per dirla con
una formula veloce.
Che vuole riavere quello che le è stato sottratto. E a quei
maschi allevati nella promessa di essere l’asse portante di una tradizione
familiare è riemerda la voglia di riprendersi quel sogno “ di tradizione” come
mostra bene il libro di Vsnce. Nonostante sia una famiglia di persone che
sarebbe meglio evitare, è lo spirto del clan della tribù che prevale è l’identità.
Il nazionalismo della propria “nation” (fine del sogno Lennon-BAmbataa-Marley
di “una sola nazione”. Oggi prevalgono le mille nazioni-clan. Bianchi,
africani, islamici che siano.
Li classifichiamo – quelli bianchi visto che sono partito dall’Ohio – come tossici,
privilegiati, violenti, o vittimisti, incel perché in prevalenza maschi. Ce ne
sono certo, ma la massa erano figli di chi si è fatto il culo e non ha avuto
ciò che meritava – magari proprio a causa di crisi globali dell’economia (e
alla fine i veri no global sono i trumpiani oggi) e negli Usa erano anche
bianchi orfani, poveri, con fratelli morti nelle guerre, o morti per farmaci oppiacei,
proletari intrusi, mal mesi, cafoni, appunto. Figli di cafoni che hanno
affollato anche molti romanzi nostrani, ma che abbiamo sempre letto male, interpretato
male. Ideologicamente.
Erano vittime, erano i “penultimi” e quando hanno visto le sinistre dedicarsi
solo agli “ultimi” hanno ripreso la loro identità, non quella che gli avevano
appioppato gli intellettuali di sinistra facendone un ‘ “elegia positiva” ma
sempre però esaltando i marginali. Nessuno faceva più “l’elegia dei cafoni” normali,
dei burini, dei semplici.
Ora con una certa dose di rabbia, la
rivendicano. E’ tempo in effetti di riscrivere elegie diverse.
domenica 26 maggio 2024
PAUL CELAN, LA TRADUZIONE CHE MANCAVA
E’ uscita la nuova edizione della traduzione delle poesie di Paul Celan fatta da Moshe Kahn. La pubblica L'orma editore
Si tratta della revisione dopo circa cinquanta anni, di quella che aveva fatto lo stesso giovanissimo Kahn prescelto da Paul Celan in persona nel 1970 (il quale aveva invece rifiutato le prove di traduzione sia Giuseppe Bevilacqua che Ferruccio Masini). Che si dovesse tradurre Celan lo aveva deciso Sereni per Lo Specchio già dagli anni ’60, ma ci furono trattative sui traduttori e in fine si arrivò a quella di Kahn, pubblicata da Mondadori con un buco di anni nel 1976, riedita per qualche anno, poi non più ristampata. (Nel frattempo a Mondadori si erano persi la prima scelta di poesie fatta da Celan. ( Sereni decide di "far tradurre" Celan. Poi le cose si complicarono, Celan scelse Kahn, ma non è chiaro come andarono le cose per quanto riguarda la lista che poi Borso ha recuperato, forse si potrebbe chiedere a Kahn medesimo. Le obiezioni di Celan furono la complicazione, per lui una traduzione fa sempre parte del "territorio di genesi" della poesia stessa come ha dimostrato Camilla Miglio nel suo bel libro). Quella lista fu poi trovata e pubblicata poi da Dario Borso che rifece sue traduzioni ne l'Antologia italiana di Nottetempo, di cui ho scritto ai tempi (poi pubblicherò la recensione su questa, completa in cui spiego tutto)
La traduzione di Kahn a me pare molto bella, per quello che certo ne può dire uno che non sa il tedesco, ma che pure ha letto con attenzione l’analisi approfondita di altri germanisti (Camilla Miglio Dario Borso a sua volta ottimo traduttore di Celan).
A Celan non piaceva quello che Sanguineti avrebbe chiamato “il poetese” ma purtroppo in un certo senso le traduzioni di Bevilacqua (che poi diventarono quelle ufficiali di Mondadori) hanno sparso un tono di solennità che non teneva conto della richiesta di Celan a Sereni : non voglio lo stile alto, voglio parole semplici, concrete, come fece dire al poeta dirigente editoriale.
La traduzione di Kahn riproposta e rivista dopo cinquanta anni - con chiarimenti che solo le lettere hanno potuto portare .e che all’epoca non erano note - mi pare vada in questa direzione.
Mi sembra – per dirla con Gianfranco Contini – “una lunga fedeltà” a Celan, il quale, tre mesi dopo la lettera con cui comunicava a Kahn la sua decisione di nominarlo traduttore, si suicidò.
E io pure come molti, comprai la traduzione di Kahn (qui in foto) nei primi anni ’80 durante il mio apprendistato universitario alla poesia. In contemporanea lo stavano comprando molti altri futuri poeti, a Milano, come racconta in una bellissima testimonianza (anche personale, che si riaggancia al suo romanzo "Lezioni di tenebra") Helena Janeczek posta in coda al volume de L’’Orma, tra l’altro bellissimo nella sua grafica e fattura.
È una bella edizione e un pezzo di storia della poesia (anche italiana) da possedere. (Ne scrivo spero più ampiamente presto)
giovedì 4 gennaio 2024
"Ho paura torero" di Pedro Lemebel (MArcos y Marcos) Variazioni "Camp" nella militanza politica
Ho letto ”Ho paura torero”, romanzo del 2001 di Pedro Lemebel (tradotto nel 2011 da Giuseppe Mainolfi e edito da Marcos y Marcos) per curiosità in attesa del ritorno alla regia di Claudio Longhi, direttore del Piccolo Teatro di Milano che lo porterà in scena al Piccolo Grassi dall’ 11 gennaio con protagonista Lino Guanciale.
Il romanzo dello scrittore cileno morto nel 2015 nel mondo ispanico è un cult, è anche un romanzo di riferimento per il modo in cui mescola le questioni politiche della lotta d’opposizione alla dittatura di Pinochet con quella per i diritti civili del mondo Lgbtq+ (Lemebel è stato scrittore, artista, attivista, fotografo, animatore culturale e conduttore radiofonico) con uno stile ironico, allegro, scanzonato e pop, e insieme profondo, sentimentale, in cui il realismo e il grottesco si mescolano all’uso sapiente di un barocchismo pop da commedia venato da malinconia, ma molto vivace e divertente.
La storia è quella di un incontro e di una speciale amicizia
amorosa tra “la Fata dell’angolo”, un transessuale ormai avviato verso l’età
matura, ma ancora pieno di passione e allegria canterina, e Carlos, un giovane
studente cubano, bellissimo, che fa
parte di un gruppo di oppositori al regime il Fronte Patriottico Manuel
Rodriguez.
Lemebel costruisce questo personaggio
modellandolo su sé e sul gruppo di compagne di ventura nel periodo più duro
della dittatura, ricordate nella nota introduttiva, regine nella difficile arte
del travestitismo sessuale in pieno regime fascista e dentro una cultura
machista come molte in Sudamerica.
La Fata non ha nome, il lettore la conoscerà
sempre solo con quel nomignolo (che però un adattamento dallo spagnolo, perché
lo scrittore cileno sceglie per lei il soprannome “loca del frente” la pazza
di fronte, forse una piccola licenza del traduttore che richiama l’origine a cui pure ha fatto
riferimento Ferzan Ozpetek con il suo film, pure del 2001 “LE fate ignoranti “ –
così a un certo punto si definisce anche la Fata nella traduzione italiana – ovvero un quadro di Magritte intitolo
proprio “ La fée ignorante” del 1956).
Anche Carlos usa questo come nom de
plume di copertura. I due si conoscono
in un emporio, la Fata si innamora subito, ha ormai troppi anni per
esibirsi, per esercitare anche l’arte dell’amore in strada, vive facendo la ricamatrice
di tovaglie per le signore bene della borghesia di destra di Santiago. Di sé
parla (e così il narratore la indica) alternativamente al maschile e al femminile a
seconda delle circostanze. Lui, ambiguo e sfuggente, si lascerà desiderare, ma
di fatto userà la casa della Fata come copertura per le riunioni della sua
cellula del Fronte e per tenere delle misteriose casse, piene “ di libri” dice
sempre lo studente.
Siamo nel 1987 e il romanzo culminerà nell’attentato a
Pinochet che segnò la crepa che portò alla fine del regime. MA quello che c’è
in mezzo è una danza leggera, ironica, struggente perché destinata allo
slittamento e alle illusione di tutti gli amori, sempre sbilanciati e forieri
di ferite. LA Fata asseconda Carlos in tutte le sue richieste, lei lo circonda
di un amore che è anche tenerezza fragile. L’amore non sboccerà, in questa
danza di non detti, però di sicuro tra i due si intreccerà una doppia
educazione, un risveglio sentimentale e politico insieme: la Fata, che preferiva
sempre dimenticare la durezza della situazione rifugiandosi nei suoi sogni
romantici d’amore, maturerà una consapevolezza e uno sguardo verso il mondo che
prima non aveva, sempre chiusa nel suo appartamentino-nido, tra uccelli,
ventagli. Non ti scordar di me, Scialli da seta, balze, pizzi, nastri di tulle,
una mobilia antiquata tutti gli ammennicoli di una frocerìa che Lemebel
manovra con abilità tra grottesco e ironia, tra nostalgia e vezzo. Allo stesso modo
Carlos svilupperà col tempo un affetto e un ‘empatia che non aveva, sedotto più
che sessualmente, dall’amicizia accudente e sincera della Fata.
Tutto si tiene sul
filo della finzione, sul filo anche del discorso amoroso modulato però sulla
retorica delle canzoni pop. E’ proprio la ricchezza linguistica la cosa più
divertente del libro, in cui la debordante Fata puntella le sue illusioni di
verità ricamando con un pastiche colto e popolare e con i versi delle canzoni d'amore quello che diverrà anche un tessuto di relazione e alla fine codice segreto tra i due, il codice di una relazione indefinibile.
Un romanzo
certamente teatrale, perché continuamente i riferimenti anche espliciti della
voce narrante e della Fata a certi atteggiamenti teatrali, ostentati,
artificiosi e garruli della Fata a cui corrisponde una teatralità dell’ombra di
un Carlos che nasconde dietro la maschera e il nome finto le sue attività
sovversive.
E’ però un romanzo con non così tanti dialoghi, difficile in apparenza da
portare in scena, perché spesso occupato dalla voce narrante la quale presta
il suo rigoglioso eloquio alla/al protagonista Fata, e infatti Claudio Longhi in
un'intervista doppia con Guanciale su La Lettura ha chiarito che la sua sarà “una
sorta di “edizione teatrale” del romanzo, nella trasposizione di Alejandro
Tantanian, in cui la Fata/Guanciale sarà di fatto anche narratrice.
Tutta la storia si gioca con sul filo del doppio. Con
l'identità che viene celata, nascosta dietro maschere, Sovversivo e la Fata, di
fatto questa esplicita ostensione del doppio consente molti appigli per la
scena. Un romanzo che ricorda molte cose, non solo quello di Manuel Puig
con “Il bacio della Donna Ragno”, ma molti riferimenti tra cinema canzone e ancora teatro (penso al recente
bellissimo spettacolo di Renata Carvalho
a Short Theatre) ma con un’anima latina che accondiscende più alla cultura popolare (forse
attingendo più a un mondo simile al musical “ Priscilla” (e a me viene in mente
una persona che forse potrebbe somigliare proprio a Pedro Lemebel, cioè
Platinette, nella sua multiforme attività tra giornalismo, performance, radio e
attivismo politico).
Nel romanzo compare anche un’altra coppia,
a far da contraltare con rimandi e scambismi, a quella della Fata e di Carlo,
ovvero Augusto Pinochet e la moglie Donna Lucia, ritratti in una loro grottesca
intimità allo sfacelo, affogata in una palude di insofferenza reciproca e ipocrisia,
con Lucia che è anche lei completamente quasi un omologo della Fata, perché da
contadina si è trasformata, si è pensata, come nobildonna, parla continuamente dei vestiti
che vuole comprare, copiando anche quelli della Fata (le due coppie si sfioreranno due volte nel libro) consiglia al marito cosa fare delle sue scelte politiche in
modo stravagante e sciocco, con un dittatore tanto acidamente feroce quanto
ridicolo, che sotto la penna di Lemebel diventa un vecchio pensionato, incapace
e pigro, ossessionato da marce militari e incubi da cattiva digestione. E
interessante del romanzo questo doppio gioco quadriglia. Così come interessante
il doppio risveglio tra Carlos e la Fata, in ci di fatto sarà l’amore della
Fata anche se costretto nella gabbia di una consapevole impossibilità, nel
gioco a illudersi, per sopravvivere, che muoverà le cose, contribuendo all’azione
terroristica. Un tema anche meta-teatrale e insieme politico, etico, anche per
noi che siamo viviamo in questa epoca italiana, ormai trentennale, dominata
dalla destra bauscia di Berlusconi e oggi portata al parossismo grottesco dal “bagaglino”
della destra burina di Meloni, al Governo con le persone che per anni si sono richiamate al
fascismo. E che sono state dalla parte di Pinochet, come ai tempi La Russa
(sarà interessante vedere se in sala ci
sarà il neo nominato consigliere di amministrazione del Piccolo, Geronimo La
Russa).
Che cosa significa per noi resistere? Opporsi al potere? Siamo
più simili a Carlos o alla Fata? Lo studente sovversivo, fortemente ideologizzato,
o la transessuale che rivendica , ostentando una diversità anche impolitica, ma
radicale ? È interessante questo, perché
c'è una sorta di ulteriore riferimento al modo di fare teatro, in questa
storia, vedremo come sarà coniugata da Longhi.
“ho paura torero” contiene implicito il discorso sulla funzione del teatro: se
debba essere o meno quello impegnato e militante o se debba intrattenere,
giocare con la sua arte, tenersi fedele a una sua metafisica, in un certo
senso, senza farsi solo portavoce di istanze e ciclostilati. Ci sono molti
riferimenti meta teatrali nel libro, la Fata dell'angolo continuamente sa di
recitare la sua “parte da donna” nel romanzo di avere delle pose teatrali di
avere dei confronti anche delle altre sue compagne di vita e di strada, continue
e teatralissime “baruffe” schermaglie che racchiudono in sé però legami
profondi.
Alessandro Iachino in un articolo sul semestrale di cultura teatrale edito dal Teatro Metastasio di Prato “La Falena”, i parlando appunto della
dell'impegno anche a teatro di un certo tipo di gruppi e autori, che portano
nelle opere le tematiche politiche, le istanze sui diritti civili, le parole d’ordine del cambiamento di
paradigmi, le nuove soggettività non conformi, danno vita a un flusso di testi
e opere che dipanano, scrive Iachino, “una galassia semantica vaporosa e astratta” in
cui la nebulosità sembra riflettersi in una tendenza al “contemptu mundi”,
ovvero al disprezzo del mondo, all’osteggiare una differenza dal mondo
circostante con il quale però “non vogliamo dialogare”.
UN teatro-Carlos, starei
per dire, militante che però più diventa politico e meno dialoga con il mondo che
vorrebbe cambiare. Non c’è però solo la lotta elitaria tra gli artisti e i
governi, c’è il “buio che ci circonda” la città invisibile e reale, come la Santiago che la Fata attraversa nel romanzo, abitata da tutte le persone, di tutte le estrazioni sociali, ed è con loro
che si gioca la partita politica. Insomma nel coinvolgimento del pubblico, in qualche
modo tenendo conto delle scelte del pubblico, elemento imprescindibile per ogni teoria estetica e politica nell'epoca delle democrazie tardo novecento.
Lemebel
sembra sposare questa strategia, proprio diventando volutamente come autore e artista un‘icona
Camp e sotto sotto, lasciando filtrare nel romanzo uno spirito critico anche verso il mondo dei Carlos.
Quello che oggi, direbbe Walter Siti in “Contro l’impegno” sembra teso a “valorizzare
l'opposizione in quanto tale”, più impegnato a mettere in scena la sua
retorica, a pronunciare i discorsi predefiniti di opposizione, le parole d’ordine,
più che a costruire una consapevolezza
diffusa del cambiamento, nel dialogo anche con chi al momento è diverso, ha gusti
e formazioni diverse, ha magari un’estetica pop come riferimento (come quella
delle canzoni della Fata) .
Si fanno tanti spettacoli di denuncia, scrive
Iadichino, ma “vanno in scena di fronte a spettatori già informati, già
aderenti a “quell’afflato politico”. Spesso
accade che quel pubblico sia fatto da teatranti e dintorni (come sottolineava
Cordelli nel 1975 a proposito del pubblico della poesia fatto da soli
poeti)
Se è condivisibile in teoria quello che ho letto in una citazione on line, di Jacques Rancière che “la
finzione non è la creazione di un mondo immaginario, opposto al mondo reale ,a
è il lavoro che produce dissensi, che modifica i modi di presentazione
sensibile e le forme di enunciazione, cambiando le cornici, le scale e i ritmi,
costruendo rapporti nuovi tra l'apparenza e la realtà”, è pur vero che in
pratica bisogna anche capire quali sono le “cornici “da cambiare e i contesti,
le competenze di chi vorremmo invitare a cambiare (per non parlarci addosso
insomma e per non costruire un muro cieco di codici autoreferenziali e di solo
dissenso).
Spesso nella platea dei teatri non si crea il dissenso, al 99% tutti gli
spettacoli che hanno questo afflato politico di denuncia e di dissenso ricevono
applausi scroscianti (negli ultimi tempi solo uno spettacolo ha creato una
crepa, vivaddio, “Caridad” di Angelica Liddell) . Per il resto grande
indignazione, grande commozione, grandi applausi. Per questo pubblico già
informato e già aderente a quel dissenso che sta sospeso tra il palco e la
realtà. È una sorta di eco-chamber confortevole, un parlarsi tra chi è d’accordo
(Facebook ci sta anche abituando con l’algoritmo a questa echo-bolla-chamber)
. Si fa arte che vorrebbe essere testimonianza e finisce per diventare, se
pronunciata di fronte ai nostri simili, uno “ sguardo autocentrato che
dimentica il circostante” come scrive in un altro articolo de “La Falena”
Lorenzo Donati, utilizzando il termine di Gianluca Simonetti, tratto dal suo
libro di critica “La letteratura e il circostante”.
Nel romanzo di Lemebel
invece il “Fronte” di Carlo e il “Frente”
della Fata, la loca, stanno faccia a faccia, dialogano, si trasformano uno nell’altra.
Anche l'arte in apparenza fatua e vaporosa delle canzoni dà il suo contributo
all’ideologia politica (la quale spesso, come anche l’ideologia estetica,
sedicente “di ricerca” o rigorosa è ugualmente linguaggio vaporoso ).
Interessante che Longhi, alla domanda di Laura
Zangarini su La Lettura, su quale sia la funzione del teatro , diche che il
teatro oggi dovrebbe “sforzarsi di restituire il cangiante trascolorare del
presente nel futuro, debba testimoniare il nostro tempo incerto” dice Longhi,
senza però “mai dimenticare la sua genetica ‘ leggerezza’ la sua vocazione
innata a essere luogo del divertimento”. Ci aspetta forse molto giocoso e
canterino divertimento al Piccolo. A 50 anni e poco più da quell’11 settembre
1973 che non riuscì però a spegnere la musica né a cancellare l’arte di Lemebel
e delle tante Fate.
mercoledì 3 gennaio 2024
LA VITA HA UN SUO RINTOCCO INNATO, ANCHE SENZA DI NOI. "Le campane" di Silvia Bre (Einaudi)
Una delle figure più antiche della poesia è quella piccola forzatura logica della lingua chiamata “sinestesia”, la connessione di percezioni appartenenti a diverse sfere sensoriali (il “profumo dolce”, il “colore caldo” ecc.) . Ho pensato a questa figura come metafora del libro di Silvia Bre, “Le campane” (Einaudi) in cui certo sono presenti questi artifici retorici, specie nella seconda parte, ma anche perché il libro mi sollecitava un continuo slittamento, uno minimale ma diffuso spiazzamento logico, nel suo procedere sintattico, specie nell’uso nell’aggettivazione, specie nel creare una fusione sensoriale tra suono e spazio. Lo si vede subito dal testo che ci accoglie sulla soglia della copertina e che nella raccolta apre la seconda parte: “Una campana che rimbalza da lontano/ e la distanza da domare si consegna” creando il trasbordo sensoriale esplicitato nei “corpi adorati tradotti/ dall’udito”. È il suono ad occupare lo spazio, che avvolge la posizione del soggetto che ascolta – così che non si ha mai la sensazione lirica di un “poeta che dice io”, ma di un campo acustico-concettuale, una corale non geometrica. Il campo saziale è ciò che determina il tempo, anche qui in due semplici battute: “Ero là, ecco la storia” come inizia proprio la poesia di cui stiamo parlando.
Coerente con il senso generale
dell’allegoria del titolo, “Le campane” è una raccolta con una diffusa presenza
di risonanze, echi, utilizzando una voluta alea grammaticale -sintattica sin da
subito con la poesia che apre il libro in cui è il “cielo” che reclama una
forma, con una campana che “manda sé stessa” – ma in una dimensione sospesa di
“impermanenza”.
Tutto il procedere del libro adotta una tecnica di rimbalzo: sia fonico, con diffuse
rime o assonanze, sia tematico con riferimenti al propagarsi di onde o linee di
materia nella percezione di sensi. Anche per la vista è lo stesso:
E se il
punto di fuga sfonda il disegno
e lo diserta senza rigore
dove muore la prospettiva?
Dato il
punto di rottura percettivo, la poesia di Bre indica la condizione
dell’immagine che nel “disfarsi è la sua resistenza” accettazione di un punto
di incedibilità tra conoscenza e non-conoscenza per cui la poesia è la migliore
posizione “in questo punto sospesa/ in nessun luogo visto/ congiunta
all’incompiuto”
Ci si muove ancora in quel “sospeso stupore” come lo definì Marco Merlin, delle raccolte
precedenti. In una dimensione che si muove agilmente tra i riferimenti vagamente
religiosi (e condizioni di vita ancestrale, percependo mentalmente anche il
suono di realtà invisibile ma intese come permanenti: l’ex-ergo a una poesia lo
afferma perentorio, indicando nelle “grotte di Cheuvaux/ la persistenza
acustica della poesia”.
Nelle tracce arcaiche di trentamila anni fa o nella
percezione dell’oggi, per Bre c’è la ricerca di un elemento del mito che non è
narrazione, religione, fabula: “il ritmo innato vaga prima/ della vita” scrive
Bre, e mi sembra che la sua poesia, nella sua lingua, nella costruzione delle
sue immagini ci si in fondo questo ritmo, una vibrazione. È quella della figura
dipinta (il “toro”), continua nello stesso testo, che circola, “libero dalla storia”,
perché “l’essere noi”, sorta di richiamo
a una presenza eterna dell’essere vivente, di tutta la comunità dei viventi,
“non è una porzione/ miserevole del
tempo” ma “ondeggia sempre”.
Il tempo è
per Bre è “un adesso perenne” fatto di queste vibrazioni o “tremito lungo” che
comprende la materia cosmica, i viventi e anche “i gesti delle fate/ e dei
maghi”: il singolo si colloca in questa vibrazione primordiale e qui trova il
suo senso, nell’ “essere stati il futuro di qualcuno”. Forse anche di qualcosa,
il mondo, il pianeta, tutte le sue trasformazioni viventi e no.
C’è più biologia e geologia in Bre che psicologia, almeno nella poesia de “Le
campane”. Non c’è dubbio che rientrino una concezione della natura olistica, il
complesso del sistema-pianeta in cui ognuno di noi è collocato, ma la storia
sembra essere solo un accidente transitorio e breve rispetto alla dimensione più
ampia del cosmo, della materia quantistica, del comparire della vita. In un
certo senso è la scienza che sembra offrire al momento uno spazio di
possibilità di senso a ciò-che-non-si-sa, nel senso che si ammette che molte
cose non si sanno ancora.
Non è un
caso che una poesia (p. 12) riporti come esergo “Einstein”. Quel che scienziati
come il fisico tedesco hanno mostrato non è una verità, ma per il momento
“misure sconvolte” del mondo di fronte a cui bisogna “stare nella notte/ e
cavare un linguaggio, orientarsi” nonostante lo sconvolgimento. Bre sta tra una ricerca “dell’origine” e
l’accettazione del mistero: “a volte senti proprio nell’aria, proprio/ nelle
orecchie, l’inizio che aspetta” immersi in una dimensione ampia che conforta (“è
l’universo / e sa la tua presenza”) ma che è anche resistenza a questo
sgretolarsi delle misure (p.17)
Come un’alba
nera madornale che da est
cerca l’Atlantico nei giri
della nebbia fino alla curva,
e lì la spuma della mia presenza
frontale contro la dismisura.
Ci sono
parole che la storia della poesia consegna a una memoria e durata di echi, come
del resto di risonanze è fatto il mondo, ma qui non può non venire in mente
quella chiusa celebre di una poesia di Milo De Angelis da “Millimetri”: “in noi
giungerà l’universo/ quel silenzio frontale dove eravamo/ già stati”.
anche nella chiusa della sua poesia Bre evoca una medesima, irrequieta presenza
di un vasto silenzio che tutto sa, che egualmente contiene, nel tempo:
Che venga a
prendermi ogni luce
o anche un giro di vento, che plachi
il silenzio della mia comprensione assoluta.
Silenzio, mistero, comprensione frontale.
In un libro recente, pubblicato da Vallecchi nella collana curata da Isabella
Leardini, Silvia Bre aveva scelto la parola “Mistero”. La sua è una poesia diversamente
ermetica, senza essere oscura di inaccessibili segreti riservati agli
eletti, con un’allusività che espone la semplicità e al tempo stesso irriducibilità
dell’evidente, non traducibile in “conoscenza” ma senza necessità di richiamare
entità sovra umane, invisibili.
Semmai in cerca di tracce tutte dentro la materia del vivente. Poesia chiarissima,
limpida come l’acqua di un pozzo: “Quale mistero pervade un pozzo!/Quell’acqua
vive così lontana” scrive Emily Dickinson nella traduzione della stessa Silvi
Bre che alla poetessa americana ha dedicato decenni di lavoro, culminato nel
volume recente “poesie” una ‘ampia scelta delle migliaia di testi
dickinsoniani. Un lavoro che non manca di riverberarsi sulla scrittura di Bre.
Al mondo a cui guarda Bre, non oltre ma nel visibile si appartiene per
fusione amniotica, per comunanza molecolare, meno per significanza linguistica,
sebben ovviamente questa scrittura-prima-della scrittura passi per la materia
grammaticale che è concepita da Bre più come “voce” che come “segno” sebbene il
segno faccia il suo gioco, la sua acrobazia, tuttavia fallimentare anzi mortale(p.
5):
La luce di qualche verità
qui è eclissi
gli sguardi le cantano al
buio.
Anche la grammatica fa
il suo salto mortale
e non sbaglia ma muore.
Se il silenzio è
comprensione è la grammatica muore, il poeta continua forse a metà strada, in questa sua fragilità che da un lato sembra disorientata
di fronte a due vertigini: quella della dismisura che viene dalle scienze e dalla
conoscenza e quella della facoltà che ci rende senza bisogno di parole capaci
di immediata comprensione e così (p.24) sta quel “meridiano/ di rintronati
dalla fragranza di un suono / la loro eleganza disadorna. / Non sono mai
nessuno i poeti”. I poeti riescono ad essere ancora meridiano, per evocare la parola celebre di
Paul Celan.
Sempre più fragile, come qualcuno che scrive sui muri la notte. “io parlo
l’artificio” scrive Bre e paragona la scrittura a un “comparto industriale smesso”,
un’ agire residuale per il quale il poeta si appella “dica qualcuno in tempo
che c’è una figura, un’ombra/ un gesto di pietà da offrire a un altro”. In
questo nucleo di minima resistenza sta la poesia capace, tuttavia, di reggere
lungo l’asse del “tempo astrale”, chiosa Bre.
Il corpo è il rintocco
della presenza,
vuole coincidere. Fossero qui, le campane.
Invece l’essere in loro è così, disteso
in uno splendore che retrocede
È evidente la fiducia dell’io-poetante
in un punto di contenimento dello sciamare percettivo. Questo sono, le campane,
metafora di una sorta di enti (il nostro corpo, i sensi, ma anche la nostra
stesa conoscenza e non-conoscenza insieme) che “slegano in mondi” l’esistente
ma “chi prova a fermarle perde, perde/ l’elusione scintillante che contengono”.
Contenere dunque questa elusione, tenere scintille nell’incavo della mano, essere
dentro una dimensione di “ere più vaste di questa” senza alcuna missione o destino,
sapendo solo che “quel lontano è amare tanto”.
Il poeta non indica in un centro, consapevole (p.35) che c’è solo una “orda dominante” che ci agita, se non altro agita il poeta straziato dalla compresenza silenziosa che non si può contenere come la cenere tra le braccia. Essere sollecitati a dichiarare un centro è una sorta di violenza, allora, quale un fuoco che avvolge una che piange” uno “sconosciuto che ti dilapida” e a fronte di facili e sentimentali poesie che puntano a quel centro di gravità permanente dell’anima, l’io-poeta di Bre risponde:
Dillo trionfando che non
ci sei, non hai cuore,
è un’altra l’unità da pronunciare, ebete,
e non sai quale, non sai farlo.
Tra l’ “io slegata” (p38)
e il “tu, meraviglia” (p.34) c’è un riconoscersi dentro una dissolvenza
soggettiva, dentro questo “ritmo antico del nulla” che è molto di più di quel
che può farci comprendere l’idea dell’esistenza di un dio, un “dio temerario” lo definisce Bre, cantato
con “segno disumano” a cui è contrapposto ancora una volta il silenzio, “la
pace dei significati”. C’è una natura contemplativa della e nella natura
nel pensiero poetante di Silvia Bre, ma non si potrebbe neppure definirlo così,
forse un pensiero che si comprende nel momento in cui di esso stesso si
dissolve ogni segno, la poesia essendo un canto in cui l’artificio serve a
creare la dissolvenza nella permanenza stessa della grammatica, in cui questa dissolvenza
è il tradimento della lingua che consiste nel permanere.
L’effetto è quello allegorizzato (p46) come un “mugolio/ di rocce, campane/ che
suonano contro la forma/ il giuda da tradire”.
E ancora (p.47):
L’umano ha questo fuoco profumato
di una lingua
che porta il non più in
cui stare.
Esercizio di sottrazione questo “filo denso della presenza” nostra, di specie tra specie e selve e rocce, trova nella lingua della poesia un ulteriore esercizio di svuotamento, di cui resta solo un “soffio diffuso”: è quella la “lingua celeste dello sparire”, che è sparizione mentre si dà e risuona. La poesia punta non all’indicibile, bensì alla capriola o salto mortale del dire una “quiete sospesa” (53) di beatitudine che trasforma il canto in soffio, il significato in un silenzio al massimo un’eco di quella lingua-campane, come una traccia di misura dal modo delle madri. La lingua nella poesia rintraccia un canto e affronta il precipizio del buio, la condanna per aver tradito proprio con le parole una beatitudine che non ne aveva bisogno. Poesia come la voce di un canto che risuona in una “navata” per la “carità “della “gleba” (p.56):
suonata a senso dalle
campane
per timone le tenebre
mi ruota nello scheletro la nube di una luna,
questa infamia fedele di beata.
FORSE LA GIOIA ESISTE. "Ipotesi del vero" di Giorgio Ghiotti (LibreAria)
La città dove abita Giorgio Ghiotti è Roma, ma la città che lo abita quella dei versi (suoi e non soltanto). Anche la prima, pur essendo una città che coincide con la disastrosa Roma della cronaca, resta una città della gioia, come se provenisse da un luogo anteriore, per usare un titolo di un altro poeta romano Roberto Deidier. Del resto non c’è luogo dove l’anteriorità condiziona così tanto il tuo futuro. Nel suo caso quel luogo è anche l’infanzia, momento di “miracoli leggeri” in cui si poteva percepire – per fare un esempio, prendendo una delle poesie d’apertura del suo nuovo libro “Ipotesi del vero” (LiberAria Editrice) - in quei “pazzi di quartiere/ da cui da bambini ci tenevano distanti” che fossero “ultimi custodi di voci inascoltate dell’assenza”.
Per Ghiotti l’infanzia, che attraversa i suoi libri (solo di poesia e prosa,
una decina in dieci anni) è mito
rivendicato, e ancora di più da adulto, ora che Ghiotti non è più il brillante
esordiente di 19 anni.
Dato che Ghiotti stesso lo tematizza, come parte della sua concezione
letteraria, dichiaro subito che conosco Giorgio, c’è amicizia e condivisione
(di matrici, come l’essere stati allievi di Biancamaria Frabotta, io dieci anni
prima che lui nascesse). Il suo stile, il suo modo d’essere poeta sono distanti
dal mio, ma questa non è una recensione né amichetta né militante. Trovo che
Ghiotti costruisca il suo mondo letterario con una coerenza, tra scelte di linguaggio, forma, sua
personale attività (editoriale , critica, organizzativa).
Oltre questo, di cui cercherò di dare conto analizzando il suo ultimo libro di
versi, mi ha sempre colpito con curiosità un po’ sorprendente, un certo suo
sincero culto di maestri e maestre, perché sono una spia di un tempo che ne ha bisogno e di
un’attitudine più generale che il poeta fa sua, porta nella sua voce singolare. ed esprime, Anche in questo Giorgio Ghiotti è poeta.
La cosa che mi ha colpito sempre è come nella sua scrittura consegni al lettore
uno sguardo aperto al mondo, ma come se lo guardasse da un retro-pensiero secondo, da un punto di vista anteriore, appunto, che
cerca puntello in un passato che fa anche da riparo proprio perché non è il suo
personale vissuto, ma un passato di tutti fatto proprio.
“Si piange per un mondo che scompare” scrive Ghiotti in una delle prime poesie
di “Ipotesi del vero” e testimonia di
questo suo percorso di continuità. La poesia di Ghiotti non è però un’elegia (
che in qualche modo cita un tempo esatto e accaduto) ma costruisce un
sentimento dello stare nel tempo storico presente.
Da cosa nasce questo attaccamento al passato? Non rispondo limitandomi al suo
caso, ma dal caso guardando alla generalità di una generazione o più d’una dei
nati negli anni ‘ 90, talmente abituata
a materializzare i ricordi in oggetti e tracce visibili (foto, video) la vita
vissuta – e che poi nell’adolescenza ha incontrato l’esplosione dei primi social
network nel 2008 – da avere nella propria coscienza collettiva e individuale,
la sensazione di avere un lungo,
intenso, passato che al tempo stesso sfugge, perché non garantisce un futuro.
Ecco che allora in poesia quella zona franca dal tempo (e dalla Storia) che è l' “infanzia”
di cui Ghiotti riscrive il suo personale mito (certamente è stata tra le più dorate, per
bambini bianchi che nascevano in Europa a metà anni 90) facendolo diventare
qualcosa che si estende alla coscienza adulta. Nessun cedimento al fanciullino, tuttavia, ma
la traccia materica di un’altrove stabile, quasi in sostituzione di utopie:
anzi forse un’utopia retroversa in cui il futuro, contraendosi fino a ridursi a buco
nero, diventa sempre più arco teso tra finzione,
immaginazione, teatrale nostalgia di un passato e una materia prima, minuta e concreta del quotidiano presente che
pure ci tocca vivere.
Questo spiega anche la scelta di un verso dal ritmo metrico scandito, attento
alle misure, al suo moderato cantabile e insieme atonale, nella scelta
lessicale non di rottura, non espressionista. Non esente da smottamenti, la
vita si raccoglie in sequenze di “felicità parziale e provvisoria” ma a cui si
sommano ricordi di un “tempo precipitato di ombre” in cui si convocano “i
morti”: non solo i propri (come la sezione finale dedicata a “l’altra ragazza,
mia nonna”) ma tutti, principalmente i poeti. Questa dimensione osmotica tra
mondi, scrive ghiotti, abbevera “la mia immaginazione” ( questo ultimo termine
ricorre più volte nel libro).
Sono ombre che tornano, ricordi di figure “giovani” che finiscono per
sovrapporsi con l’età giovane dell’io che scrive, quasi che a un tempo l’io-poeta
Ghiotti è giovane nel passato o quei morti sono giovani negli anni duemila.
Anche i ricordi, sono coltivati non come storiografia di sé ma come “sentimento
intatto” nel suo restare opaco o “illusione di doppiare/ l’innocenza del
mondo”.
Muovendosi negli spazi di una geometria spesso domestica o di
quartiere, fatta di cucine e dirimpettai, portoncini, gerani e cimiteri
familiari come il Verano di Roma, un palazzo in cui abitano forse invisibili
scassinatori, l’Io-poetico di Ghiotti narra di un mondo che vuole essere sia
denso di fantasmi, immaginazione, ricordi, sia fatto di confini reali, quasi
realistici. Un mondo e una vita che riescono “ad accordare un senso” al poeta ritratto
nel ricordo giovane “tutt’ossa” quando
già (appunto) cercava di “dar forma a qualcosa che valga/ il lusso dolente di
un ricordo, un sottocasa /serale”. Ghiotti così come metricamente e
linguisticamente, costruisce una dimensione di spazio esistenziale e mentale ristretta,
nel senso di ravvicinata: quello che conta è “dirsi le cose negli occhi” o
“intendere vicina” un’altra figura femminile. Nel ravvicinare, sta il riparo
dalla Storia verso cui non si accorda più molta fiducia, in “questa eternità senza gloria”.
E’ il titolo di una sezione e mi sembra esprima, non solo un senso
dell’esistenza generale, ma anche – come può certo farlo un poeta - una precisa
posizione anche politica rispetto al sentimento dell’essere abitanti, cittadini
e poeti, della città di Roma, entità socio-ambientale e culturale determinante
per la poetica di ghiotti. Roma che per chi scrive, pur romano, è ormai un caso
a parte nella storia di questo paese e sua cartina di tornasole.
Ghiotti tuttavia abita Roma (città “santo” scrive in una chiosa) come se
abitasse un linguaggio poetico. Città che da sempre inibisce tutte le prospettive
di gloria, perché troppo eccessiva in questa sua monumentalità statica,
ma che consente reti interne e comunità. La principale per Ghiotti è quella dei
poeti, veri, conosciuti frequentati, o vagheggiati alcuni morti. Di solito i
poeti si scocciano se ad altre vengono paragonati ad altri, voci del passato,
come se volessero nascere da sé. Ghiotti invece è un singolare caso di poeta della
tradizione: non un poeta tradizionalista, ovvero conservatore, ma un poeta
che da sempre omaggia il suo personale olimpo storico dove si va da Amelia
Rosselli a Patrizia Cavalli (entrambe con dediche) ma anche altri, anche
fratelli e sorelle maggiori, fino ai coetanei alcuni dei quali però dissolti
giovani in epoche diverse (Beppe Salvia e Gabriele Galloni) la filiera della
“scuola romana” tra ironia e disillusione, una galassia “plurale” come già
scriveva Biancamaria Frabotta in un suo saggio, dove forse però – azzardo io - “Roma” è il marchio di eternità dove nemmeno
ci si pone il problema di “perdere l’aureola” alla Baudelaire. E’ come se
questa folla di poeti però si muovesse spazio-temporalmente dentro il “campo
magnetico” di aura di eternità, in cui prevalgono immaginazione e favola, dove
tutti sono quel “santo” che è Roma (L’olimpo è ampio e scritto nelle note
finali del libro).
Ghiotti interpreta questa tradizione in sintonia col suo tempo, quello di una generazione
cresciute tra precarietà e nomadismo. Non manca – scrive in una poesia - il
desiderio di “indubitabile promessa del futuro”. Proprio in un testo che è
parte della sezione dedicata a Frabotta, spera che il fortiniano “composita solvantur” sia esattamente quel
dissolversi di quanto è composto, così che il l disordine possa succedere
all'ordine, inteso come movimento che rompe la stasi.
Tuttavia, nell’universo di Ghiotti prevale la non-rottura e il futuro si spera
sia “senza furti né assedi” sia qualcosa
che si può conoscere, vivere anche potendo “tentare con slancio un onesto bilancio/ con
la Storia. Anche – tenta dimessa/ una voce – se non c’è più storia? Risponde il
coro dei vivi, Anche”.
Il recupero di lezioni di maestri può essere forza ma anche gabbia, questo può
essere anche un rischio per lo stesso Ghiotti come autore. Poeticamente però esprime il senso di un bilanciamento tra angoscia del
dopo-Storia e assorbimento di una Tradizione, dove alla fine la poesia è
strumento umano che genera sentimenti di un diapason che sostiene l’esistere,
con un risonanze ampie e oppositive: per Ghiotti scrivere è fare “poesie come
sintomi – felici/ e feroci, necessarie – quel tanto/ da sentirsi ancora vivi”.
Mi pare, nello stile e nella posizione di poetica, tutto molto coerente.
Nella “mente” che è “felice carceriera” di una intensità ravvicinata in cui la poesia si fa
strumento umano, umanissimo e comune e il comune vissuto ingloba.
Lo ingloba non senza quell’avvertenza sul sentire e vivere post-moderno di cui
aveva avvertito Umberto Eco nella post fazione a “Il nome della rosa”: la
condizione post moderna è quella in cui
– diceva Eco – non diremo più “ti amo” ma diremo “come direbbe D’annunzio, ti
amo”. Ghiotti esprime però anche un senso di tensione centrifuga da questa non
aggirabile consapevolezza, fatta anche di “formule nascoste nelle vene” che
“raccontano per noi come eravamo” (ancora questo insistere di un passato)
dentro “geometrie ignote di vite ipotecate” da cui “cavammo una parola, la
prima forse e poi non fu più muta/ l’avventura per cui sillabammo “amore”.
Ecco Ghiotti lo scrive tra virgolette amore, come Eco, ma lo rivendica
come parola primaria, parola originaria, da sillabare nuovamente come si fosse
i primi, non da citare da passati codificati, come inevitabile matrice
linguistica di una “avventura” (è il titolo di una sezione anche ) che è
vivere.
Si tratta di un bilanciamento tra desiderio di vissuto
originario e consapevolezza di poesia e vita da “postumi”. I Gargoyles
medievali delle chiese sono memoria di cartoon infantile – si fondono,
diventano “angeli” protettivi di una stagione della vita “fosse pure l’ultima
che importa”, dice appunto da postumo.
Ghiotti procede come il moon walking, il passo di ballo morbido che
gioca sull’ambivalenza di arretrare procedendo. Nella sezione “l’andare e
l’addio” le due polarità che non prevedono alcun “ritorno” rilanciano verso una
figura di futuro concreto, un piccolo famigliare, Pietro: a lui il poeta scrive
: “Ti parlerò dei maestri” e dunque l’ossessione di quel passato diventa trasmissione
in vita stavolta, passaggio di testimone verso il futuro e non solo – come per
il poeta stesso – sorta di eredità e incarnazione dei morti nel corpo vivo del
giovane allievo di Frabotta ,quello che immagina
sé stesso , ripensando agli anni Settanta, come superstite “ di quello stesso mondo”. È’ un
andare diverso in questa sezione. E’
vero quello scrive Carmelo Princiotta nella postfazione: “la seconda sezione
consola del lutto della prima”, forse anche un’elaborazione che porterà Ghiotti
ad un addio, ad un saluto, magari anche uno strappo necessario rispetto a
questo mondo dei poeti, vivi o morti che siano, su cui certo ha costruito il
suo mondo poetico.
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