martedì 11 marzo 2025

CARAVAGGIO 2025, UN BEL REMAKE, MA L'ORIGINALE RESTA INARRIVABILE

 


Caravaggio ritorna a Roma come una star del cinema, con la mostra “Caravaggio 2025” inaugurata il 7 marzo e che fino al 6 Luglio è ospitata alla Galleria Nazionale Corsini di Palazzo Barberini in coincidenza con l’anno del Giubileo. Curata da Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon, ospita  24 capolavori che oggi è difficile vedere tutti assieme, con alcune primizie assolute arrivate da musei esteri, uniti ovviamente ad opere da sempre a Roma.

 Ecco allora “I bari”, dal Kimbell Art Museum di Forth Worth in Texas, così come “I musici” dal MoMa di New York, o “Santa Caterina”  del Thyssen-Bornemisza di Madrid ( venduto dall’Italia fascista nel ventennio ai loro camerati franchisti)  o “Marta e Maria Maddalena”, da Detroit. Su tutti spicca per novità  – ma certo non il picco del Merisi, in termini pittorici – “Ecce Homo”, dipinto a Napoli, secondo i curatori nel 1060-1609 finito poi in Spagna e ora di proprietà privata, attribuito a Caravaggio solo nel 2021, esposto per la prima volta in Italia. Accanto a queste opere, alcuni dei capolavori da sempre tra Galleria Borghese e la collezione del Palazzo Barberini.
Proprio questo splendido teatro barocco contribuisce all’effetto spettacolare, l’unico posto in ci si può salire ai piani superiori dalla scala disegnata da Bernini e ridiscendere da quella ideata da Borromini.

Caravaggio torna a casa, o meglio nella magione nobiliare di uno dei suoi committenti, ma 
non troverà nulla della Roma popolare che lo aveva ispirato all’arrivo da Milano nel 1592 (in un emigrazione al contrario, dalla Lombardia alla capitale, proprio come faranno Dino Risi o Carlo Emilio Gadda Alberto Arbasino, secoli dopo).
La Roma che forse poteva sopravvivere nei volti, nei corpi, fino agli anni ’50 della sua riscoperta che avvenne  – ancora per citare una rivalità dualistica tra le due capitali, del potere e della moralità – stavolta grazie alla sua città dove era nato nel 1571 e che ospitò 380 anni dopo, nelle sale di Palazzo Reale,  la celeberrima mostra della riscoperta moderna,   “Caravaggio e i caravaggeschi” nel 1951, curata da Roberto Longhi , esposizione imbattibile con i 61 quadri di mano del Merisi medesimo nonché altri 132 della scuola pittorica che a lui guardò una volta che la sua fama deflagrò nei cieli di Roma.
Diciamo che quella Mostra è il leggendario originale, questa di Roma è un remake, ottimo, ma remake di quell’inarrivabile.

Un anno prima, nel gennaio del 1950, un allievo di Longhi, Pier Paolo Pasolini, approda a Roma. Aveva sicuramente assistito nel 1942 ai suoi corsi su Caravaggio, allora poco conosciuto all’università di Bologna.
Ora, arrivando a Roma, la pittura tra Giotto e Caravaggio diventa folgorazione in carne della visione pittorica e che Pasolini poi trasporterà nei corpi e nei volti del suo cinema, dieci anni più tardi, come ha testimoniato la mostra del centenario su Pasolini del 2022, in particolare quella del ramo pittorico del suo lavoro, ospitata proprio a Palazzo Barberini ( “Tutto è santo. Il corpo veggente”) .


Tornando a Caravaggio, la stessa Galleria Corsini e tutto Palazzo Barberini sono casa, lo è ancora di più per il “Maffeo Barberini”, anzi dimora, come fu per il futuro Urbano VIII. Merisi lo dipinge ancora da prelato, (con data incerta tra 1598 e 1607) in un dipinto che Roberto Longhi attribuì a Caravaggio nel 1963  e riconosciuto come tale da tutta la comunità di studiosi, affiancato a un altro “Ritratto di Maffeo Barberini” sulla cui attribuzione si discute ancora. Il confronto e accostamento di opere che altrimenti non sarebbero mai  visibili a distanza così ravvicinata,  è uno dei punti di forza di questa mostra, e che corona il grande sforzo di ricongiungimento di queste “star” (e così come per la mostra del 1951 si mosse anche il cardinal Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI,  è indubbio che anche in questo caso il Vaticano indirettamente ha avuto un peso, se non altro come motivazione e come sforzo - anche economico economico – a cui si unisce anche la finanza di Intesa Sanpaolo).

Se la forza artistica, la rivoluzione di bellezza, l’impatto sociale e religioso di Caravaggio sono ormai evidenti a tutti e le opere parlano da sole e la sua fama pure – la quale va ben oltre le competenze delle centinaia di migliaia di visitatori già previsti per i quattro mesi di durata – si può dire con serenità che questa mostra non scopre nulla, come fece quella di  Longhi del '51,  ma appunto “mostra”, e tuttavia, indubbiamente, è  un bel mostrare.
Mostra infatti l’inimmaginabile oggi, ovvero questi 24 capolavori di Caravaggio tutti assieme e così vicini.

Visto che è la celebrazione dell'arte come ciliegia turistica, va detto che si può certo godere nell’ammirare – oltre che opere troppo lontane come alcune in sperduti musei degli Stati Uniti ora sempre più lontani dall’Europa  – come si sia evoluta la sua pittura. Come rapidamente e forse proprio grazie alla potenza fisica della Roma popolare (idealmente immaginiamo la stessa che colpi altri nordici che calarono secoli dopo),  la potenza pittorica di Caravaggio si impenni subito tra il  “Mondafrutto”  piccolo quadro della Royal Collection londinese dipinto appena arrivato nella città dei papi nel 1596  col giovanotto fruttivendolo, non dissimile dal sé stesso dipinto nel contemporaneo “Autoritratto in veste di Bacco (il bacchino malato”) della Galleria Borghese, anche questo di piccole dimensioni.
Sono opere della sezione “Debutto romano” segnato da una vita iniziale di espedienti, realizzando quadri piccoli da vendere pochi soldi.


Quella traccia di vita che esplode dal basso fu sempre l’origine vulcanica della sua forza di forme e colori e soprattutto di luci e ombre, queste ultime con quella capacità futura di “Ingagliardire gli oscuri”  che sono la seconda sezione e che prende il titolo dalla frase con cui il suo primo biografo Bellori già individua in Caravaggio, la sua capacità di far nascere la luce come dall’interno delle figure, come se estraesse la luce dall’oscurità che contraddistinguerà sempre la sua pittura. Essa si sviluppa a partire dalle prime committenze religiose, grazie al suo protettore e “agente” il Cardinal Del Monte, tra ci furono cui le imponenti tele di San Luigi dei Francesi, che per il visitatore della mostra sono imprescindibili visite complementari (al netto della precondizione che i pellegrini della gran marea giubilare ne permetta agevole visione, pellegrini ben diversi da quegli scalzi e scalcagnati “romei” che stanno inginocchiati da quatto secoli nella chiesa di Sant’Agostino, poco distante dal Senato, con i piedi zozzi in bella evidenza, davanti alla Vergine Maria, che se ne sta con le gambe incrociate da posa di “donna sfacciata” e che offre il Gesù bambino alle preghiere dei due malandati pellegrini, quando il pellegrinaggio non era overturism).

 In questa sezione Sono anche tre quadri che permettono di rivedere una delle modelle preferite di Caravaggio: sia in  Marta e Maria Maddalena, che in Giuditta che decapita Oloferne e nella Santa Catarina d’Alessandria, diversi studi identificherebbero con la cortigiana Fillide Melandroni.
Nella sezione intitolata al “Dramma sacro tra Roma e Napoli” il sangue, la violenza, la paura, sono quelli dei temi dipinti che si mescolano a quelli vissuti dal pittore, omicida di Ranuccio Tomassoni nel 1606 e poi fuggiasco prima verso i feudi Colonna (dove dipinse il capolavoro “La Cena di Emmaus”. IN questo periodo risale il Davide e Golia (ritraendosi come il Davide che decapita, auto-esposizione in cerca di espiazione). Successivamente Caravaggio approda a Napoli, qui oltre al già citato Ecce Homo, dipinge la “Flagellazione” per la cappella di San Domenico Maggiore. Siamo sempre nel suo stile tragico, come “La cattura di Cristo”. Proprio questa dimensione avventurosa viene rimarcata da questa mostra, che possiamo leggere anche come lo “Story board” di un film allegorico in cui episodi drammatici della vita dei santi e di Cristo, diventano  il racconto altrettanto drammatico di una vita personale flagellata dalla violenza commessa, dalla colpa sentita, dal desiderio di luce.

Con una sezione finale, con una citazione novecentesca, beckettiana intitolata al “Finale di Partita” siamo all’epilogo, in cui è proprio la luce protagonista del “Martirio di Sant’Orsola” dipinto nel ritorno a Napoli da Malta, ancora una volta dopo una rissa, da fuggiasco. La luce violenta e geniale è quella che sprizza dai corpi e dalle armature grigio-scure. Allo stremo della vita, riflessa in questa barocca abbacinante oscurità, che sfolgora lame di luce, taglienti quanto le spade e il senso di colpa, Caravaggio, saputo del perdono di Papa Paolo V ( Camillo Borghese) salpa alla volta di Roma. Porta con sé Il “san Giovanni Battista” da donare al cardinale nipote del pontefice e gallerista raffinato, lo Scipione Borghese che ne perpetuò la memoria.

Michelangelo Merisi morirà nel 1610 avvolto dalle sue ombre, sulla via di Roma dove non arrivò mai. Ci arrivo per suo conto solo il San Giovanni,  che fu dato a Scipione, ci arriverà e resterà a Roma per sempre anche la sua gloria, la fama della sua arte che divampa, per poi subire alterne fortune, ma che ora splende per sempre, come i corpi, simulacri eterni del suo stesso corpo mai ritrovato.


Caravaggio era morto per febbri tra le paludi, finì in qualche fossa comune, poi smantellata in era moderna. Nonostante ritrovamenti di ossa, plausibilmente attribuibili al pittore da studi chimici recenti, questa assenza del suo corpo disperso per sempre diviene un contrappasso di colpe mai estinte, ancora più forte il contrasto – come tutto in lui – tra il suo corpo disciolto in terra e sale e quei suoi corpi che - più di qualunque resurrezione vivono per sempre, immortali,  sulle sue tele.

RITORNO E RADICI, RESTARE E SPATRIARE. Su "Malbianco", di MArio Desiati (Einaudi)

 


Ci sono interessanti fili che legano certi romanzi pubblicati da poco. Il filo "Sud" mito e verità, il ritorno, la Storia, la genealogia, le radici, il rientro dallo "spatriamento" fatto da giovane, nonni e bisnonni/e ecc. CI torno alla fine, ma intanto una cosiderazione su questo ultimo "Malbianco" di Mario Desiati





Quando nell'ultima parte del romanzo del 2021 (Spatriati) il protagonista torna a casa, dopo una vita in cui era riuscito in qualche modo a emanciparsi e andare via dalla Puglia, in cui era cresciuto, non potendo esprimere se stesso al meglio, e si era trasferito a Berlino, lo faceva in quella narrazione richiamato da qualcosa di ancestrale e reale.
A me quel ritorno però non era piaciuto, l'avevo trovato (anche rispetto a come si costruisce un romanzo tra rimozione, non detto e ambivalenze) una forma di cedimento a un esotismo del ritorno alle origini. Non mi aveva convinto del tutto quel libro.
Certamente c'erano delle radici (ovviamente biografiche) in Desiati però giudicavo “culturalmente” quel personaggio come afflitto da una specie di sconfitta e di fallimento e che però cede più ad un'idea mitica del suo stesso sud che reale.
In un certo senso, è un personaggio simile apre il nuovo romanzo “Malbianco” e riparte da una crisi, meno connotata dallo spirito “del cambio di paradigmi”.
Marco Petrovici, quasi cinquantenne, dopo anni a Berlino, dove lavorava come compilatore di contenuti online (come lo capisco) accusa malesseri e svenimenti. È qualcosa di psichico e di fisico, sintomo di una vita fallimentare: per il lavoro, le ambizioni letterarie frustrate, per la fine di una storia d'amore con Luisa scultrice e donna libera che con lui viveva una relazione che di libertà e di fluidità nell'esperienza amorosa erotica. Bilancio tipico “around 50” e decisione di ritornare per curarsi a casa. E qui si fermerà.
Tutto il resto del romanzo è questo “rimanere” (una “restanza” forse in certi ambiti un po’ troppo sbandierata da ideologia alternative : sempre alla fine di Spatriati, c'era tanto d'elogio alla terra agli ulivi e alle processioni, la bella terra di Puglia, ma per questo non mi aveva convinto c’è sempre il rischio che "l’autenticità" sia un'icona superficiale).
Più semplicemente e senza sbandieramenti, quindi meglio, nel nuovo romanzo Marco il protagonista che racconta, “resta” a casa , anche perché tra i sensi di colpa se c’era il fallimento della libertà ora c’è anche il rigurgito del fallimento di aver deluso i genitori, ormai anziani. Soprattutto il rapporto è pieno di silenzio col padre Giuseppe.
Nella casa nel bosco che fu della zia Ada dove il figliol (un pochino "prodigo") e i genitori si sono trasferiti, Marco tenta di capire le sue crisi le sue fragilità e pian piano emerge qualcosa che non quadra dentro la storia familiare.
La "cosa" (il trauma muto) si lega soprattutto a un nonno paterno, della linea Petrovici, Demetrio e al fratello di lui, Vladimiro, figli, insieme a un terzo fratello morto bambino (di nome Marco) di Addolorata Petrovici , contadina e venditrice di asini, donna sola con figli e un suo cognome (ah, il “cognome delle donne”) che lavora, alleva i figli e i ciuchi. E’ libera e anomala rispetto al suo tempo (il primo ventennio del Novecento).
Marco è imbevuto di poesia e antropologia e psicologia, risale come un salmone il flusso genealogico del XX secolo, scopre silenzi, omissioni, non detti, indaga quellostrano cognome slavo, cerca dentro di sé con la terapia e negli archivi un senso “transgenerazionale” alla sua sofferenza ma pure a quella della sua famiglia, interrogherà il suo nome, la zia Ada vedova del terzo “Marco” Petrovici della storia, fratello del padre Giuseppe.
“Malbianco” ha una tensione da giallo anche se il colore prevalente è il bianco della cancellazione, del “Malbianco” (è una malattia degli alberi una specie di coltre bianca che indica il guasto biologico): Marco indaga e il romanzo nelle sue 380 pagine abbonda di dettagli e di rami di una storia-albero – lo fa per sé, forse per i nipoti per lasciare un'eredità che colmi lacune e ferite. Se dico che è come un giallo, non devo dire come finisce, ma forse posso dire il senso di questa ricerca del segreto del nonno Demetrio e del nonno Vladimiro è connesso alla seconda guerra mondiale, alla campagna di Russia (con quel cognome del resto).
Però la cosa che vorrei dire è che ci si aspetta da alcuni segnali e indizi uno svelamento che sembra “annunciato” ma tutto sommato il finale sarà altro.
Il fascino di questo romanzo è come esplora la psicologia e la genealogia, secondo una lezione che ha avviato, si può dire, in Italia Matteo Trevisani (da consigliare “il libro del sangue” Atlantide) e che pure è un metodo di indagine su sé stessi ripreso dal romanzo uscito poco prima di questo di Nadia Terranova “Quello che so di te” e che pure comporta un, se pur temporaneo, ritorno al Sud.
E’ un romanzo che partecipa di molte cose presenti nella narrativa di questi ultimi anni: storie di famiglia, e storie della “grande Storia”, in più sotto categoria ampia delle storie del Meridione ( lo fa anche Claudia Durastanti con “Missitalia”, con la Basilicata dal brigantaggio, ma molto alternativo, fino alla Basilicata del futuro).
Sono tutti romanzi sospesi tra indulgenza, visione romantica, distopica, indagine alternativa di una contro-storia, scavo psicologico, connessioni simboliche profonde dentro un inconscio collettivo che sfocia nel mito e nel magico.
In un certo senso, il fenomeno generale di successo vitalistico del sud (tra cultura e turismo) è che è un'area storico-culturale e sociale, si pone, nonostante i suoi problemi strutturali di vita quotidiana – sanità, lavoro, trasporti, servizi ecc che lo collocano sotto lo standard europeo - come l’unica terra che possa rispondere alla “crisi della presenza” come la chiamava Ernesto De Martino, quella che però un tempo, nella civiltà contadina studiata dall'antropologo, provava l’uomo di fonte alla natura che rischiava di inglobarlo, di annullarlo.
Oggi a farci sentire la crisi è il sistema globale dell’interconnessione, del mercato e del lavoro, del digitale e delle amicizie ridotte spesso a quello, della “partecipazione” ma sempre a fenomeni di massa e in un’ottica di cultura metropolitana diffusa che ci annulla come soggetti, se soggettività è anche bisogno di “originalità” di essere-qualcosa-qualcuno. Contrariamente a chi tenta questa via proprio cavalcando la cultura di massa, mettiamo partecipando a un talent, diventando un influencer, ecc, c’è una via alternativa che è la letteratura, già di suo un territorio di carta, benché “senza ordine e struttura” come il sogno.
Attraverso questo ci resta – ed è la via di Desiati e del suo MArco Petrovici - solo affidarci a ciò che è sotto-traccia, quella di essere singoli, della singolarità autentica del mio vero-io che coincide (ed è un tema centrale simbolico di Malbianco) con il mio nome-e-cognome.
Tuttavia se per far questo bisogna tornare nei luoghi oggi diventati “cartolina” – o peggio degradati come la Taranto avvelenata che copre di nero la città - il rischio è che la nostra autenticità vada a sovrapporsi (specie per chi legge) a quella “autenticità” che l’industria globale del turismo ci vende (come ha scritto Adriano Favole sull’ultimo numero de La Lettura) e ci fa ritrovare ammassati in decine di migliaia in piccoli villaggi dove “ ci si va solo con l’asino” come accade a Santorini.
LA “Restanza” descritta da Vito Teti, la sfida a rimanere e non tornare più nelle città dove si era andati “per andare via” da “spatriati” come nel libro precedente di Desiati, è adesso una sfida per i non-più-giovani come Marco Petrovici e tanti altri che lo fanno, che ora tornano per restare.
La letteratura ha il compito di mostrare che non si tratta di un “orientalismo” di ritorno anche per i nativi, che si installano in questa “amara terra” (rimorso e ritorno che parole simili) come fa Marco Petrovici che in realtà parte dal bosco delle origini, per un lungo viaggio temporale. Marco Petrovici ha bisogno di sentire nel corpo l’appartenenza, essere nel sottobosco, prima di decostruirla, perché trovando altre radici, altri fili nomadi di altri migranti, come era stato lui e dell’ultimo tipo quando era partito per Berlino, trovando altri fili di migrazione dentro il sangue della sua famiglia, Marco Petrovici approda a un’autenticità che non è integra ma fluida e piena di fratture .
Anche quella terra, quel bosco che ha conservato le memorie può bruciare, ma non importa: “il passato va ricordato ma non va restaurato” si dice Ada verso la fine. (vero: ma su questo punto non capisco il penultimo capitolo "La canzone Yiddish" come un romanzo nel romanzo che un po' contraddice questa frase che Desiati scrive, perché è come se restaurasse un passato che a mio avviso andava lasciato nella aleatorietà degli indizi e - parere personale - si poteva del tutto tagliare )
Nel suo pianto “rituale” ma indotto da più moderne e scientifiche terapie psichiatriche, la zia Ada si scioglie in una fluttuazione di ali e di versi poetici che arieggiano le ultime pagine dove Desiati nasconde il segreto e fino all’ultimo dice e non dice (che è il metodo e la parte che preferisco).
Sta a noi, come si fa con le poesie, scovarlo secondo tentativi di risposte che resteranno interiori. Come i sogni restano dentro, non sono le spiegazioni in parole che ne diamo. Non si torna nei sogni, non si può tornare a casa, la casa è altrove sempre.
L’unico luogo dove si può tornare è nel tempo bastardo, dove il tentativo di dire “chi siamo” affonda nel “ciò che non siamo” e solo questo possiamo dire (e tantomeno possiamo dici integri figli di questo sud, come ribadisce da conservatore maschio pieno di identitarismo, il fratello militare di Marco ). Il vero Sud che sta sotto la cartolina splende crudo alla luce del sole con tutti i suoi problemi. L’altro sud in cui torna Desiati e il suo Marco non è né quello dei turisti, né quello di chi ci abita e lo consegna a una cattiva politica, alle mafie, all’affarismo predatorio di tanti. È un sud che ha le radici in un remotissimo nord di neve e sembra un sogno. Lo è.

domenica 9 marzo 2025

NEL TEMPO SPEZZATO DELLA NASCITA. Nadia Terranova, "Quello che so di te" (Guanda)

 


Nel nuovo romanzo "
Quello che so di te” (Guanda) Nadia Terranova da un lato torna a inseguire i suoi fantasmi, ma dall'altro forse compie un passaggio che ne libera le energie narrative verso il futuro, esplodendo in una maturazione soprattutto stilistica.
Quello che nei primi libri era narrazione divisa tra ricerca dentro l’universo psicologico familiare e attenzione alle storie colettive di una terra
 (Messina, al cui terremoto è dedicato il romanzo che potremmo tutto sommato definire "storico", “Trema la notte”) in questo nuovo trova una fusuone e un'approriata forma stilistica, per affrontare un'indagine genealogica che si fa scavo nella Storia.

QUelle intorno alal narratrice . che qui si mett in gioco in esplicito rimando autobiografico - sono quelle che Steiner chiama "vere presenze” di una storia familiare più ampia, comessa a eventi collettivi, con i loro traumi e condizionamenti che generano ferite che diventano poi forme di una psiche, matrice di discendenze ma anche di storie.

E' una nascita che innesca tutto, quella della prima figlia della Narratrice (lasciando possibile il riflesso speculare - poi esplicitato nelle interviste e nelle prsentazioni - con la biografia della Scrittrice Terranova medesima): Guardando la figlia appena nata per la narratrice, che prende parola in prima persona,  c'è un’intuizione profonda: ora che c’è la bimba, arrivata dopo un lungo nomadismo esistenziale, a 44 anni, la madre non si può più “permettere di impazzire".
Il perché di questa affermazione perentoria non è solo una generica paura, ma ha un preciso riferimento a una leggenda familiare, tramandata dai parenti - dalal madre alle zie in poi - che Terranova riunisce in un'unicca polifonica voce detta "Mitologia Famigliare “ – con una ruolo di Coro, ma non neutro. La storia è quella della bisnonna (che la narratrice ribattezza Vénera). Questa Ur-madre delle origini, è una traccia di ricordi che passano per il filo matrilineare che sono condensati attorno a un evento: il ricovero in manicomio. "Era solo Esaurimento nervoso” dice attenuando la Mitologia, con venature di vergogna. IN relatà scopriremo che fu “internata” alla vigilia dei 38 anni per 11 giorni al Mandalari di Messina, per “Psicosi istero-nevrastenica” come recita patriarcalmente il referto che la narratrice troverà con una lunga attività di indagine. 


 


I motivi del ricovero? Aleggiano per un lungo tratto del romanzo: una caduta, la conseguente perdita di una bambina che stava per nascere, un trauma, un'accusa di esserne la colpevole disattenta? C'entrava qualcosa il marito, prima Granatiere nella pRima Guerra e poi commerciante? C'era altro oltre quegli 11 giorni? E perché così Pochi?



Molte cose si chiariranno, altre no, altre oscilerano tra verità e alea magica, dentro cui vaga questa presenza di Vénera, donna ferita e detta “stramba”, silenziosa, minuta che si presenta nell'ora ciclica di una nuova femmina che nasce, nei sogni ma non solo.

Sono intensi i passaggi in cui si aprono improvvisi squarci temporali ie la stessa Venera prende la parola, con la scoperta della cartella clinica, della “Anamnesi ,”  ed emerge con  nelle parti in corsivo, a dispetto del suo essere stata sempre un “muso cucito”  (mussu cuciutu)  nel silenzio anche in casa, così come la tramanda la Mitologia.

Anche la figlia non-nata da quelal caduta si sovrappone alla nuova nata nella culla-cratere. E qui una certa spirale della storia si spezza, proprio per rigenerarne (e raccontare) tutta un'altra. Dato che la questione del tempo, delle ere che si sovrappongono ne lrpcedere edelal scrittura, nelal flla di voci, diremo subito che se da un lato in "Quello che so di te" c'è una meccanica celeste di svelamento che - come da Edipo in poi - - è sempre un'indagine quasi poliziesca sulle origini, Terranova attua un procedimento spiralide prorpi odella scrittura stessa con frequnti passaggi di voce e posizione di sguardo, per restituire un'idea di tempo niente affatto lineare a un "romanzo" che certo non ha il procedere dritto del'Epos, ma una forma di compresenza che liberano la struttura diegetica da geometrie prevedibile a costruire un flusso d'onda, intrecci di compresenze che scivola tra reale e fantastico, tra indagine storica negli archivi e tuffo onirico

L'idea di fondo Terranova lascrive chiara:  “Scrivere è una seduta spiritica”  e questa idea la pratica in un procedere trans-realistico, tra pensieri, apaprizioni vere e proprie, sogni, traumi collettivi, dicerie. 
LA piccola nata è come un Angelo della Storia, raccoglie attorno a se memorie come detriti che si accumulano intorno e guardandola Terranova osserva cosa c'è nel vento che spira, ma quel vento soffia decisamente verso il futuro che sarà, la piccola a cui questaa storia sarà consegnata come pergamena di una liberazione non solo da una leggenda, ma si spera da una catena di conseguenze che hanno condizionato il destino di Vénera e che non era personali, ma collettive. Dalal condzione di una giovane donna nel 1928, alla forma che assumeva come pratica del sospetto e condizonamente duramete patrircale la cosiddetta scienza psichiatrica del tempo (mi viene in mente il alvor fatto sulla ginecologia fatto in un libro uscito negli stessi giorni di J. C. Oaetes, "MAcellaio"). 
 
Storia matrilineare che è anche un'esplorazione di cosa significhi per la Narratrice "maternità", tema che per altri versi sta diventando divisivo tra i femminismi contemporanei. Terranova lo fa a modo suo - sebbene non risparmi stoccate a certo determinismo da social con il perosnaggio della influencer Dok, anche se parte del romanzo che ha il sapore più di una sorta di stoccata che l'Autrice esentiva necessaria) 

In quella fluida forma da “curva” spaziotemporale dentro cui si mescola il presente della Narratrice e i diversi passati familiari, "Quello che so di te" non solo il diario di una scoperta, d i una restituzione e riscatto di una donna senza voce, ma anche il diario della metamorfosi della scrittrice. Terranova, mentre procece, di fa partecipi di come il romanzo si sta costruendo, è una forma narrativa "open source" diremmo, sul dilo di uno sdoppiamento sia psicologico con questa donna che ha sofferto, sia traa NArratrice e Autrice, in un  magma che plasma via via tutto il tempo a lei successivo e dunque è anche un romanzo di tempi che scorrono paralleli.



Pareti che – pirandellianamente, è inevitabile , il dramamturgo siciliano sta scrivendo i suoi drammi più famosi in quegli anni Venti e nel 1934 sarà premiato col Nobel -  si abbattono, in Terranova,  tra fattuale e non fattuale, attraverso un continuo entrare e uscire di voci   scavando in spazi onirici, psichici o magari magici o dentro quella di Psichiatria transgenerazionale (citando il classico del settore di Anne Ancelin Schützenberger, "la Sindrome delgi antenati") inseguendo indizi simboli e genogrammi (particolari segni-chiave dentro la semiotica di un’indagine genealogica, come in questo romanzo il numero 38). Si restituisce anche giustizia a invisibili vittime (le donne più di tutto) delle scienze tutte maschili, che si credevano oggettive e invece erano solo “assoggettanti” . Larestituzione è la forma ultima di una scrittura che in quella “seduta spiritica” lascia anche andare i morti, finalmente e forse più di prima. Lo percepisce anche la narratrice-scrittrice quando si rende conto che questa è anche una storia di padri. IN chi scrive come in chi legge apapre una scia di continuità. Al tempo stesso, in questa indagine interiore e insieme collettiva e politica, che restituisce voce a Vènera, che riscrive la sua storia, l si pongono le basi per spezzare una catena di passato e ricostruire un futuro a quella bambina che è stata origine e ultima destinataria di una storia che nel passato guarda a come si possa ripartire dal pasato per scrive quel che non è ancora accaduto e poteva accadere, insomma un futuro nella forma di un pre-dire, senza dimenticare ma senza essere prigionieri di una memoria.


lunedì 2 settembre 2024

SINNO (E LATTANZI O D'ADAMO): CORPI ESTRANEI ANTILETTERARI, QUINDI LETTERARI?


Allora, lunga riflessione: il libro di Neige Sinno, “Triste tigre” ha avuto notevoli riconoscimenti letterari in Francia, è stato tradotto in Italia da Neri Pozza con la traduzione di Luciana Cisvani e anche da noi ha avutro un certo consenso, considerando che è un libro certo anche duro.
E’ un libro complesso, lucido, analitico, quasi chirurgico, una testimonianza da parte di una vittima di stupro subìto da bambina e a lungo, e oggi è critica letteraria, studiosa e scrittrice.
Tuttavia (e forse i suoi stessi dubbi non potevano che approdare a questo) il libro direi che è "da leggere", ma al tempo stesso è un libro irrisolto e precario perché racconta, analizza l'esperienza di vittima di uno stupro prolungato per alcuni anni, subito da parte del suo patrigno ( alcuni anni significa negli anni dell'infanzia tra i sette otto e i quattordici anni)
Ed è un'esperienza tremenda e difficile anche da raccontare.
In qualche modo questo libro vorrebbe anche superare tutte le ambiguità della narrativa autofiction, del racconto di testimonianza, interrogandosi continuamente su che tipo di libro “si sta scrivendo” (auto analisi e auto interrogazione meta letteraria vanno di pari passo).
Questa analisi di ciò che è accaduto, di chi sia il patrigno, di cosa prova lei come vittima trenta anni dopo scorre parallelamente all'esigenza di stabilire una verità, una verità di quello che le è accaduto e anche una verità e forse una giustizia come considerare moralmente quello che le è accaduto.
Però il libro alla fine se è estremamente complesso, se apre continuamente delle questioni, anche raffinate in certe parti a queste rimane incagliata: Tipo: questo non è un romanzo, (questa non è una pipa, Magritte) questa non è una autofiction, è qualcosa di diverso, è un memoir, una testimonianza, così lo afferma Sinno.
Però è come se il suo limite fosse proprio questo (il limite è il "questo" parola chiave della "fenomenologia" di Hegel) : lo che da un lato elabora continuamente la questione metaletteraria, meta-scrittura, meta riflessione su quello che sta facendo e di chi è la voce che sta “parlando o scrivendo” quella voce che dice io e dall'altra però anche di chi essendo la vittima che subito quello stupro non può dire, non può trasferire nel “detto” qualcosa che nella sua esperienza è indicibile. Il vero dramma è: che cosa è "questo" che mi è accaduto? al mio corpo. Come posso "dirlo"? e "posso" dirlo, raccontarlo?
Il risultato è un libro composito che spesso elabora, apre continuamente delle domande, delle questioni ma fondamentalmente si rifiuta di diventare libro letterario pur essendo tantissimo un libro meta-letterario il che alla fine può sembrare anche supponente dirlo, o anche arbitrario dirlo da parte di un maschio, ma ne fa un libro fondamentalmente noioso. Straniante.
Un libro assai stimolante E (dico “e” e non “ma”) insieme noioso.
Forse perché non riesce ad essere niente di definito. Ma incagliandosi nella definizione e rifuggendo da ogni letterarietà.
E forse però è anche vero che non c'è una collocazione di genere per questo tipo di libro tra l'altro per un libro che vuole essere testimonianza, lei lo dice spesso, vuole parlare dell' “argomento” non vuole essere letta in quanto scrittrice, ma vuole essere letta in quanto persona che sta comunicando un argomento e però alla fine è la dannazione della scrittura, è l’intermediazione che deve passare, E passare per forza attraverso questo tipo di mediazione che è la scrittura stessa, che ha bisogno di essere valutata e di conseguenza questa valutazione influisce anche sull’efficacia di trasmissione dell’esperienza.
La scrittura ha sempre bisogno di di essere bella.
E questo continuo sottrarsi alla bellezza, ma anche questo desiderare di riuscire a trovare “il punto” per cui quasi volesse fondare una “nuova bellezza” è in qualche modo la sua forza magnetica, come libro che ti rimane attaccato; ma è al tempo stesso il suo limite letterario.
Considerazione Post-scriptum
Però da questo punto di vista mi fatto venire in mente altri libri simili in Italia, due in particolare. Uno è ”Come d’aria” di Ada D'Adamo che ha vinto il Premio Strega. Ora per molti anche un libro che non meritava lo Strega perché non è un libro “scritto bene”, cioè non è un libro che ti lascia un'esperienza di scrittura. Questo da un lato se io paragono alla letteratura, alla grande letteratura è pur vero è anche vero per esempio che Neige Sinno analizza quale sia la “grande letteratura”, Ad esempio scrive Sinno è è Lolita di Nabokov cioè uno scrittore che ha praticato un difficile equilibrismo, creando un libro in cui in prima persona parla uno stupratore-narratore (anch’egli uomo di lettere, HH). La bellezza della scrittura (di Humbert? Di Nabokov certo) crea questo doppio, diciamo ambiguo per cui può sembrare la bellezza e l'intelligenza dello stupratore che in qualche modo falsifica la sua colpa, confonde la sua colpa, cerca di giustificarla, cerca di creare degli argomenti che in qualche modo attenuino la sua colpa. Ecco, quella è la letteratura. Ed è quello che dà fastidio a Neige, che pone un ‘esigenza morale.
Ma non pone un’esigenza letteraria.
E allora se quella è la letteratura, chi ha cuore di dire cose “che non si possono raccontare” in letteratura, si deve collocare per forza nell'ambito di una scrittura che non-è-una-scrittura, che non è una scrittura letteraria o “bella” secondo canoni correnti.
Neige Sinno in qualche modo lo fa lo fa , lo ha fatto a modo suo Ada D’Adamo la quale tuttavia con i suoi appunti non si poneva affatto il problema letterario, almeno inziale, ma certo si poneva il problema di un’esistenza, quella della figlia, che era totalmente FUORI dall’esperienza cognitiva del linguaggio e quell’esperienza D'Adamo l'ha raccontata, arrivando a mette in gioco "L'altro linguaggio" quello della danza, da danzatrice e coreografa quwale era.
D’Adamo aveva raccolto I suoi appunti di vita, lo aveva fatto per testimoniare la crescita diquelal sua figlia, sofferente di un rara malattia congenita, una condizione dolorosa e di fotissimi limiti congitivi. A questo si era aggiunto il fatto della preoccupazione per quella creatura, perché le era stato diagnosticato un tumore che le dava pochi anni di vita e da mare si angosciava per il futuro di quella figlia.
Ha voluto dunque lasciare qualcosa che "raccontasse" anche qui l'irraccontabile, a nessuno era accessibile l'interirità della figlia Daria, la stessa figlia non poteva traslarlo in nessun modo, neppure con macchinari. Era dunque necessario per D'Adamo lasciare una testimonianza per la figlia, ma paradossalmente per una figlia che non avrebbe mai potuto leggerla.
Al tempo stesso dato che il nucleo profondo dell'esistenza di questa figlia era appunto qualcosa che dovremmo definire, in maniera magari banale, generica, "l'indicibile", è chiaro che una scrittura migliore non sarebbe stato il punto centrale, né tanto nemo "l'abbellimento" sarebbe servito, anzi, forse sarebbe stata una distanza ulteriore, un peggiormento. Eppure l'urgenza di dire cose che non si possono dire resta. Perché sempre più quella è la parte di novità della cosceinza collettiva: la particolarità la singolarità assoluta delle vite e il loro (vecchia parola) "mistero".
Direi che lo fa anche Antonella Lattanzi col suo “Cose che non si raccontano” costruendo, da grande scrittrice quale è, un libro in qualche modo anti-letterario, anti retorico, diciamo così,
Ecco allora forse in fondo la cosa che mi chiedo è: questi libri, come quello di Ada D'Adamo, come quello di Antonella Lattanzi e come quello di Neige Sinno, rifiutandosi di essere letterari, avendo come quasi ossessione la verità, l'oggettività, l'esperienza vissuta, l'argomento, la cosa, non stanno per caso esprimendo un desiderio di porre una questione alla letteratura? Magari praticando una forma estrema anche di non letterarietà di a-letterarietà diciamo così?
Nella storia dell'arte nella storia in generale di tutte le arti mi viene in mente però soprattutto l'arte figurativa o comunque diciamo l'arte, non figurativa proprio l'arte. Siamo pieni di esperienze di ricerca o di provocazione avanguardista o di liberazione da ogni estetica, siamo pieni di oggetti diciamo che riteniamo “artistici “ anche se non hanno nessuna” bellezza” anche se sono “poveri” ( c'è stata un certo punto anche “l'arte povera” che poi è diventato un elemento importante anche della storia dell'arte ma l'arte povera era appunto una materialità veramente di basso livello per certi aspetti, una durezza di questa materialità rispetto a ogni forma artistica).
Esempi anche altissimi di fuoriuscita dai linguaggi artistici medesimi, da quelli che erano considerati linguaggi fino a quel punto. Mi chiedo se questi libri anche nel loro non essere “belli” secondo l’aspettativa letteraria corrente (con una reazione di lettori “conservatrice” nel dire “non sono belli”) non sia invece una sorta di “forma di espressionismo”, perché raccontano esperienze interne alla nostra vita (non sono esterne) ma certo “estreme”, corpi estremi, radicalmente altri eppure con noi, vicino a noi. E però hanno bisogno di un'altra letteratura (altro stile) che sarà sempre letteratura e sarà sempre scrittura, ma hanno bisogno di un percorso di alterità e che forse è questo quello che fa questo libro di Neige Sinno, che mi stimolato moltissimi pensieri e dubbi, moltissime riflessioni, ho preso molti appunti, ho scritto pagine, ma adesso sarebbe inutile sintetizzarle qui, anche già questo che sto scrivendo è un intervento fin troppo lungo perché mi preme soprattutto questa domanda non mi preme tanto analizzare il libro in sé posso trovare dei limiti in questo libro li condivido ma: mi chiedo sempre se non ci stia indicando nel suo “inciampare” letterario, una via altra della letteratura possibile (e futura)
PPs
Intentato grazie a chi è arrivata fino a qui. Leggo le dichiarazioni demragazzo che ha ucciso la famiglia a Paderno
Dugnano “mi sentivo in corpo estraneo”.
Con quale letteratura racconteremo (o lui potrà raccontare chissà ) questa estraneità ? Questo indicibile del suo gesto, come del resto quella dell'altro giovane Moussa Sangare. Come possiamo dire tutto ciò senza che suoni falso come la letteratura? Con quale altra letteratura?

lunedì 12 agosto 2024

IL SOLE SPLENDE SUL NIENTE DI NUOVO. CASCANDO CON BECKETT. Appunti per il prossimo libro 2

 


“Oggi potrei camminare solo sulla Striscia di Gaza”.
E’ una frase che diceva spesso, durante il 1988, il penultimo anno della sua vita, Samuel Beckett, quando si era trasferito al Tiers Temps, una casa di riposo parigina, dopo le numerose cadute dei mesi precedenti e sulla spinta della moglie Suzanne, anche lei malata che non poteva accudirlo.


La cosa più grave però , era il fatto che era cambiata negli ultimi tempi, stava maturando un risentimento, una rabbia senile inaspettati verso Samuel (cosa che addolorava molto lo scrittore, il quale da un lato ne capiva forse la natura di sentimento estenuato, estremo, quasi di chi ha ceduto psicologicamente, un carattere che forse era solo “scoppiato”, caricato di pesi e cure dopo una vicinanza simbiotica col marito).
In questa struttura Beckett viveva in una stanza spartana, come suo costume: un letto, un comodino, uno scaffale con libri che stava leggendo (le biografie di Oscar Wilde, di Nora Joyce e libri di Kafka) e un tavolino. Una bottiglia di Whisky.
Ogni tanto prendeva in prestito un piccolo televisore per vedere le partite di Rugby. Nella foto è lui che guarda la tv, nel suo ultimo anno di vita.
Nel giardino all’aperto, quasi come la scenografia di “Aspettando Godot” c’era un solo albero.
Beckett ci passeggiava sotto, sempre malfermo sulle gambe, ma non si rassegnava a non camminare. Quando la debolezza lo metteva a rischio cadute camminava avanti e indietro lungo un tappeto antiscivolo, stretto e lungo posizionato lungo il muro della clinica.
Quella era la sua “Striscia di Gaza”.
Sono notizie contenute in “Condannato alla fama: la biografia di SB” di James Knowlson, pubblicata da Cuepress e con la solita ottima cura da Gabriele Frasca (avevo letto un’altra biografia, edita da Garzanti, ma questa è più bella) .
In questi giorni di caldo e scrittura, cercando sempre qualche parola (qual è la parola?) casco su Beckett, altrettanto estremo come il sole che splende feroce.
Del resto di Beckett è quell’incipit folgorante che mi ha inchiodato sui vent’anni al primo libro dell’irlandese letto in vita mia: Murphy
“Splendeva il sole, non avendo alternative, sul niente di nuovo”.
Leggo le pagine della biografia sulgi ultimi anni.
Un po’ fa sorridere, è un Beckett che inciampa come un clown, come un vagabondo male in arnese, come un suo personaggio insomma, però è fino all’ultimo attivo e anche deciso: è malato ai polmoni ma sa che ormai smettere di fumare non lo guarirà, così come continua con l’abitudine di farsi un paio di bicchieri di whisky ogni giorno verso il tardo pomeriggio, magari con chi lo veniva a trovare o davanti la tv.
E’ anche ovviamente un corpo fragile, con le sue numerose cadute, come tanti nostri nonni, lui che aveva scritto quella poesia memorabile, “Cascando” (ma dentro il pozzo dell’amore, il falling in love). La poesia “Cascando” (in italiano il titolo anche nella versione originale, quasi fosse un movimento musicale) è un precipizio estremo dell’amore che sa la sua impossibilità costitutiva e al tempo stesso il suo ripetersi dell’errore (fall in love, caderci dentro) – alcuni frammenti nella traduzione di G. Frasca):
nuovamente dicendo ecco vi è un’ultima
volta persino per le ultime volte
ultime volte per mendicare
ultime volte per amare
per sapere di non saper fingere
un’ultima volta anche per le ultime volte
E’ un’idea estrema e sempre ultimativa, della vita come dell’amore, nel suo essere, nel suo viversi, ma anche e soprattutto nel suo dirsi implodendo nel linguaggio che non arriverà mai che sarà sempre “mal detto” eppure instancabilmente detto
E poi la chiusa, tremenda, che fa esplodere insieme un sentimento quasi stilnovista di amore come trascinamento inoppugnabile di un dio dello spirito che ci domina, ma insieme a una coscienza ironica, quasi crudele, novecentesca, di chi sa che tutto quel sentire è un “sentire” è linguaggio che in realtà non sa /non è (il) dire (l’amore e tutto il resto) e così il poeta :
nuovamente atterrito
di non amare
di amare e non te
di essere amato e non da te
di sapere di non saper fingere
fingere
io e tutti quegli altri che ti ameranno
se ti amano
Sempre che ti amino.

A mio avviso la più grande poesia d’amore del vero 900, quello implacabile e scavato dentro, indisponibile alle illusioni (del resto lo sapeva già Leopardi, non a caso poeta amato da Beckett, come anche Kafka, l’altro grade cantore del non-amore i cui libri lo hanno accompagnato sempre)
E però questo uomo così solido sul suo corpo affusolato, quasi come l’alberello del “godot” secco e fragile e insieme eterno, questo uomo comincia cadere negli ultimi anni della vita, inciampa.
Pochi anni prima, nel 1984, aveva scritto all’interno di “Worstward Ho” (che frasca traduce con “Peggio tutta”) una delle sue più famose (e travisate dal web che le rilancia, spesso sbagliate) frasi di uno scrittore:
“Tutto solito. Nient’altro mai. Tentato mai. Fallito mai. Fa niente. Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio”.
Fallire. Cadere.
Molto dell’universo poetico di Beckett oscilla tra questi due negativi (o "nulla positivi" per dirla con Adorno)
Il positivo-positivo, quello non si può dire, non del tutto. Non è detto nel dire. (ciò che segue questa frase famosa, nel libro, evidenzia di sicuro un significato post-tragico di orizzonte fosco, che il soggetto arrivato a questo lembo finale della coscienza matura. Certo non corrispondente all’ottimismo superficiale degli sturtupper che la frasetta se la sono rilanciata per anni)
Sottile, secco come foglia o pergamena, questo Beckett ultimo è al suo lembo finale di una scia che era stata, sempre più da quando è passato dai primi romanzi al teatro, verso il 1960, un tentativo superamento della scrittura.
Nel 1988 scrive quello che è il suo ultimo testo, giudicata da alcuni interpreti come poesia, da altri come prosa, da altri ancora “no-genere”.
Un testo in cui ci sono frammentazioni, trattini (dash, in inglese, che intendono una sospensione di ciò che procede). Si chiama “Qual è la parola” e ha due versioni, inglese e francese, “Comment dire” e “What is the word”. Qui Beckett coglie non lo scrivere, ma quell’attimo sospeso in cui si cerca la parola, sospeso in un equilibrio che potrebbe perdere e cadere, fallire – se non la trova. Sospeso sul precipizio tra “il farsi e il disfarsi del linguaggio” . (leggo dalle note di Gabriele Frasca)
E Beckett scrive questo testo sul non-ancora-scrivere, lo scrive con una grafia “ a ragnatela” scrive Knowlson nella biografia. E’ una reticolo-poematico che forse è l’estremo resistere dello “scritto” e insieme, tessitura tutta giocata sulla fonetica, sulla rete di rime e assonanze, l’emblema di un dire-orale che viene prima – se viene (foneticamente o mentalmente la parola è tutta interna al corpo ancora, prima che esca sta in bilico “sulla punta della lingua” e casca sul foglio.
Un poesia– come il suo vecchio corpo, affaticato, ma sempre bello e forse ancora più bello – in cui tutto oscilla, quasi sempre sul punto di cadere, di ricadere su sé corpo che si ritrae in bocca, in lallazione.
La letteratura di Beckett è qualcosa che corrisponde sul piano testuale e del linguaggio, alla pittura di Francis Bacon con la figurazione, la figura sembra sempre sul punto di sciogliersi, colare, fondersi, mettere in evidenza che è ancora soggetto e corpo e figura, ma al tempo stesso la sua impossibilità, la sua castrazione.
James Joyce e Virginia Woolf lavorarono sull’epifania per dare a questa diversa percezione – con i diversi saperi che si erano affacciati sulla scena del 900 – una forma.

Per Beckett e Bacon c'era una via ancora più radicale: quel corpo formale deve essere invece scorticato dall’interno (perché la realtà è l’impossibile, tuti e due sono du questo versante del XX secolo, anche se il 900 è un prisma) e lavorano a tenere i brandelli di qualcosa che sta per prendere forma, che non arriva a prenderla, che è lì li, che non sai se quella colata di carne si coagulerà oppure si sciglierà, se quel fluire di sillabe diverrà frase o si scioglierà in afasia.
Stanno in quel prima, che sembra esaltare una creazione, ma pure nel dopo, la castastrofe dell’increato.



martedì 6 agosto 2024

ELEGIA CAFONA. Perché sento affinità con "Hillybilly Elegy" di J.D. Vace e perché rileggere in modo diverso Pasolini e Iovine o Carlo Levi.(Appunti per il prossimo libro 1 )

 


Quando ero quindicenne nel  XX secolo, sentivo e risentivo il disco live di Crosby Stills Nash & Young “4 way street”  che conteneva una lunga ballad accattivante intitolata “Ohio” ma non ne sapevo il significato. Pensavo fosse all’epoca la solita canzone on the road e invece era una ballata politica: su scontri con morti durante manifestazioni contro il Vietnam alla  Kent State University.
Dell’ Ohio non  sapevo nulla, se no che fosse uno stato interno degli Usa, più o meno immaginario tra Western e on the road. E’ l’America profonda delle maggioranze silenziose che da qualche anno non stanno più zitte.
Quella dell’assalto a Capitol Hill.  Nel 2020 la sfida in Ohio tra Trump e Biden è finita 18 a 0 (zero) per Trump

All’università del Kent gli studenti di oggi protestano contro Israele. I risultati elettorali ci dicono l’orientamento e l’antropologia sociale della maggioranza. A votare Trump lo stesso identikit di tutte le destre occidentali: prevalentemente maschi adulti, over 40, poco istruiti. IN parte poveri,  in parte poveri, ma più consistente la percentuale di chi guadagna oltre  50 mila dollari. Insomma, operai e piccola impresa da lavoro. Un proletariato-imprenditore di sé stesso, del lavoro manuale o della piccola ditta. Ne sappiamo qualcosa anche noi.


Ho iniziato mentre volavo per New York (che non è “America” è una bolla a sé) due libri che hanno l’Ohio come scenario: “Elegia Americana” di J. D. Vance, In Italia pubblicato da Garzanti per settimane in testa alle classifiche nel 2016 e  “Demon Copperhead”,  romanzo di  Barbara Kingsolver (ha vinto il Pulitzer 2023) pubblicato da Neri Pozza. E mi stanno piacendo e in qualche modo raccontano una storia in cui mi identifico.

In entrambi i romanzi ci sono storie di gente “degli Appalachi” e storie di ragazzini con madri single, abbastanza incasinate, e radici in quel mondo del midwest .
Kingsolver racconta la storia di un ragazzino  Demon (che si chiama in realtà Damon ma finisce per essere chiamato Demon) che nasce da una ragazza appena diciottenne con problemi e che genera queto figlio destinato a non avere un padre e a seguire le peripezie di una famiglia allargata quanto disarmonica e soprattutto i cambiamenti di umore (e di partner) della madre. E’ una storia di non-padri ma contemporaneamente di radicamento al  clan familiare e in qualche modo è lo stesso filo conduttore di “Elegia americana” . Sono a metà dei due libri.

Avevo visto l’omonimo film di Ron Howard, nel 2020 quando  J.D. Vance non era ancora passato alla politica e non c’erano notizie particolari su di lui. L’ho rivisto pochi giorni fa.
Devo confessare che mi è piaciuto e l’ho in qualche modo sentito mio.
Certo, il fatto che oggi l’autore sia diventato nel frattempo il vice di Trump non depone a favore dell’autore, ma leggendo il libro capisco anche la sua parabola politica oltre che psicologica.


Oggi colpisce che l’autore di quel libro che almeno in Europa nessuno si era filato più di tanto – se non come autore del libro da cui il famoso regista trasse il film -  sia l’affilato ed energico vice del Tycoon, ma resta un libro significativo e in qualche modo per me condivisibile.
Il titolo italiano del libro e del film  sono clamorosamente fuorvianti, meglio sarebbe stato infatti  tradurre “Elegia burina” o – con una citazione “colta” riferita a Ignazio Silone – meglio ancora “Elegia cafona”. Infatti “Hillbilly” è un termine per indicare i bianchi poveri (di origine irlandese per lo più) contadini di arre depresse del Midwest, un’area oltre che povera , impoverita in modo pessimo negli ultimi decenni, in un’area che comprende  Virginia, il West Virginia, il Kentucky, la Pennsylvania e l’Ohio, appunto lo stato che cantavo senza saperne nulla.

La chiamano Rust Belt, cintura di ruggine: più che il foliage bellissimo d’autunno, sono gli scarti del ferro (l’acciaieria Armco  di Middletown, che ha subito un declino dopo gli anni d’oro) e i relitti e le rovine del “fu florido”  polo industriale che fino agli anni Cinquanta era il cuore dell’economia di quell’area. Oggi molte industrie hanno chiuso, depressione, disoccupazione, dipendenze da alcol e droga hanno stravolto il paesaggio umano e urbano.

C’era anche un altro romanzo intitolato proprio “Ohio” di Stephen Markley (Einaudi)  nel 2018 divenne un caso: anche qui,  romanzo sui millennial dell’America profonda. Ma sono molti i nomi di scrittori che hanno raccontato la provincia americana, però alla fine a New York come Milano e Roma non viene capita davvero.

Da noi poi, non abbiamo nemmeno capito (né visto arrivare) diverse ondate di Hillybilly nostrani. Nemmeno dopo aver letto Iovine, Silone e soprattutto Carlo Levi (se si rilegge oggi bene “Cristo si è fermato a Eboli” c’è già in nuce l’Italia profonda che voterà dopo decenni Berlusconi. (raccontati meglio da Pennacchi, Canale Mussolini). Dagli anni ’50 di Togliatti, del Pci di Di Vittorio, stare dalla parte dei “contadini” era più un imperativo categorico ideologico, che uno sguardo vero sulle caratteristiche i valori reali di quelle masse di persone alal vigilia del boom economico.
Quel mondo contadino era sì povero, sfruttato, umiliato e offeso, ma era pure individualista, egosita, arretrato e di destra, attaccato al guadagno e alla roba ( l’aveva già raccontato “Libertà” di Giovanni Verga , più ancora che i Malavoglia).

Veniamo a “Hillibilly elegy” di J.D. Vance. Devo di re che in qualche modo mi identifico molto in questa storia di evoluzione sociale, di famiglie che si sono inurbate in città, Vance ha l’età che potrebbe avere anche un mio figlio, se l’avessi fatto all’età in cui i mei hanno generato me. Capisco quella storia, che ha riguardato anche molti come me, comune a quella di tutto il dopoguerra occidentale: finita la seconda guerra mondiale, la pace si è prolungata come mai prima di allora, il benessere ha spinto masse di contadini a inurbarsi, la società industriale degli anni ’60 prometteva felicità, benessere istruzione per i figli. Una vita migliore.

Spesso si dice “la destra sollecita la pancia”, va detto che quelle masse di ex contadini, pur votando in Italia PCI e in Usa (come il nonno di Vance) sempre Democratici ragionava egualmente con la pancia, prima di tutto. Poi ci fu l’arricchimento e lì si è rivelata un’identità sociale che non è stata capita. Basta leggere Operai di Gad Lerner, per capire come i metalmeccanici del sud italia specialmente somiglino ai contadini divenuti operai della Armco, come siano molto più simili ai Veneti della piccola impresa che alla “classe operaia” più idealizzata che capita (anche “Vogliamo tutto” di Balestrini in fondo anticippava nel 1971 qualcosa di simile)


Quel che racconta Vnce è però qualcosa che è accaduto anche in Francia e in Italia. Una società di lavoro indebolita e fiaccata da crisi ripetute – dal 2001 in poi - e dal mutamento globale dell’economia.

Da quella storia di speranza esce una generazione che quella speranza vissuta come una certezza, l’aveva vista dissolversi.

Una generazione arrivata a 60 anni e spezzata, frustrata, e poi nel tempo – e complici anche i social che innescano isolazionismo-relazione distorcente -  incattivita, arrabbiata. Perché in fondo (si può dire che si sbagliano ma non si può far finta che non provino quel sentimento) si è sentita tradita, con una sinistra che – tra letteratura e politica – si dedicava più alle minoranze e alle eccezioni che non alla normalità.

un vizio in Italia ben raffigurato da Pasolini: ha in fondo fatto l’epopea di una banda di ladruncoli, ha eletto a eroi delinquentelli, ma in quelle stesse condizioni di povertà c’erano milioni di persone – come mio padre e mia madre  – che veniva da quel contesto di migrazione interna italiana e che hanno lavorato duramente e onestamente. Erano come il personaggio Antonio Ricci di “Ladri di Biciclette” di De Sica, che ne fece un ‘epopea poi accusato di essere melodrammatico. Poi arrivò Pasolini e fece diventare eroi quelli che fregavano le bicilette agli Antonio Ricci.

(Sto estremizzando ma la mia chiave di lettura al fine è questa, l’ho capito solo ora, con il tempo e l’età e ho cambiato idea su PPP. E nel mio libro, quello che scrivo da anni, c’è una scena che è una riscrittura da un altro punto di vista di una famosa scena di Ragazzi di vita, dalla parte di chi era silenzioso e nei film di Pasolini solo comparsa.

Quella massa di persone, i contadini inurbati gli Hillybilly d’Italia, ha cresciuto la mia generazione di baby boomer sulla promessa di sogni e promesse che negli ultimi anni sono venuti meno, hanno rallentato economia e sviluppo. La delusione si è trasformata per molti in rabbia e paura, che la sinistra intellettuale bolla come paranoie, come “percezione sbagliata” mentre è reale, perché reale il vissuto quotidiano, quello  rasoterra di chi vive nei contesti che altri interpretano da lontano. Contesti con caratteristiche che non entrano nelle rilevazioni statistiche analizzate in contesti protetti (i giornali, prima, il coté intellettuale e artistico le bolle social, di cui pure oggi faccio parte sociologicamente e professionalmente)
Lì non si capisce il mondo della provincia, della suburra, della campagna “wanna be” metropoli o delle periferi.

L’unico che in Italia aveva capito megli certi contesti era  Tommaso Labranca. La sorpesa dei milioni di voti per Berlusconi prima, dei voti per la Lega a Mirafiori negli anni ’90, il ripetersi del fenomeno ora con Meloni e FdI non ha sradicato quel difetto di sguardo, ideologico e valoriale di una certa parte della sinistra intellettuale soprattutto (sono gli eredi di chi sbeffeggiava Berlinguer )

C’è sempre questa idea cattocomunista che i poveri siano buoni e di sinistra “per natura” mentre invece sono esattamente come tutti, variegati e in certi casi, come adesso in America o in Europa, esplicitamente e volontariamente di destra, individualisti, conservatori, che puntano all’arricchimento in qualche caso anche avidi di ricchezza.
L’aveva capito già Dostoevskij quando ne “l’adolescente” fa dire al suo giovane protagonista di quel romanzo dickensiano ““la mia idea è diventare un Rothschild, diventare ricco come Rothschild; non semplicemente un ricco, ma proprio come Rothschild”. Sembra un proclama da trapper di periferia di oggi. Che sia bisnipote di questa stirpe di contadini caponi inurbati o che sia figlio 2G di mitranti recenti, la sostanza è simile.

L’unico ad aver  raccontata con aderenza il sosstrato psico-antropologico italiano è stato Vitaliano Trevisan e prima di lui Vincenzo Cerami in “Un borghese piccolo piccolo”.
Una  classe media ex popolana, proletaria e contadina. Altri esempi non romani: “Cartongesso” di Francesco Maino o “La buona e brava gente della nazione” di Romolo Bugaro e “Gli sguardi cattivi della gente “ d iClaudio Piersanti.
Vado a memoria ce ne sono di libri che ci avrebbero consentito una lettura di quel fermento esploso poi con Berlusconi, la Lega e oggi Fratelli d’Italia ma anche il M5S populista di Grillo.

 Ci siamo abbandonati a “Suburra” e “Romanzo Criminale” di De Cataldo, un po’ pasolinianamente, traviati da film-serie, come fossero storie di  “crime” senza riflettere sull’aspetto sociale che esprimeva. Come anche con Gomorra di Saviano (pessimo servizio la serie tv).
Forse già il “Branco” di Andrea Carraro negli anni ’90 rivelava una suburra non idealizzabile, ma anche  Niccolò Ammaniti di “Come dio comanda” – e prima ancora “ Grande Raccordo Marco Lodoli con i suoi personaggi invisibili e non certo inquadrabili in ideologie e “classi” (si ragiona ancora come se esistesse una “classe” in certi ambienti)

L’ideologia cattocomunista si sposa con il sapore cinematografaro post-pasoliniano,  Troppo romano poi. Forse sempre per restare a Roma, meglio di tutti allora sono rappresentativi i personaggi che animano il bar de “Lo stradone” di Pecoraro.  

Oggi alora il proposito è  leggere con attenzione Davide Coppo “Dalla parte sbagliata”  - magari trovo spunti come già in  Andrea Tarabbia “il continente bianco”  (o il Parise de “l’odore del sangue” a cui è ispirato).
Anche ritornando indietro ad altre letterature, come quella britannica, anceh Ken Loach ormai come in Old Oak fa un ritratto spietato de “fu proletariato”. LA coscienza di classe era un miraggio.
Ora poi si inseriscono anche altre complicazioni, ovvero culture e religioni, valori diversi. )l’aveva anche qui anticipato Kurehishi ai tempi di Mio figlio è un fanatico.
Non è sempre “colpa dell’esclusione sociale” . Sta nascendo un processo identitario di ritorno alle radici che accomuna in modo singolare parte di chi vuole respingere i migranti ma Anche parte dei migranti stessi.
 Quell’ideologia che oggi si divide tra una estesa adesione al nazionalismo vagamente o  radicato anche nell’adesione religiosa (come pure fanno molti di seconda e terza generazione in Francia vedi le analisi di molti sociologi dop ogli scontri di due anni fa) oppure sposano la Ideologia totale del consumo, del Cash che puoi fare in modi ritenuti facili, che non contemplano sacrifici, lavoro, emancipazione.   
Ma questa è una parte complessa, tuttavia ciò che mi sembra il tratto comune è proprio la spinta identitaria. Lo è per i tanti francesi che votano a destra o che sono scesi in piazza con i Gilet Gialli. Lo è anche per quelli osteggiati, ma non è solo una “reazione” è un tratto convinto e radicato.  Basti leggere i libri di Eribon o Louis in Francia (anche li una vasta provincia depressa, ex operaia, delusa, arrabbiata, una classe media senza carta né territorio, ormai, già raccontata da Houellebecq che pure con Sttomissione ci  aveva visto lungo )

 

C’è un vasto continente della rabbia, un “eurasia” trans globale che mette assieme rabbie in apparenza diverse, ma tutte con una matrice che sta nel libro di Vance: il tradimento dei sogni di felicità, la promessa di una “promise land” . Bianchi con radici locali e “migranti-discendenti” di 2G che rigettano le promesse, che non credono a regole, percorsi, che hanno solo voglia di “riprendersi il dovuto” magari con espropri proletari come hanno fatto in questi giorni i bianchi razzisti e negli anni passati i nordafricani a Parigi : assaltando negozi di cellulari o di sneaker.

LA rivoluzione è fatta per quello, non per diritti, come del resto le lotte della generazione dei miei genitori : per la pancia, per stare bene, per avere più roba. I diritti, certo ma non sono il primo pensiero e infatti sinistre europee e democratici usa che le hanno cavalcate non hanno ricevuto consensi dall’elettorato tradizionale, ma non tanto per “delusione” quanto perché quel vasto strato popolare ex contadino poi inurbato, come dimostra il libro di Vance si è ripreso un’identità – come stanno facendo per altri aspetti parte delle giovani generazioni di 2G in Francia che spesso protestano con bandiere algerine e marocchine e vagheggiano un “ritorno” messianico alla terra dei nonni).

Non era una “resa” alla destra per delusione, ma la rabbia è stato il motore di una riscoperta di radici mai estinte con un’identità conservatrice che oggi riemerge. Vasti strati popolari che sono sempre stati “di destra” per dirla con una formula veloce.

Che vuole riavere quello che le è stato sottratto. E a quei maschi allevati nella promessa di essere l’asse portante di una tradizione familiare è riemerda la voglia di riprendersi quel sogno “ di tradizione” come mostra bene il libro di Vsnce. Nonostante sia una famiglia di persone che sarebbe meglio evitare, è lo spirto del clan della tribù che prevale è l’identità. Il nazionalismo della propria “nation” (fine del sogno Lennon-BAmbataa-Marley di “una sola nazione”. Oggi prevalgono le mille nazioni-clan. Bianchi, africani, islamici che siano.

Li classifichiamo – quelli bianchi visto che sono partito dall’Ohio – come tossici, privilegiati, violenti, o vittimisti, incel perché in prevalenza maschi. Ce ne sono certo, ma la massa erano figli di chi si è fatto il culo e non ha avuto ciò che meritava – magari proprio a causa di crisi globali dell’economia (e alla fine i veri no global sono i trumpiani oggi) e negli Usa erano anche bianchi orfani, poveri, con fratelli morti nelle guerre, o morti per farmaci oppiacei, proletari intrusi, mal mesi, cafoni, appunto. Figli di cafoni che hanno affollato anche molti romanzi nostrani, ma che abbiamo sempre letto male, interpretato male. Ideologicamente.
Erano vittime, erano i “penultimi” e quando hanno visto le sinistre dedicarsi solo agli “ultimi” hanno ripreso la loro identità, non quella che gli avevano appioppato gli intellettuali di sinistra facendone un ‘ “elegia positiva” ma sempre però esaltando i marginali. Nessuno faceva più “l’elegia dei cafoni” normali, dei burini, dei semplici.
 Ora con una certa dose di rabbia, la rivendicano. E’ tempo in effetti di riscrivere elegie diverse.

CARAVAGGIO 2025, UN BEL REMAKE, MA L'ORIGINALE RESTA INARRIVABILE

  Caravaggio ritorna a Roma come una star del cinema, con la mostra “Caravaggio 2025” inaugurata il 7 marzo e che fino al 6 Luglio è ospita...